L’avventura odierna completa (o quasi!) la traversata compiuta nel settembre del 2023. In particolare, dopo l’apertura della via Valleferro-Ganeo, in discesa dalla Croda Rossa Piccola, scorgemmo una cavità collocata intorno a quota 2600m sulle pareti della Crodaccia Alta. Eravamo allora piuttosto provati e non cogliemmo l’occasione di andare ad esplorarla. Non solo; in occasione dell’apertura della via eravamo giunti ad una quota di 2730m, mancando la forcella di circa 150 metri più a O. Non si era quindi potuto scendere in Val Montejela per l’impluvio generato dalla forcella ma avevamo dovuto praticare una discesa piuttosto complessa su roccia completamente marcia. Oggi, invece, ritengo di aver individuato la via corretta per giungere in forcella dalla Val Montejela. La concatenazione in cresta con il punto di arrivo della Valleferro-Ganeo resta ancora da percorrere… passo dopo passo… vedremo di arrivarci! Compagno dell’odierna avventura è il buon Paolo, sempre fortissimo ed entusiasta, che scopre per la prima volta le bellezze della Val Montejela!
Relazione dell’avventura
Lasciata l’auto nei pressi di Malga Ra Stua, si seguono le indicazioni per salire in Val Montejela come da relazione “Esplorando Ra Montejela” del 19 ottobre 2020. Impressionante come oggi, rispetto alla precedente esplorazione di ottobre 2020, la valle sia sgombra da neve, anche alle quote più elevate. Entrati in Ra Montejela, si procede senza traccia obbligata salendo verso la sezione apicale settentrionale della valle. Si giunge al gradone roccioso che separa la Val Montejela “pianeggiante” da quella più “ripida” e solo qui troviamo qualche timida spolverata di neve, là dove il sole si affaccia ormai solo nelle ore centrali. La temperatura è piuttosto rigida, sotto zero, ed un leggero venticello aumenta la percezione del freddo. A mezzogiorno siamo nel lobo orientale ripido della valle e, solo allora, il sole inizia a scaldarci, complice anche la fatica che aumenta.
L’incedere è ora piuttosto faticoso, su fondo grossolano ed instabile, ma almeno il sole ci dona un po’ di tepore. L’ingresso della grotta è ora nitidamente visibile e, proprio quando ci troviamo a non più di una trentina di metri, una scarica rimbalza tra le pareti della Crodaccia per precipitare esattamente là dove dovremmo entrare. Questo non è un buon segno. Ho visto benissimo la traiettoria dei sassi e mi domando se sia il tipico canale che scarica di continuo oppure se il colpevole sia il fratello del camoscio che abbiamo poc’anzi incontrato nel mezzo della valle. Rifletto al riparo di un grande masso ed attendo Paolo per un confronto sul da farsi. Aspettiamo almeno cinque minuti e nulla più cade. Evidentemente, era il camoscio birbantello. Riprendiamo quindi la salita fino a proteggerci rasenti alla parete della Crodaccia Alta.
Un paio di passi sull’infido e ripido ghiaino e guadagniamo l’ingresso della grotta! Si tratta di un’unica camera profonda circa venti/trenta metri, alta fino a tre metri e larga massimo sei metri. Curiosi stalagmiti ghiacciati impreziosiscono il fondo della spelonca, dalla quale dominiamo un panorama sensazionale sulla valle sottostante.
Salutiamo quindi la nostra inedita grotta, domandandoci quando fu l’ultima volta che passo umano ne solcò l’ingresso. Ritorniamo al riparo dalle scariche rasenti alla parete della Crodaccia Alta e qui mi salta il matto 🙂 Di fronte a me c’è un varco serenamente affrontabile con un facile scrambling. Sebbene non vedo la forcella, il mio fiuto mi dice che dovrebbe essere proprio sopra di me… e decido quindi di iniziare la salita della parete per trovare la via alla forcella! Salgo di almeno una ventina di metri, portandomi leggermente sulla sinistra, verso una spaccatura che cela un impluvio ben poggiato… ed eccola, la forcella è sopra di me, a non più di una cinquantina di metri. E la via è incredibilmente “comoda”. Per quello che posso capire, la forcella sembra essere un piccolo terrazzino di terriccio rossastro, a quota 2723m, su cui si innestano la parete della Crodaccia Alta e la dorsale della Croda Rossa Piccola… parecchio distante dal punto di arrivo della via Valleferro-Ganeo!
Ecco la traiettoria di salita percorsa dalla Val Montejela.
Ed ecco, invece, la traiettoria di salita della Valleferro-Ganeo dalla grande cengia N della Crodaccia Alta, con rappresentazione del numero di tiri. È evidente quanto i due punti di arrivo siano parecchio distanti!!!
Lieto per la scoperta e, soprattutto, per la variazione sul tema non programmata, mi rimetto sui miei passi. Appena mi giro, mi rendo conto che sono salito con così grande entusiasmo e spinta che non mi è chiaro quale sia la via che ho percorso! Mi faccio una fragorosa risata per il grave errore commesso: dopo tutti questi anni di montagna fuori dai sentieri, realizzo di non essere nemmeno all’altezza di Hansel e Gretel! Improvviso quindi una discesa per la via che mi sembra più diretta e… finisco per incrodarmi in una parete che non ha proprio nulla del facile scrambling appena salito. Penso quindi alle parole del mio Maestro Edoardo Valleferro, tutte le volte che in discesa mi invita a fidarmi e a non farmi impressionare dalla percezione di vuoto, e, passo dopo passo, disarrampico fino a vedere Paolo nel ghiaione sottostante!
Atterro finalmente sul sicuro suolo della Val Montejela e, corricchiando sulle mobili ghiaie, raggiungo Paolo per una merita sosta e, soprattutto, per un meritato spuntino (solo nel quarto d’ora di disarrampicata devo aver perduto 2000 calorie). La discesa per la Val Montejala si svolge, come sempre, in un ambiente maestoso. Non un rumore, non un’anima viva disturba il nostro incedere. Da qualche parte, sulla Pala de Ra Fedes, sappiamo che il nostro amico camoscio ci sta osservando incuriosito. Sarà lo stesso camoscio solitario che avevo incontrato nell’ottobre del 2020? Sorrido, al pensiero. La discesa avviene come da precedente relazione, sino a giungere a Malga Ra Stua. All’arrivo, il sole è tramontato, il termometro segna già 0°C e sono le 16.00. Gli ultimi raggi di sole accendono di rosa le magiche rocce della Croda Rossa d’Ampezzo.
Per approfondimenti, vi invito a leggere anche la relazione dell’amico Paolo, che ringrazio per il magnifico video dell’avventura.
Se nella vita non avessi fatto quello che faccio per vivere, avrei fatto l’archeologo. Se infatti da una parte ho sempre trovato avvincente l’alpinismo per il fascino dell’esplorazione fine a se stessa, dall’altra non posso negare che i massimi livelli di soddisfazione scaturiscano per me quando l’alpinismo assume i profili dell’esplorazione storica. Per chi condivide tale emozione, quella che vado a narrare è sicuramente l’avventura perfetta! Ci troviamo in un territorio tra i più anticamente frequentati delle Dolomiti. Nell’area di Pra Comun/Val Costeana sono stati rinvenuti innumerevoli manufatti datati 6.700-5.500 a.C., attribuibili al Mesolitico recente, Castelnoviano. È esattamente qualche centinaia di metri più a valle di questi rinvenimenti archeologici che si svolge l’itinerario odierno. L’idea è quella di percorrere la Muraglia del Giau, dalla statale sino alle pareti dei Lastoni di Formin. Giunti alle pendici dei Lastoni ci prefiggiamo di identificare lo stemma di confine affisso sulla parete. Successivamente, intendiamo cimentarci nella salita dei Lastoni, dai boschi di Ciou de Ra Maza, per un invitante canalone. Compagno dell’avventura è, come di consueto, il fidato e solido Paolo!
Relazione dell’itinerario
Lasciata l’auto nei pressi della statale, si identifica facilmente la muraglia perpendicolare alla strada (d’altro canto, un evidente cartello aiuterà i più distratti!). Iniziamo quindi a seguire i resti del muro sul versante orografico destro della valle e subito questi precipitano ripidamente nel rio de Loschi.
Con un po’ di attenzione, scendiamo al torrente su un terreno erboso e pregno di infiltrazioni sorgive, fino a guadare e rimontare sul versante orografico opposto.
La muraglia sale diretta dentro il bosco in direzione delle Pénes de Formìn. Ma che cos’è questa Muraglia del Giau o, in ladino, marogna de Jou? È, effettivamente, un muro – o quel che ne resta – che collega i Lastoni di Formin con le pendici del Nuvolau, presso il Beco de la Marogna e, come tutti i muri costruiti dall’uomo, è stato edificato per dividere gli uomini e, quindi, segnare un confine. Più precisamente, un confine inteso a regolamentare lo sfruttamento del territorio a fini di pascolo tra la comunità ampezzana e sanvitese, da secoli in lotta tra loro. Risale al 1753, infatti, la decisione con la quale si stabiliva che i cadorini di San Vito, per garantirsi la fruizione dei pascoli secondo gli antichi diritti già sanciti nel XIV secolo, avrebbero dovuto costruire a proprie spese un muro di confine lungo due km, entro novanta giorni, affinché i propri pascoli non sconfinassero in territorio ampezzano. Ecco come recitava il documento ratificato dall’Imperatrice Maria Teresa il 7 aprile 1753:
.. così la Commissione ferma nel suo principio d’impedire, in quanto sia possibile, ogni promiscuità ingionge alla Communità di San Vito già disposta, il preciso obligo di dover a proprie spese alzar una marogna di piedi sei nell’altezza, grossa in fondo piedi cinque, ed in cima due, la quale sarà condotta da un Monte all’altro, principiando dal Sasso Isolato della Gusella sino al termine della Forcella per serrare tutta la Valle troppo comoda al trapasso degli animali, intendendosi ancora obligata la stessa Communità di San Vito al mantenimento perpetuo della detta Masiera, come pure del Restello con il quale dovrà essere assicurata la bocca della medesima, dove passa per mezzo la strada inserviente a commune uso, e ciò parimenti ad esclusione della promiscuità, che potesse succedere dallo scampo degli animali siano minuti o bovini.
Si continua a salire in mezzo al bosco, camminando a gradimento dove risulta più agevole, talvolta sul versante ampezzano talaltra su quello sanvitese, sempre mantenendo la muraglia a vista.
Ad un tratto la muraglia appare sormontata da fitti baranci. Seguiamo quindi una nitida traccia in territorio ampezzano che, compiendo un breve semicerchio, ci immette dentro i fitti mughi. A discapito delle apparenze, la traccia è evidente ed il progredire tra i baranci non ha nulla di quel “ravanage” a cui siamo adusi; al contrario, l’occhio esperto non potrebbe non notare i vari tagli – anche freschi – sui mughi, che, pur non agevolando il passaggio, offrono tuttavia la sicurezza di essere sulla retta via.
L’infrattamento barancioso è peraltro affar breve: si sbuca presto, infatti, in un’area boschiva più rada. La muraglia è sempre al nostro fianco ed i Lastoni di Formin sempre più vicini. La pendenza aumenta gradualmente e la muraglia, su terreno più esposto, tende ora ad appiattarsi, disfatta dal dilavamento piovano di tre secoli. Là dove la muraglia si confonde tra le ghiaie franose, una traccia diparte su territorio ampezzano, verso N, ed aggira un enorme masso coperto di baranci costeggiando uno smottamento.
Ritorniamo puntando a S sulla muraglia, sebbene la certezza di starci sopra ci è data ormai solo dalla posizione satellitare sulla mappa. Essendoci ripromessi di procedere sempre con la muraglia a vista, senza svolgere inutili aggiramenti di ostacoli, puntiamo dritto per dritto verso i Lastoni, entrando in una ripida e divertente fessura tra due massi (quel tipico esercizio di progressione esposta fine a se stesso ed un po’ fanciullesco, posto che aggirando a S è possibile salire su più comodi pendii erbosi!).
Ora la parete dei Lastoni è sopra di noi e subito scorgo la tanto bramata meta! Una cinquantina di metri a monte, una croce con data 1753 separa due lapidi incastonate nella roccia (rectius “nel cengio“!), recanti le simbologie dei due stati confinanti: a N il tipico scudo d’armi asburgico ornato di fregi floreali, in marmo bianco di Falzes, e a S il Leone alato di San marco della Serenessima, con l’evangelario aperto, in pietra di Castellavazzo! Aguzzando l’occhio notiamo che qualche scellerato ha scritto il proprio nome sul cippo austriaco. Poi, leggendo la data a fianco dell’autografo “1866”, non ci resta che sorridere!
Baldanzosi per la lieta scoperta, proseguiamo ora verso N, su evidente traccia che ci conduce in un semplice ed ampio canale. Saliamo su ghiaia e balze erbose, senza troppa fatica, fino a guadagnarci lo splendido plateau erboso sommitale dei Lastoni di Formin.
Ci dirigiamo ora verso S, camminando su questo verde ed ameno altipiano che ha nome Pénes de Formìn (dove “Pénes” significa “pendio roccioso coperto da magra vegetazione”, vedasi Lorenza Russo, Pallidi nomi di monti, pag. 117, 1994). Personalmente, lo ritengo uno dei luoghi più suggestivi delle Dolomiti. Siamo nel mezzo di tutto. Alla nostra sinistra, si ergono le ripide pareti della Croda da Lago, da noi separate dalla profonda Val de Formìn. A destra… beh a destra c’è l’imbarazzo della scelta su dove posar l’occhio…. Tofane, Lagazuoi, Cinque Torri, Nuvolau… e tutto quello che si profila all’orizzonte a perdita d’occhio! Si supera con agevole arrampicata un piccolo catino su facili roccette e gradoni d’erba e si distingue chiaramente la parete verticale del Torrione Marcella. Alle nostre orecchie, giungono le voci di qualche comitiva di scalatori che si cimenta in arrampicata sulla via Nikibi e Paolo Amedeo.
Costeggiando il margine occidentale dell’altipiano, ai piedi del Torrione Marcella, si trova il punto di rottura delle ripide pareti, là dove si crea una selletta erbosa ai cui piedi si genera un impluvio che offre la possibilità di scendere a valle. L’itinerario è tracciato con tanto di ometti e la traccia appare tanto nitida quanto quella di un sentiero CAI.
Si perde velocemente quota, con gran veduta sul Nuvolau, fino a giungere al limitare del bosco. Di qui a breve, il solo udito conduce alle sorgenti che alimentano l’intera valle e che, fin dal Mesolitico, resero questi luoghi tra i più appetibili e graditi per ospitare l’uomo. Il ritorno alla statale si completa seguendo l’itinerario descritto nell’avventura “Alla ricerca delle anguane: esplorando il lago ciou de ra maza”!
Note conclusive
Trattasi di itinerario alpinisticamente facile, di grandissimo pregio storico ed in ambiente suggestivo, probabilmente uno dei luoghi più ameni delle Dolomiti ampezzane. Prestare attenzione nella discesa del canalone ai piedi del Torrione Marcella: la presenza di scalatori potrebbe causare la caduta di sassi che rimbalzerebbero direttamente nella sezione centrale del canalone. Un po’ d’occhio è da prestare anche nella progressione sulle Pénes de Formìn: l’aperto prato è talvolta interrotto da profonde fenditure che solcano il terreno.
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA; AD (due passaggi delicati su roccia liscia, umida e compatta, rispettivamente III+ e III. La difficoltà aumenta proporzionalmente alla presenza di acqua corrente nel canale).
DISTANZA: 13 km – DURATA: 7 h – DSL: 1.200 m+
DATA: 17 agosto 2024
Premesse
Partiamo da un presupposto: tutto quello che di emozionante è stato detto sulla traversata di Forcella Antelao è già stato detto dall’amico Paolo e può essere sintetizzato in questo video. La presente relazione, infatti, intende descrivere la traversata di Forcella Antelao, dalla Val d’Oten ai Piani dell’Antelao, superando il Giou de Ciauderona, completando quel tratto là dove Paolo si era infortunato l’anno scorso ed era stato costretto ad abbandonare l’impresa. Ricordo ancora la sua telefonata nel pomeriggio del luglio 2023, quando mi disse “sai cosa mi è appena successo?….” Ecco quindi che riproviamo l’anello, nel senso opposto a quello tentato da Paolo l’anno scorso, in compagnia dell’abile Edoardo! Relazioni dell’itinerario, come di consueto, non ne ho reperite. Esistono solo delle relazioni della salita invernale in sci alpinistica, che derubricano l’ascesa ad una difficoltà di 2/5… ma, si sa, la neve copre tutto! La salita al Monte Ciauderona (2587m) – per gli amici una volta chiamato anche “Nas” – è citata da Ottone Brentari, nella guida del 1909 “Cadore e Valle di Zoldo – Guida storico-turistica”, partendo dal Cason Antelao, e non dall’omonima forcella. Perché si chiami Forcella Antelao, poi, dividendo il monte Ciauderona dai Festinati, resta davvero un mistero…
Relazione dell’itinerario
Lasciata l’auto a quota 1300 in zona Pian della Gravina si traversa il greto del torrente Òten mirando all’evidente Giou de Ciauderona.
Il Giou de Ciauderona ha la forma di una clessidra: un’ampia sezione inferiore, un drastico restringimento al centro ed una più ampia sezione apicale. La progressione nella sezione inferiore del Giou è tranquilla e agevole. La pendenza è contenuta e si sale, tenendo la destra, sui grandi massi di una recente ed imponente frana staccatasi dal versante N dei Festinati, che ha letteralmente colmato il Giou. Una certa impressione suscita l’osservazione del tetto strapiombante sotto il quale è avvenuto il distacco… quanto reggerà?!
Superata la frana, il canalone si restringe drasticamente. I compatti liscioni glaciali del Ciauderona si innestano nelle corrugate pareti N dei Festinati. L’acqua dei sovrastanti nevai si convoglia nello stretto e ripido canale e lo leviga ulteriormente, lasciando una superficie rocciosa umida e spesso coperta da un sottile strato di muschio. La soluzione di ascesa appare duplice: o si sale dentro il canale, per via evidente ed obbligata, oppure è possibile aggirare verso destra, sulle rocce del Ciauderona, con scrambling fantasioso. La seconda soluzione presenta una certa alea; ciò che sembra facile dal basso potrebbe portare ad incrodarsi in parete. Inoltre, una caduta comporterebbe lo scivolamento per diverse decine di metri senza possibilità di fermarsi. Scegliamo quindi la prima soluzione, anche per divertirci in un’arrampicata che già si presenta piuttosto tecnica ed audace! L’ostacolo è già di fronte a noi. Un enorme masso incastrato tra le pareti dei Festinati e del Ciauderona sbarra la via. Si tratta di superarlo risalendo sulla destra. Ad un primo sguardo, l’ascesa sembrerebbe agevole. Il piano è davvero liscio ma la parete è piuttosto poggiata. Giunti alla base del masso, tuttavia, percepiamo i primi inconvenienti. Innanzitutto, uno strato di muschio scivoloso copre la roccia. Non da meno, il superamento del masso implica uno spostamento sulla destra in assenza di alcun appiglio. L’eventuale scivolamento comporterebbe una caduta per 4-5 metri a valle su roccia levigatissima.
Ci imbraghiamo e faccio sicura ad Edoardo che riesce a piazzare due friend sull’umida fessura ai piedi del macigno. Così facendo, qualora dovesse cadere nello spostamento verso destra, dovrei essere in grado di tenerlo frenando lo scivolone a valle. Ovviamente, Edoardo non cade e, come di consueto, sgattaiola leggero a monte del masso, dove appronta una sosta per assicurare Paolo ed il sottoscritto. È il turno di Paolo ed in chiusura vado io, avendo cura di rimuovere i due friend. Un passaggio di III+ particolarmente delicato che necessita di essere affrontato in sicurezza per prevenire una caduta senza possibilità di arrestarsi se non diversi metri più a valle.
Lieti che nel canale non scorra l’acqua come l’anno scorso nel primo tentativo di Paolo, si prosegue ora verso il successivo ostacolo. Spingendosi dentro una fessura nella roccia si guadagna il più possibile altezza per poi spingersi in fuori sulla placca. Alcuni piccoli appigli consentono una progressione sicura ed il superamento di questo secondo passaggio (III grado) risulta più agevole rispetto al precedente.
Si procede ora su facili roccette con scrambling divertente fino a giungere nella sezione apicale del Giou, dove il canalone si apre nuovamente e, sui liscioni del Ciauderona, riposano i resti di un nevaio. L’incedere non è più ora sulle compatte rocce del Ciauderona ma su sfasciumi e rocce marce. Si sale a fatica cercando un appiglio che non si sgretoli. Un imponente torrione si staglia ora sopra di noi. È la tipica conformazione rocciosa che siede sulla forcella Antelao.
La forcella, in verità, appare tripartita: a N, una stretta sella erbosa da cui si ergono le compatte pendici del Ciauderona (2587m) costituisce la quota più elevata, con i suoi 2188m. Al centro, una stretta sella rocciosa conduce ai piedi del torrione. Verso S, sull’altro lato del torrione, una marcata sella segna l’inizio dei Festinati.
Dopo una breve pausa ristoratrice, iniziamo la discesa verso i Piani dell’Antelao. Su un ripido pendio erboso, si perde velocemente quota mirando alle pendici dei Festinati, sino ad incrociare un impluvio franoso sui cui margini sono collocati due ometti. Sono i primi ometti che troviamo nel corso della giornata. Si traversa l’impluvio e la traccia conduce ai piedi dell’imponente parete rocciosa dei Festinati.
Inizia ora una ripida e faticosa discesa, sempre costeggiando le pareti a picco dei Festinati, su terreno a tratti erboso ed a tratti franoso. Si perde rapidamente quota, sino a deviare entro un piccolo canale detritico immerso tra i mughi.
Si segue quindi il canalino, superando qualche piccolo e divertente salto, fino a giungere al termine della colata detritica che si adagia sull’amena piana dei Piani dell’Antelao. Da qui, piegando a sinistra, si prende il sentiero n. 258 che, superando le Porte dell’Antelao, scende in mezzo al bosco sino al Bar alla Pineta, quota 1044. Peccato però che la macchina sia a quota 1300 sulla strada sterrata! Alla ricerca delle ultime energie, in 40 minuti, si arriva finalmente al mezzo!
Nota conclusiva
Questo è il tipico itinerario dove 13km di incedere relativamente facile possono essere complicati – ed eventualmente compromessi – da 50 metri di passaggi abbastanza difficili. È esattamente quanto successo all’amico Paolo nel suo primo tentativo: aveva quasi completato il giro ad anello ed ha rischiato di farsi mooolto male in questi fatidici 50 metri. In conclusione: trattasi di un itinerario da affrontare con estrema cautela. I passaggi critici sopra descritti devono essere affrontati in sicurezza e prestando particolare attenzione ai tratti bagnati o coperti di muschio. Del pari, attenzione estrema deve essere rivolta al meteo; in situazione di pioggia abbondante improvvisa, i liscioni diventano impraticabili e la sezione centrale del Giou de Ciauderona rischia di gonfiarsi ricevendo le acque delle pendici circostanti.
Ho scoperto il Deserto des Agriates nel 2009 ed è stato amore a prima vista. La polvere dell’ardita pista (oggi ben più accessibile) ed il fascino della Saleccia al primo mattino restano tutt’oggi per me magneti che d’anno in anno mi riportano a scoprire tali luoghi selvaggi. Perché, se è vero che la Saleccia attira migliaia di turisti, via terra e via mare, è altrettanto vero che basta camminare poche centinaia di metri ad ovest per trovarsi in un autentico ed incontaminato deserto. Un deserto, esteso all’incirca 15 mila ettari, che non è sempre stato deserto. Un paio di secoli or sono, infatti, tali luoghi ospitavano quello che poteva considerarsi il “granaio d’Europa”… da qui il nome di “Agriate”. Oggi una bassa macchia secca e lignea ha preso il possesso delle abbandonate coltivazioni. Testimonianze di una passata attività pastorizia si rinvengono nei molteplici “pagliaghji”, rifugi in pietra a pianta quadrata che ospitavano pastori e, in epoche più remote, erano adibiti alla conservazione di paglia e grano; alcuni sono stati mantenuti negli anni più recenti, quale riparo per i cacciatori di cinghiali, altri, di dimensioni più contenute, sono rimasti abbandonati ed oggi sono parzialmente crollati. Inoltre, il territorio è solcato da muretti a secco che fungevano da confini. Ma il Deserto des Agriates cela ben più antichi segreti. Dolmen (chiamati in lingua corsa “stazzone”), menhir (chiamati “petre arrite”), statue menhir (petre zuccate o stantare), sepolture, ceramiche, pervenuti nei pressi dei due più alti rilievi (Monte Genuva e Revincu) fanno risalire la presenza dell’uomo a ben 6 mila anni fa. In totale 79 monumenti, ripartiti su 27 siti, rendono l’Agriate uno dei più significativi esempi di civiltà megalitica nel Mediterraneo. E molto, a parere di chi scrive, è ancora nascosto in un questo esteso ed inaccessibile territorio. Nella presente esplorazione, compiuta in due occasioni, rispettivamente a luglio 2023 in solitaria e luglio 2024 con i miei bambini e l’amico Gila, ho voluto provare a salire al Monte Alli Sordi, chiamato oggi Bocca di Sordali, scegliendo una traiettoria dal mare e non dall’interno.
Relazione dell’itinerario
Si lascia l’auto nei pressi del parcheggio al termine della pista che percorre, per circa 15km, il deserto des Agriates, da località Casta sino al camping U Paradisu. Ci si dirige quindi verso la magnifica Saleccia (plage de Saleccia) per un comodo sentiero recentemente rimesso a nuovo (2023). Giunti in prossimità del mare, invece di scendere in spiaggia, si tiene la sinistra e si imbocca il sentiero dei Doganieri (chemin du littoral o sentier des douaniers), sentiero che da Saint Florent conduce alla spiaggia di Ostriconi (plaga d’Ostriconi), sempre lungo la linea costiera, per una lunghezza di 35km. Giunti nei pressi dell’isolotto roccioso dove un’ansa profonda rientra nella c.d. Spiaggia delle Conchiglie, ci si addentra nel Deserto, tenendosi alla sinistra della palude e trovando la migliore via lungo il costone roccioso. Si procede su una sorta di antico terrazzamento e lo si risale, badando di non scendere nel valloncello che è occupato da una fitta macchia. Al termine del terrazzamento, apparentemente bloccato dalla vegetazione e da un piccolo salto di roccia, si prosegue la linea ideale del terrazzamento, addentrandosi per un paio di metri nella vegetazione e salendo su un terrazzamento superiore. Da qui, si piega drasticamente verso E (sinistra), arrampicando su facili roccette sino a guadagnare la cima della promontorio roccioso.
Si segue ora la linea naturale del crinale roccioso, preferendo la via più agevole, per poi scendere nel valloncello fitto di macchia, mirando all’interno del deserto. In particolare, tenendo la sinistra nel valloncello, si individua un’apertura nella macchia, quasi un tunnel, che permette di superare la barriera vegetativa e giungere sul versante opposto.
Da qui, tenendo leggermente la destra, si trova la migliore via e si rimonta il valloncello sino a giungere alla dorsale da cui si scorge il nuovo più ampio valloncello.
Scrutando sulla destra, in direzione della palude della Spiaggia delle Conchiglie, si individuano i resti del pagliaio più elevato. Lo si raggiunge superando una vegetazione che appare più rada e ci si trova in un’area costituita da due terrazzamenti. Nel primo terrazzamento, si rinvengono i resti di due pagliai senza tetto. In un terrazzamento subito a valle, si rinvengono invece i resti di diversi pagliai e quello che potrebbe sembrare un muretto a secco collocato a guisa di recinto per il bestiame.
Nei pressi dell’insediamento, grazie al metal detector del Gila, troviamo innumerevoli proiettili di fucile ed i resti di un antico strumento di ferro, probabilmente l’impugnatura di una forbice per tosare le pecore. A questo punto, desistiamo per il caldo insopportabile; non c’è un filo di vento e l’umidità è davvero elevata. È da questa posizione che, l’anno precedente, ho tentato la salita alla Bocca Sordali scegliendo traiettorie che prediligessero sempre il raggiungimento delle dorsali più elevate.
La salita procede a grande fatica; l’itinerario si svolge superando un susseguirsi di valloncelli che separano le varie dorsali rocciose. Ogni valloncello è occupato da muri impenetrabili di fitta macchia tagliente (nulla a che vedere con i delicati baranci dolomitici!). Si sale e si scende ripetutamente in queste “trappole” fino a guadagnare una sezione interamente rocciosa che permette di ammirare un panorama sensazionale sulla costa sottostante. Spelonche nelle pareti, piante di rosmarino parzialmente bruciate da incendi di anni passati, arse dal calore e fossilizzate, curiose forme ed aperture nella roccia; un panorama estremo e senza dubbio inviolato: chi potrebbe aver solcato questo itinerario? Forse i pastori che, poco distante la mia traiettoria, più a E, hanno costruito un muretto a secco di confine negli anni che furono.
Arrivo a quota 130 m. Proseguendo è verosimile che si arrivi alla cima della Bocca di Sordali (mancherebbero altri trenta metri di dsl+) ma il caldo opprimente e la volontà di individuare una traiettoria differente per la discesa mi impongono di fare dietrofront. La discesa è anche più audace della salita. Mi sposto più a E, fino a intersecare il muretto di confine a secco che, teoricamente, mi dovrebbe condurre fino alla spiaggia di Saleccia. Ad E del muretto, dove la discesa sembrerebbe diretta, in linea d’aria, fino al Camping U Paradisu, fittissime barriere di macchia rendono impensabile un attraversamento. Scelgo quindi di camminare sopra lo stesso muretto, sebbene spesso questo sia invaso dalla vegetazione che impone di scegliere e seguire una traiettoria alternativa. La discesa continua sino al raggiungimento di un pagliaio in ottime condizioni, collocato in una radura. Mi pare evidente che questa casa sia tuttora utilizzata da cacciatori o pastori come ricovero.
La casa è sita esattamente nella traccia di sentiero che conduce alla Saleccia. Nel giro di un quarto d’ora, scendendo verso E, si raggiunge la spiaggia su nitida traccia.
Nota conclusiva
Molteplici sono le soluzioni esplorative del Deserto des Agriates che tengo nel cassetto. Una considerazione fondamentale merita tuttavia d’essere svolta. Una cosa è muoversi lungo la costa, sul sentiero dei doganieri. Qui la brezza marina riduce leggermente la temperatura corporea e si trovano spesso aree ombrose dove riposarsi. Altra storia è, invece, avventurarsi nel deserto. Il clima è totalmente diverso ed anche la vegetazione muta dall’area costiera a quella più interna. Muovendosi sulla roccia, questa può diventare rovente e la perdita di liquidi può essere particolarmente significativa. L’ho provato più volte sulla mia pelle, correndo andata e ritorno da Saleccia all’entrata del deserto oppure da Saleccia a Ghignu. Nel deserto ci sono delle fonti ma bisogna sapere dove stanno e non sono certo abbandonanti. Talvolta sono prosciugate. Ci sono anche spesso, nei valloncelli più profondi, dei piccoli “laghetti” ove si raccoglie l’acqua piovana, a mo’ di oasi. Tale acqua necessita ovviamente di debita bollitura per essere consumata. Le oasi si trovano sapendo leggere il territorio: là dove vi sono alberi che svettano tra la macchia, significa che c’è acqua. Infine, la roccia dell’Agriate, complice la secchezza dell’ambiente, è soggetta a facile sgretolamento. Ne deriva che un appiglio può letteralmente esplodere sotto i propri piedi o mani. Ciò detto, l’esperienza esplorativa merita sicuramente. Confido, nei prossimi anni, di poter scrivere un’adeguata relazione sulla salita del Monte Genova!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE (sarebbe E se non fosse per il superamento di una frana già subito nella sezione iniziale).
DISTANZA: 14 km – DURATA: 3 h – DSL: 370m +
DATA: 4 febbraio 2024
PREMESSE
Un paio di volte, nelle mie giovani esplorazioni in fuoristrada, mi capitò di percorrere quel ponticello che traversa l’imbocco della Val della Tuara per recarsi sul versante orografico sinistro dell’omonimo torrente. Da lì, una stretta strada conduce ad un ponte sospeso nel vuoto, che dà accesso ad una buia ed ancor più stretta galleria. Ho sempre trovato la strada coperta dal ghiaccio e da frammenti di roccia caduti dalle sovrastanti pendici. Un luogo perennemente all’ombra, agli occhi ostico, al limite del “repulsivo”, al punto che, scherzando, avevo nominato quella valle che si apre a E tra le ripide ed anguste pareti la “Valle del Diavolo”. Oggi, grazie allo spunto del fidato amico Paolo, scopro che si chiama “Val Vajont” e che davvero nulla ha a che vedere con quella che ho sempre reputato essere la Val Vajont, ai piedi degli abitati di Erto e Casso. Questa è invece una valle davvero selvaggia, conchiusa tra il monte Cornet e il monte Zerten, apparentemente frequentata, in questa stagione, solo dai lupi! Triplice è la ragione di tale isolamento: i) il sentiero, sulla mappa un tratteggiato nero, è formalmente ed espressamente chiuso al transito; ii) una frana, nella sezione iniziale, non agevola sicuramente l’incedere; iii) la Val Vajont non conduce ad alcun luogo turisticamente frequentato e, tuttalpiù, consente di svolgere un lunghissimo giro ad anello intorno al monte Zerten. Quali migliori presupposti per andare ad esplorarla?!? Quanto allo studio dell’itinerario, ammetto che non è stato facile districarsi tra le migliaia di contributi che associano ormai da decenni il Vajont esclusivamente al tragico evento a tutti noi noto. E, d’altro canto, alzi la mano chi tra i lettori, al solo nominare “Vajont”, non pensa di primo acchito al disastro. Eppure, dietro il dramma indelebile, v’è una ricca storia di montagna, la storia di quegli abitanti che per secoli hanno vissuto e fruito di queste valli, di questa natura. Una storia che ho trovato narrata da Mauro Corona che, nel libro le Cinque Porte, descrive la Val Vajont nei seguenti termini: “da molti anni, la valle era abbandonata. boscaioli, carbonai e cacciatori non vi andavano più, troppo lontana, impervia, disagevole.”…
DESCRIZIONE DELL’ITINERARIO
Abbandonata l’auto su uno spiazzo poco dopo la chiesa di San Martino, lungo la strada statale, ci incamminiamo imboccando la ripida stradina asfaltata che conduce al ponte presso l’imbocco della Val della Tuara. Sul versante orografico sinistro del torrente Tuara, una scalinata diparte dalla strada carrozzabile, inerpicandosi sul costone erboso. La scalinata è completamente ghiacciata e dobbiamo prestare attenzione nella salita.
Superata la scalinata ghiacciata, il terreno erboso offre un più sicuro appiglio e procediamo più serenamente fino al cocuzzolo sulla collina, ove si erge un piccolo capitello dedicato a Sant’Antonio in Therenton. Sulla destra, il sentiero 901 per Casera Feron prosegue ma un chiarissimo cartello del CAI ammonisce “Percorso inagibile – Impassable path”, accompagnato da un X disegnata con bomboletta spray. Insomma, nessun dubbio: qui si prosegue a proprio rischio e pericolo (come sempre, d’altronde). Se il monito del cartello non bastasse, ci pensano i primi metri di sentiero a risvegliare i sensi intorpiditi dal freddo. La traccia assume infatti presto le sembianze di una cengia; sulla destra, il salto nel vuoto, sotto i piedi, un soffice manto di foglie secche. Procediamo con estrema cautela saggiando delicatamente ogni passo; un inciampo, qui, non darebbe scampo, e ce lo rammenta una triste lapide a memoria di un giovane trail runner precipitato nel baratro sottostante. Superiamo il tratto più esposto e tiriamo un sospiro di sollievo, appropinquandoci ad una frana che ha spazzato via il sentiero. Una loquace scritta sulla parete intima: “Gefhar” (mi domando perché in Val Vajont “pericolo” debba essere scritto in tedesco e non in italiano… e giungo alla conclusione che la dicitura sia stata apposta da un premuroso turista germanofono). In verità, per quella che è la mia attitudine più dolomitica, il superamento di tale tratto franoso mi mette più a mio agio del percorso appena svolto sulla cengia coperta di fogliame!!!
Attraversiamo quindi serenamente la frana, il cui fondo appare ben stabile e la cui pendenza non crea disagi di sorta, fino ad arrivare al margine opposto della frana medesima. Là troviamo il solo passaggio effettivamente “delicato” che merita una certa attenzione, sebbene l’attenzione si traduca più in uno sforzo fisico che in un grave pericolo. Ci issiamo su una corda posticcia legata al tronco di un alberello fino al margine della frana superando un tratto scivoloso di sottile rena e siamo di nuovo sulla traccia.
Con i piedi nuovamente saldi sul sentiero evidente, ci guardiamo indietro. Siamo sul versante orografico destro di una profonda valle. Sull’opposto versante, le ripide balze erbose del monte Zerten precipitano a picco sul torrente Vajont. Il nostro versante, invece, meno inclinato e più “camminabile”, presto ci conduce sul letto del torrente, nel cuore del canyon.
Il paesaggio è davvero suggestivo. La consapevolezza di essere gli unici visitatori di questo luogo remoto aumenta l’emozione dell’avventura. Quand’ecco l’ennesima sorpresa! Ciuffi di pelo, macchie di sangue e resti di intestini sono sparsi sulle rocce del greto. Quale animale è stato sbranato? Pare evidente che il predatore sia un lupo, sicuramente padrone indisturbato di questi luoghi tanto selvaggi.
Continuiamo ad addentrarci nella Val Vajont, fino a che il torrente compie una marcata deviazione ed il sole fa capolino, scaldando le membra intorpidite.
Ed ecco la nuova sorpresa! Evidenti sulla sabbia del greto, si stagliano grandi impronte che mi lasciano perplesso. Le impronte di lupo le ho spesso viste sull’Altipiano del Cansiglio. Questa impronta è veramente grande però, e rotondeggiante. Ho provato successivamente ad informarmi. Chi dice che è sicuramente un lupo di grossa taglia, chi dice che è un orso. Può essere l’autore della carneficina trovata più a monte? Nessuno ha saputo fino ad ora dare una risposta definitiva circa la specie di animale. Io posso dire che le impronte non erano in linea retta una di seguito all’altra.
Riprendiamo il cammino e ci imbattiamo nella prima testimonianza di un’era ormai scomparsa, un’era in cui la valle era, come ricordato da Corona, abitata e frequentata da chi ne traeva beneficio per vivere. Un alto muretto a secco, infatti, posto nei pressi di una ansa del torrente, fa presumere l’esistenza di una qualche abbandonata infrastruttura (parete di una casa? Diga?). La presenza dell’uomo nell’epoca che fu è ulteriormente confermata nel corso dell’itinerario. La sorgente di Acqua Benedetta, segnata anche sulla cartografia, è individuabile sul versante orografico sinistro della valle, ad una ventina/trentina di metri dal corso principale del torrente; consiste in un grande masso bianco incappucciato dall’erba, sul cui apice è infissa una croce di ferro, e ai cui piedi scorre un debole rivolo d’acqua. Il sentiero qui non è ben visibile ed è facile perder la traccia preferendo la progressione sull’alveo del torrente. Altro insediamento archeologico è costituito dal perimetro di una casa (perlomeno, si distinguono i macigni che disegnano una sagoma rettangolare, probabilmente coincidente con le fondamenta dell’infrastruttura). Adiacente al perimetro, giace un grosso masso coperto di muschio con una croce arrugginita conficcata. Un luogo di preghiera per gli abitanti dell’insediamento? Un luogo di preghiera per i viandanti? Una sepoltura? Ho provato a scrivere a Mauro Corona per chiedere lumi a riguardo ma, a distanza di mesi, nessuna risposta è mai pervenuta.
Il sentiero si inerpica ora sul versante idrografico destro, dove ci troviamo improvvisamente di fronte ad un tratto esposto che consente il superamento di un breve salto mediante la percorrenza di assi di legno che, tuttavia, sono completamente coperte da una massiccia colata di ghiaccio. All’interno del ghiaccio, diverse fettucce permetterebbero di “assicurarsi” per superare in sicurezza il breve salto che, peraltro, sarebbe anche serenamente superabile senza fruire delle fettucce. Purtroppo, tuttavia, la colata è così uniforme e massiccia che risulterebbe folle superarla senza la debita assicurazione. Scendiamo quindi sul letto del torrente, superando l’ostacolo, e ci troviamo di fronte ad una nuova spettacolare cascata di ghiaccio.
Ormai inizia ad essere tardi, considerata la stagione. Camminiamo fino al raggiungimento di un ameno slargo, dove consumiamo il nostro frugale pasto. Che luogo spettacolare, inviolato, selvaggio!
Come di consueto, a chi gradisse approfondire, non posso che consigliare la lettura della relazione scritta da Paolo sul suo blog!
Chi ha detto che WINDCHILI presenta solo itinerari alpinisticamente impegnativi?!? Ecco un suggerimento di itinerario adatto alle famiglie, dove portare i più piccini incantandoli con la narrazione di storie di fate ed anguàne! Ma che cosa sono le anguàne? Le anguàne sono figure femminili legate alla cultura mitologica veneto-friulana, tendenzialmente attestate nei territori montani. Trattasi di donne dalle umane sembianze, simili a ninfe, spesso coperte di squame, muschio o corteccia, che vivono nei pressi di ruscelli, sorgenti e laghetti montani (anguàne da ‘aquana’: donna delle acque, sebbene il termine non sia apparentemente riportato in alcun dizionario della lingua italiana). Con specifico riferimento all’ambiente alpino che qui rileva, le anguàne sono spesso raccontate da Karl Felix Wolff, apparendo sagge e benevole verso l’uomo, abili nel canto ed abitanti di grotte nei pressi di ruscelli o specchi d’acqua (“una di quelle donne dei boschi e dei fiumi che, un tempo, si incontravano per i monti o nei corsi d’acqua”, così esordisce Woolf, nel primo capitolo de Leggende delle Dolomiti – Il Regno dei Fanes). Questa – con ulteriori magici particolari – è la storia che ho raccontato ai miei figli in auto, mentre salivamo in montagna, conquistandomi il loro entusiasmo per una gita che tanto può entusiasmare i bambini quanto appagare i genitori in un bosco solitario e fuori dalle classiche rotte.
Relazione dell’itinerario
Appena superata la Muraglia del Giau, entrati nelle Regole di San Vito, si posteggia in uno spiazzo a bordo strada a quota 1863 m. Nella radura prativa, sono evidenti gli ometti che indicano la via ed altrettanto evidente è la traccia da seguire sul prato (fig. 1).
fig. 1 – L’evidente traccia da seguire
Dopo pochi metri, la traccia scende fino al greto di un torrentello dai cigli dirupati (fig 2). Si guada agevolmente e si risale il costone (fig. 3); il sentiero ora si spiega in leggero falsopiano, traversando una radura solcata da deboli rigagnoli d’acqua.
fig. 2 – L’attraversamento del ruscello dirupatofig. 3 – Risalendo il breve costone sino a portarsi nel falsopiano
Ci si addentra nuovamente in un rado bosco, sempre su nitida traccia (fig. 4), superando un caratteristico ed enorme rigonfiamento su un tronco di larice (fig. 5), fino ad accostarsi a un delizioso ruscello dove ci pare di scorgere, in lontananza, due piccole anguàne che fuggono al nostro arrivo (fig. 6).
fig. 4 – Il sentiero entra nuovamente del bosco, superata la radurafig. 5 – Un vistoso rigonfiamento sul tronco di un laricefig. 6 – Il delizioso ruscello dove scorgiamo le prime anguane
Saltiamo ora sull’altra sponda del ruscello e, senza traccia obbligata, camminiamo puntando alla parete occidentale dei Lastoni di Formìn, sotto una debole nevicata di aghi di larici. Di lì a breve, ci troviamo nella sezione apicale del Laghetto Ciou de Ra Maza, completamente prosciugato (a discapito delle indicazioni sulla carta Tabacco), sulla cui sponda orientale non possiamo non distinguere i resti di alcuni muretti di pietra, probabilmente costituenti la base di un antico rifugio pastorale (fig. 7 e 8).
fig. 7 – Matilde lungo il muretto a secco più evidentefig. 8 – Anche sotto la vegetazione, sono in realtà presenti ulteriori muretti a secco
Dopo varie speculazioni sull’origine dei muretti, eccoci finalmente al cospetto del superstite Laghetto Ciou de Ra Maza. È evidente che il livello delle acque del laghetto è inferiore di almeno una trentina di cm rispetto alla normalità… o forse questa è la nuova normalità cui dobbiamo abituarci, dopo estati così siccitose ed inverni così poco piovosi. Comprendere il significato del nome “Ciou de Ra Maza” è invece sicuramente più arduo che raggiungere il laghetto. Una parafrasi non renderebbe onore alla chiarezza con la quale Lorenza Russo chiarisce tale espressione:
Il significato letterale (da “ciòu” ‘capo, bandolo, fine inizio soluzione’ e “màza” ‘bastone del pastore’) è oscuro, ma la presenza della muraglia (ndr: la Muraglia del Giau) suggerisce una allusione ai contrastati rapporti tra ampezzani e sanvitesi. Quindi, se non si tratta di un’espressione, di un’esclamazione di pastori, io leggerei il toponimo come ‘l’inizio/la fine del bastone (cioè ‘del territorio ampezzano’); oppure semplicemente ‘il bandolo della matassa/la ragion del contendere’, visto che da questo laghetto nasce quell’insignificante filo d’acqua che poi diventa “Ra Cošteàna”, cioè il fiume con cui gli ampezzani “bloccavano” i sanvitesi nella loro marcia verso il Giau.
Lorenza Russo, Pallidi nomi di monti, Regole d’Ampezzo – La Cooperativa di Cortina – Cassa Rurale ed Artigiana di Cortina d’Ampezzo, 1994, pag. 120.
fig. 9 – Il laghetto Ciou de Ra Mazafig. 10 – Sempre sul laghetto Ciou de Ra Maza
Il luogo è silenzioso e remoto, popolato da minuscole libellule che volteggiano sopra lo specchio d’acqua. Ci sediamo sulla sponda e consumiamo uno spuntino, mentre Matilde e Claudio continuano a cercare le anguane scrutando dietro ogni albero ed ispezionando ogni spelonca 😉 (fig. 11). Saverio, caro amico e profondo conoscitore di crode ampezzane, mi ha raccontato l’esperienza occorsagli anni or sono:
Mi ero fermato sulle sue sponde per rifocillarmi un po’ e bere un sorso d’acqua. Nient’altro, saranno stati 5 minuti, non di più. Tornato a casa, di sera, piuttosto tardi, mi accorgo che non ho più al polso il mio orologio. Mi ricordavo che avevo dato un’occhiata all’ora poco dopo aver valicato Forcella Giau e quindi decido di tornare sui miei passi la mattina successiva. Parto prima delle 6 e, arrivato al lago, decido di farne il periplo, che non avevo compiuto la sera prima. Ebbene, dalla parte opposta di dove mi ero fermato io, su un sasso, in mezzo ad un bel gruppo di fiori, ecco il mio orologio. Da quelle parti non passa mai nessuno, figuriamoci di notte. Sicuramente una anguana mi aveva ammaliato col suo canto, mi aveva sfilato l’orologio e aveva cancellato i miei ricordi. Pentitatisi poi dello scherzo fatto a quel povero viandante, lo aveva riposto con cura in un punto dove io non ero passato. Pensava che sarei tornato a cercarlo, ma forse sperava che non l’avrei trovato per tenerselo per sé. O forse voleva solo rivedermi; all’epoca potevo definirmi un bel giovane.
fig. 11 – Esplorando un pertugio nella roccia che separa i due laghetti del Ciou de Ra Maza
Consumato il frugale pasto, seguiamo una debole traccia che si stacca sul versante meridionale del laghetto Ciou de Ra Maza e ci inoltriamo tra gli alberi, camminando tra enormi blocchi di roccia, ormai inglobati dal bosco, fino a ritrovarci poco più a monte, sulla traccia principale dalla quale eravamo saliti (fig. 12). Procedendo ulteriormente verso S, si apre una nuova radura umida, un incontaminato prato solcato da delicati gorgoglii sorgivi, puntellato qua e là, ai margini, da giganteschi massi isolati. È nei pressi di queste sorgenti che – secondo mia ferma convinzione – si rinverranno in futuro reperti di antichi insediamenti mesolitici, risalenti a circa undicimila anni fa (fig. 13). Solo cinquecento metri più a monte, infatti, in località Fondel del Prà Comun, è stato recentemente rinvenuto, ai piedi di un masso roccioso, un insediamento databile al mesolitico antico (Sauveterriano), consolidando gli ulteriori dieci ritrovamenti di siti mesolitici realizzati tra il 1972 e il 1994 nella sovrastante area di Prà Comun.
fig. 12 – Risaltiamo sulla traccia principalefig. 13 – La radura delle sorgenti
Rimandiamo tuttavia le ricerche dell'”uomo del Ciou di Ra Maza” ad una prossima uscita, ritornando sui nostri passi, con magnifico sguardo sulla Tofana di Rozes (fig. 14 e 15) e rientrando così per il sentiero dell’andata sino alla strada statale.
fig. 14 – Il ruscello subito a valle della radura delle sorgentifig. 15 – Nei dintorni del Ciou de Ra Maza, con magnifica vista sulla Tofana di Rozes
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Salita del crinale tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia: PD. Salita dalla cengia N della Crodaccia Alta sino alla forcella tra la Crodaccia Alta e la Croda Rossa Pizora: D-. Discesa dalla forcella alla Val Montesela: AD.
Traversata alpinistica fisicamente impegnativa, pressoché priva di indicazioni (bolli ed ometti), su roccia talvolta marcia; necessità di alternare progressione in conserva con soste da allestire con chiodi/friend, affrontando passaggi fino a III+ (non v’è presenza di spit).
DISTANZA: 15 km – DURATA: 9 h – DSL: 950 m D+
DATA: 6 settembre 2023
Premesse
È da un anno e mezzo che accarezzo l’idea di questa imponente traversata alpinistica, studiandone con emozione e cura tutti i più piccoli dettagli. Un itinerario in uno degli ambienti più remoti delle Dolomiti, che presenta innumerevoli incognite. In primo luogo, la traversata della grande cengia N che, a quota 2600m ca, congiunge la Crodaccia Alta con la Piccola Croda Rossa. Nessuno mai pare ve ne abbia accennato in alcuna sede. Interpellato il Maestro Fabio Cammelli a riguardo, ha dichiarato di non aver mai percorso la cengia in questione. In secondo luogo, ma solo per criterio cronologico, l’ascesa della parete che sovrasta la cengia, sino a raggiungere la forcella tra la Crodaccia Alta e la Piccola Croda Rossa… e la discesa sul versante opposto di Val Montesela (Ra Montejela). Nessuna relazione di tale itinerario è stata rinvenuta. A posteriori, infatti, posso confermare che trattasi sicuramente di una prima, che per semplicità ed in onore agli usi passati chiameremo “Valleferro-Ganeo”, auspicando di aver contribuito ad offrire un piccolo e modesto tassello alla storia alpinistica della Croda Rossa. Come in occasione dell’apertura della via “Cristallino Ovest” (vedi relazione), mi sento di esprimere le considerazioni che seguono, anche prevedendo ed anticipando i commenti di eventuali detrattori di per certo più competenti dello scrivente: 1) la via “Valleferro-Ganeo” non è la via più diretta e veloce per giungere alla forcella collocata tra la Crodaccia Alta e la Croda Rossa Pizora… anche perché in forcella non ci arriva nemmeno 😉 Conduce, infatti, in cresta, ca 170 m a O, in una posizione più elevata di ca una ventina di metri rispetto alla quota di forcella; 2) la via “Valleferro-Ganeo” non è la via più semplice per giungere sulla cresta che congiunge la Crodaccia Alta con la Croda Rossa Pizora. La via, infatti, si sviluppa per ca 280 m, da affrontare prevalentemente in arrampicata. Esiste, invece, una soluzione di salita alla cresta (NON alla forcella) apparentemente più agevole; la descrive Paolo Beltrame:
Da qui esiste una facile via di fuga che permette di raggiungere l’itinerario che collega la malga Stolla alla m.ga Cavallo [nda: Rossalm] (ovviamente questa via può venir percorsa anche in salita da chi vuole evitare la lunga cresta proveniente dalla Piccola Croda Rossa). Si scende per ghiaie in versante Nord e si imbocca, ben visibile dall’alto, una cengia ghiaiosa che, verso sinistra, conduce al crinale proveniente da La Crodetta.
Paolo Beltrame, 101% Vera Montagna – Dolomiti/Croda Rossa d’Ampezzo, Michele Beltrame Editore, 2008, pag. 147.
In conclusione, la traiettoria della via “Valleferro-Ganeo” è stata determinata sulla scorta di un attento esame della parete svolto in loco, alla base della parete, e non sulla cresta, prediligendo una linea che solcasse rocce sane e compatte anziché marci pendii detritici. Compagno di questa avventura sarà l’abile ed esperto Edoardo, con il quale ho già avuto il privilegio di condividere molte avventure e l’apertura di una nuova via.
Relazione dell’itinerario
Lasciamo l’auto nei pressi del Rifugio Pratopiazza (2000 m) ed imbocchiamo il sentiero n. 3 fino a giungere nel Cadin di Crodaccia (da me così nominato in occasione di precedente esplorazione con l’amico Paolo), conchiuso tra le strapiombanti pareti della Crodaccia Alta le franose rupi della Crodaccia. È chiaramente possibile raggiungere questo Cadin anche per altra via, da Cimabanche ovvero per il Troi de Milezinque (vedi relazione). Traversiamo quindi il Cadin di Crodaccia, mirando alla sella dove le compatte lastre della Crodaccia Alta si incuneano dentro la marcia e rossastra roccia della Crodaccia (fig. 1). Le ripide ghiaie risultano piuttosto stabili e risaliamo sino alla base della Crodaccia, dove una modesta cengetta, che diparte da una rossa terrazza panoramica (fig. 2), ci consente un incedere più agevole verso il bicolore canale di risalita (fig. 3).
fig. 1 – Il Cadin di Crodaccia e la traiettoria da tenerefig. 2 – La rossastra terrazza panoramica sovrastante il Cadin di Crodacciafig. 3 – Approdati sul canale di risalita “bicolor”: sulla destra, il marcio rossastro della Crodaccia e sulla sinistra la compatta roccia della Crodaccia alta
Appena approdati sulla solida roccia della Crodaccia Alta, ci attende una divertente progressione sui grigi e levigati lastroni che, con una pendenza di circa il 45%, si innestano letteralmente dentro la terrosa materia della Crodaccia (fig. 4). È davvero singolare che due montagne appartenenti allo stesso gruppo possano mutare così drasticamente geomorfologia, a così breve distanza (fig. 5)… ebbene, questa è la Croda Rossa!
fig. 4 – La progressione sui lastroni della Crodaccia Alta nei pressi della forcella tra Crodaccia Alta e Crodacciafig. 5 – Il lembo detritico e rossastro, spigolo estremo della Crodaccia, si “appoggia” morbido sulle solide grigie rocce della Crodaccia Alta
Procediamo con attenzione sui lastroni inclinati, sfruttando le generose fenditure che ci permettono di eseguire una divertente arrampicata (fino a II) (fig. 6 e 7), fino a che un settore dello spallone più gradonato smorza la pendenza e ci consente di tornare bipedi. Dalla Crodaccia, un camoscio ci osserva incuriosito… quante persone avrà mai visto su questo crinale!?! Intercettiamo anche un ometto, segnavia dell’itinerario di ascesa della Crodaccia Alta, e lo superiamo, tenendoci leggermente sulla destra, giungendo ora sulla sommità dello spallone, in un settore quasi pianeggiante (fig. 8). Nell’assoluto silenzio di questi luoghi inviolati, il nostro passaggio spaventa una lepre selvatica, che salta elegantemente tra le rocce: una vera e propria lepre montanara, a 2600 m di altitudine!!!
fig. 6 – La divertente progressione sui lastronifig. 7 – Sempre risalendo i lastronifig. 8 – Sulla sommità dello spallone che congiunge la Crodaccia Alta con la Crodaccia
Siamo ora finalmente in vista della cengia (fig. 9): la tanto agognata cengia N della Crodaccia Alta. È da un anno e mezzo che me la figuravo… me la immaginavo più stretta ed inclinata. È invece un cengione enorme (fig. 10), e nella prima sezione ospita addirittura due piccoli catini. Traversiamo quindi questa distesa lunare, pressoché pianeggiante, con grande fatica nell’incedere, camminando su grandi ed instabili rocce (fig. 11).
fig. 9 – Ecco la cengia nord della Crodaccia Altafig. 10 – Alla faccia della cengia 😉fig. 11 – Camminare su questa superficie è un incubo!
Ci si dirige quindi alla base di uno sperone roccioso, là dove la cengia si restringe ed inizia a declinare verso il crinale de La Crodetta. Questo è il punto di attacco della nuova via “Valleferro-Ganeo”, a quota 2630 m ca, facilmente individuabile in quanto pochi metri a valle di una rientranza nella parete causata da un distacco di roccia (fig. 12). Il primo tiro ci porta a risalire il crinale dello sperone roccioso, su roccia marcia e terreno detritico, fino ad un robusto pinnacolo dove il primo di cordata può dare volta per assicurare sé stesso ed il secondo (fig. 13).
fig. 12 – L’attacco della via “Valleferro-Ganeo”, quota 2630 m, subito a valle della caratteristica rientranza nella paretefig. 13 – Il primo tiro risale su rocce incerte fino ad un robusto pinnacolo
Il secondo tiro attacca la parete frontalmente e si sviluppa in verticale, per ca una ventina di metri (fig. 14). La roccia è ora compatta e sicura e l’arrampicata più aerea. Superata la parete, si giunge su una comoda cengia dove non mancano solide rocce sulle quali allestire una sosta (fig. 15) e dalla quale si può apprezzare nella sua interezza la cengia N di Crodaccia Alta poco prima percorsa (fig. 16).
fig. 14 – Il secondo tiro fig. 15 – La comoda cengia dove allestire la sosta per il secondo tiro fig. 16 – La grande cengia N di Crodaccia Alta. Si distingue la traccia che abbiamo lasciato con il nostro passaggio sul ghiaione vergine
Il terzo tiro da 30 m ci porta a spostarci verso destra, su una parete più poggiata e sempre di solida roccia (fig. 17 e 18), fino a raggiungere una ripida parete gradonata dalla quale già distinguiamo la stretta sella che andremo a raggiungere (fig. 19).
fig. 17 – Con il terzo tiro deviamo verso destrafig. 18 – Gli ultimi metri del terzo tirofig. 19 – Dall’arrivo del terzo tiro, già notiamo la sella che andremo a raggiungere, sulla destra
Procediamo ora in conserva, traversando il costone della parete su mobili ghiaie (fig. 20), fino a raggiungere una selletta terrosa, con tanto di ometto (fig. 21). È questo verosimilmente il punto di arrivo della via descritta da Paolo Beltrame, citata in premessa.
fig. 20 – Il traverso procedendo in conservafig. 21 – La selletta terrosa con ometto, probabile punto d’arrivo dell’itinerario descritto da Paolo Beltrame
Gli ultimi metri di questa progressione in conserva sono i più delicati. Traversiamo la selletta e ci troviamo su una ripida ed insidiosa cengia detritica, in leggera discesa e completamente marcia (fig. 22). Con grande cautela, percorriamo la cengia, fino ad aggirare lo spigolo (fig. 23) e ci troviamo in un largo canale altrettanto marcio e dirupato.
fig. 22 – La cengia inclinata e detritica subito superata la selletta terrosa fig. 23 – Con cautela, aggiriamo lo spigolo della cengia detritica
Inizia ora il quarto tiro di arrampicata, alpinisticamente il più impegnativo. Sull’opposto lato del canale detritico, individuiamo un intaglio nella roccia che risale la parete e decidiamo di seguirlo (fig. 24). Procedere all’interno dell’intaglio si rivela tuttavia presto poco saggio: il terreno è così marcio che ogni appiglio si sgretola ed il movimento della stessa corda genera piccole scariche. Più sicuro è invece progredire sul bordo sinistro dell’intaglio, che appare più affidabile. Mi apposto comunque dentro una sporgenza nella roccia ed Edoardo attacca la parete con estrema delicatezza, quasi camminasse sulle uova (fig. 25)! Ciò nonostante, dopo una decina di metri, una bella roccia rossastra si stacca dalla parete e si proietta nel cielo esattamente sulla traiettoria del mio volto; abbasso repentinamente la testa e mi insacco dentro la sporgenza che avevo scelto come riparo. Sento il sibilo della roccia che mi supera e non posso che ringraziarmi per essere sempre così pedantemente attento alla sicurezza e, nel caso di specie, alla regola che impone al secondo di avere un buon riparo, soprattutto quando è sulla stessa linea del primo 😉 A metà del quarto tiro, superato il primo intaglio, se ne apre un secondo. Il superamento di questo secondo intaglio rappresenta forse il passaggio più delicato dell’intera progressione; lo si affronta in opposizione, cercando di portarsi il prima possibile sulla parete di destra, che presenta appigli più sani.
fig. 24 – L’intaglio che scegliamo di risalire per il quarto tirofig. 25 – Edoardo attacca il quarto tiro, la sezione più delicata dell’intera ascesa
Ora la parete si fa più gradonata ed il quinto tiro si svolge su roccia nuovamente compatta, puntando leggermente a sinistra (fig. 26) fino a giungere ad una comoda cengetta pietrosa inclinata. La traversiamo in conserva fino a guadagnare un piccolo rilievo (2730 m) in cresta (fig. 27).
fig. 26 – Il quinto tiro si svolge su roccia gradonatafig. 27 – La cengetta inclinata che conduce finalmente in cresta
Siamo sul fil di cresta, il panorama è maestoso, la giornata magnifica; finalmente si apre ai nostri occhi la Val Montesela (Ra Montejela), sovrastata dalla cima della Croda Rossa, 3146 m (fig. 28 e 29). La forcella dove saremmo voluti giungere si trova a ben 170 m in direzione E rispetto a dove ci troviamo (fig. 30)!!! Probabilmente, dopo il 3° tiro, avremmo dovuto deviare verso E ed in un solo tiro saremmo giunti in forcella. La parete, tuttavia, appariva particolarmente ripida su quel versante e ci saremmo verosimilmente trovati ad affrontare passaggi di V. L’itinerario di ascesa che abbiamo preferito è certamente più lungo (ca 280 m di sviluppo e 100 m D+) ma indubbiamente più sicuro, specialmente per il primo di cordata che si muove su una parete non attrezzata.
fig. 28 – Sul fil di cresta, 2730 m, con alle spalle il versante settentrionale di Malga Cavallo (Rossalm) e de La Crodettafig. 29 – In cima, con alle spalle la parete N della Croda Rossa e la sezione apicale della Val Montejelafig. 30 – Rappresentazione grafica della via Valleferro-Ganeo
Dopo una brevissima pausa ristoratrice, iniziamo la discesa. Affrontiamo i primi cinque metri zig-zagando tra facili roccette (fig. 31) fino a giungere su uno spigolo che conduce ad un terrazzino aereo, circa cinque metri sopra un canale detritico che taglia la parete in diagonale. Affrontiamo questi cinque metri verticali disarrampicando (fig. 32) (e qui perdo i miei occhiali da vista ritirati dall’ottico esattamente il giorno precedente. Se qualcuno volesse tornare…….. ;-).
fig. 31 – La prima sezione in disarrampicata su facili roccette, poco a valle della crestafig. 32 – La discesa nel ripido canale che taglia la parete in diagonale
Percorriamo quindi il canale in conserva, badando di traversarlo, alla fine, portandosi sulla sinistra (perché il canale finisce nel vuoto!), approdando su una parete di sfasciumi, colorata di muschi e chiazze di timida erbetta (fig. 33).
fig. 33 – La discesa del canale, al cui sbocco bisogna tenersi a sinistra, sulle balze detritiche
Si continua la discesa, sempre in conserva e sempre mirando verso sinistra, disarrampicando su facili roccette (fig. 34 e 35)
fig. 34 – Si tiene la sinistra tra facili roccettefig. 35 – Edoardo in disarrampicata su facili roccette
Si tratta ora di affrontare una ripida cengia detritica che taglia in diagonale la parete per una ventina di metri, sempre muovendo verso E. Allestiamo una sosta con un friend (fig. 36 e 37) e procediamo in disarrampicata per una quindicina di metri (fig. 38).
fig. 36 – La cengia detritica da percorrere in leggera discesafig. 37 – Il mio friend torna sempre utile!fig. 38 – In disarrampicata sulla cengia inclinata
Ci si trova ora alle pendici di uno spigolo roccioso (fig. 39), che traversiamo alla base, mirando verso O, con un traverso molto delicato su roccia marcia, da superare con spaccata aerea sopra un canalino (fig. 40: il traverso indicato con freccia).
fig. 39 – Alla base dello spigolo roccioso da traversare verso Ofig. 40 – Il traverso alla base dello spigolo roccioso: in prossimità della freccia si supera con spaccata aerea un canale detritico
Siamo ora nel tratto finale, sopra uno stretto intaglio nella roccia marcia e friabile; si tratta di svolgere una calata di circa una ventina di metri dentro il canale che conduce finalmente sulle ghiaie alle pendici della Crodaccia Alta. Allestiamo una sosta su due solidi speroni rocciosi (abbandonato cordino e ghiera) (fig. 41) e scendiamo in disarrampicata dentro il canale che presenta il susseguirsi di tre gradoni alti un paio di metri ciascuno (fig. 42 e 43).
fig. 41 – La sosta allestita per la calatafig. 42 – Il canale marcio che conduce al ghiaione alla base della Crodaccia Altafig. 43 – Il terzo ed ultimo gradone finale del canale che conduce al ghiaione
Il gioco è fatto 😉 Posiamo il piede sul ghiaione a quota 2708 m su un terreno squisitamente morbido, quasi la Croda Rossa avesse voluto premiarci per questa audace avventura esplorativa! Scendiamo quindi il ghiaione, tenendo la sinistra per evitare un evidente salto di roccia, su un comodo ghiaione dal fondo terroso che ammortizza il nostro stanco incedere (non durerà molto 🙁 ) (fig. 44). Nel piccolo catino alla base della Crodaccia Alta, corrispondente alla sezione apicale settentrionale della Val Montesela, in un luogo completamente inviolato, scorgo un oscuro pertugio che spicca nitido sulla luminosa parete (fig. 45). Mi fermo, titubante… per oggi è abbastanza, ma so che la curiosità tornerà a fare capolino nei prossimi anni!
fig. 44 – La piacevole discesa sul ghiaione nel lobo apicale settentrionale di Ra Montejelafig. 45 – La grotta che si apre ai piedi della Crodaccia Alta, nel catino settentrionale della Val Montesela
La pendenza è ora diminuita e l’incedere sul ghiaione diventa particolarmente impegnativo, specie alla fine di una simile giornata. L’ambiente che ci circonda, tuttavia, ripaga ogni sforzo, e la maestosità dell’immenso ed imponente spazio incontaminato sovrasta ogni fatica, investe e riempie di silenziosa emozione.
fig. 46 – La Val Montesela (Ra Montejela)fig. 47 – Le pareti a picco della Piccola Croda Rossa (Croda Rossa Pizora)fig. 48 – La traiettoria di discesa, nel lobo settentrionale della Val Montesela e la prima fonte di acqua da Malga Stollafig. 49 – L’imbocco di Ra Montejela
Siamo ora giunti all’imbocco della Val Montesela e scegliamo di scendere a Malga Ra Stua per Ra Jeralbes, lungo il vecchio sentiero 0. Maggiori dettagli sulla via di discesa (anche, eventualmente, verso Lerosa) possono essere rinvenuti nella relazione “Esplorando Ra Montejela”.
Considerazioni finali
Probabilmente, questa è l’avventura esplorativa più impegnativa mai portata a termine. Non la più faticosa (la più faticosa è stata l’apertura della via “Cristallino Ovest“) né la più estrema quanto a esposizione (metterei al primo posto la traversata di Forcella Campale). È stata però la più lunga in ambiente sconosciuto, muovendosi nell’incertezza di essere sulla via corretta, nel dubbio che alla fine del tiro vi sia un altro possibile tiro o una liscia parete nel vuoto. È questa lunga permanenza in un ambiente vergine, su traiettorie mai solcate prima, che ha reso “impegnativa” l’esplorazione. Si aggiunga a ciò la variabile della roccia marcia, condizione ben nota quando ci si muove in Croda Rossa. È chiaro che una simile traversata, in ambiente tanto solitario e remoto, è rivolta ad un escursionista navigato, avvezzo ad avventurarsi in itinerari non segnalati né tantomeno attrezzati e, ovviamente, provvisto delle necessarie competenze tecniche ed attrezzature.
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA (solo tre brevi passaggi sono classificabili come EE; il resto dell’itinerario può essere considerato E. L’attrezzatura è facoltativa; sebbene gli accessi al canalone principale siano ora assistiti da corde, un escursionista esperto può semplicemente tenere la corda a mano per aiutarsi nella salita/discesa)
DISTANZA: 6,5 km – DURATA: 4.00 h – DSL: 450m D+
DATA: 3 e 30 settembre 2023 (con terza uscita di rifinitura in data 15 ottobre 2023)
Premesse
Un luogo assume significato in funzione della sua memoria. Ciò che agli occhi si profila come un’anonima sequenza di bosco, baranci e canaloni, di per sé priva di inedito pregio e bellezza, si riempie di contenuto rievocando le gesta ivi compiute a distanza di un secolo. E questo – lo valuterà poi il lettore – è quanto spero sia accaduto con il lavoro di ri-apertura del sentiero dei Volontari Alpini del Cadore e degli Alpini del Fenestrelle.
Il tutto è nato con la lettura del libro di Dino Colli et alia, “Itinerari segreti della Grande Guerra nelle Dolomiti”, vol. III, 2005, Guide Gaspari. Più precisamente, mi sono imbattuto nel capitolo, a mano di Giorgio Tosato, dedicato alla scomparsa traccia battezzata “Sentiero dei Volontari e degli Alpini del Fenestrelle”. Qui ho trovato due mappe, la prima evidentemente stilata in tempo di guerra. Eccole a seguire.
Come fare a resistere? Due indizi così preziosi… la seconda mappa, in particolare, così chiara e ben definita… Ho quindi recuperato una recente mappa cartacea e mi sono messo con pazienza e cura a disegnare la traccia del sentiero scomparso. L’itinerario che ne è risultato è un sentiero relativamente corto, circa 3 km, che si sviluppa sulla sezione meridionale del Forame. Il Forame, come lo descrive Antonio Berti, è
l’ultima propaggine nord del contrafforte roccioso nord-ovest del Gruppo del Cristallo; è una propaggine quasi tutta rocciosa e sabbiosa, bucherellata e frantumata per se stessa e per effetto del martellamento di fucili, mitragliatrici e cannoni
A. Berti, 1915-1917 Guerra in Ampezzo e Cadore, Mursia, 1992, pag. 85
Non a caso, “foràme” significa proprio burrone, fenditura rocciosa, ad indicare i vari impluvi e canaloni che solcano queste pendici. Da notare peraltro che, agli inizi del ventesimo secolo, i trinceramenti collocati sul Forame, ai piedi del Col dei Stombe, erano chiamati le “trincee di S. Blasius”, atteso che l’area sottostante il Rif. Ospitale porta ancora oggi il nome di San Biagio.
La più completa fonte storica che mi ha permesso di ricostruire vicende ed aneddoti della guerra nel Forame sono le narrazioni dell’alpino Edgardo Rossaro, pubblicate su “Con gli alpini in guerra sulle Dolomiti”, Mursia, 2018. A partire dall’estate 1916, in particolare, il territorio del Forame fu presidiato dal Battaglione Alpini Fenestrelle e dal Corpo Volontari Alpini del Cadore, comandato dal capitano Celso Coletti. Rossaro, arruolatosi tra i Volontari Alpini nel 1914, specificava che
il Corpo o Reparto Volontari Alpini del Cadore esisteva da anni, prima della guerra. Questo corpo, fondato dal maggiore Edoardo Coletti, era paragonabile ai Reparti Premilitari degli anni Trenta. Era nato per generazione spontanea in paesi di frontiera, dove il contatto con il secolare nemico e il ricordo delle antiche lotte sempre vivo nelle popolazioni, mantenevano uno stato di incompatibilità con il vicino. (…) I Volontari Alpini non vestivano la divisa né portavano stellette, ma li distingueva il solo cappello, di cui erano orgogliosi.
Successivamente, Antonio Berti definiva i Volontari come
una compagnia di autentici volontari, reclutati tra i montanari delle valli cadorine, originariamente destinati al servizio territoriale, ma, fin dal luglio 1915, schieratisi in prima linea e già provati da aspri combattimenti sul Peralba, a Passo Sesis, in Val Visdende.
In occasione della presente esplorazione, dapprima insieme al Gila, amico ed appassionato di storia militare, successivamente con gli storici compagni Paolo e Riccardo, cercheremo di individuare il sentiero che traversava il Forame, strategico passaggio della fanteria italiana dalle retrovie di Ponte Stombi alla prima linea delle Punte del Forame. Come si leggerà a breve, in occasione della prima uscita, abbiamo sì trovato il sentiero ma l’esplorazione si è fermata a metà esatta dell’itinerario, a causa di un ostacolo che abbiamo reputato “temporaneamente insuperabile”: l’entrata nel profondo canalone che taglia drasticamente i verdi costoni solcati dal sentiero. È servita una seconda uscita, armati di corde, piccolo seghetto per le situazioni disperate e grande pazienza per costruire i vari ometti, per completare nella sua interezza il sentiero e renderlo nuovamente praticabile all’escursionista che gradisca riscoprire un luogo profondamente impregnato di storia ed abbandonato da oltre un secolo. Infine, con una terza uscita, abbiamo rifinito tutto quello che ci era prima sfuggito, raccogliendo parte dei reperti e dello scatolame e ponendolo inequivocabilmente a mo’ di ometto.
Relazione dell’itinerario(I° tentativo)
Lasciata l’auto nei pressi del Rif. Ospitale, imbocchiamo il sentiero CAI n. 203, che inizia qualche metro a valle della passeggiata della Ferrovia, traversato il Rio Felizón. Il sentiero prende quota e devia a breve verso SE, costeggiando la ripidissima forra del Rio Bosco, all’imbocco della Val Grande. Si procede sino a trovare una piccola radura nella quale si innesta, sulla sinistra, il sentiero che conduce alla ferrata Ivano Dibona. Si prende quindi questo sentiero e lo si segue fino a quando il sentiero svolge una brusca curva sulla destra. Il sentiero dei Volontari e degli Alpini del Fenestrelle parte esattamente da questa curva a gomito (fig. 1). Trattasi di un’esile traccia nel bosco (fig. 2) che, attestandosi a quota 1750 ca, si spiega sulle pendici del Col dei Stombe (2013m), diventando a tratti più nitida laddove si traversano radure più spoglie di vegetazione (fig. 3). L’itinerario segue dapprima la direzione NO, per poi piegare verso E. Se talvolta la traccia tende a perdersi, ritroviamo la via rinvenendo antichi tagli di radici e baranci, ormai secchi e pietrificati (fig. 4).
fig. 1 – Là dove il sentiero compie una brusca svolta a destra, si imbocca a sinistra, in mezzo al bosco.fig. 2 – L’esile traccia in mezzo al boscofig. 3 – La traccia diviene più nitida quando si abbandona la fitta vegetazione del boscofig. 4 – I preziosi indizi di questo itinerario
Si prosegue ora in direzione E, spesso aderenti agli speroni rocciosi alla base del Col dei Stombe (fig. 5), iniziando a traversare una serie di canali. Quattro canali, per la precisione, nei quali entriamo ed usciamo senza alcuna difficoltà, incedendo su un terreno sicuro senza mai perdere la traccia.
fig. 5 – I primi speroni rocciosi del Col dei Stombe
Là dove la traccia si presenta ambigua, dividendosi, identifichiamo la corretta via, chiudendo con sassi l’imbocco errato e costruendo un ometto sul sentiero da tenere (fig. 6). Superati i canali, si giunge nei pressi di un trinceramento scavato nella roccia (fig. 7) nei cui pressi giacciono, inviolati, piccoli depositi di residuati della prima guerra mondiale (scarpe, gavette, scatolette di cibo, schegge di granate, proiettili… e tanto altro… (fig. 8 e 9).
fig. 6 – Barrando la traccia non corretta ed indicando la corretta viafig. 7 – La caverna artificiale nei pressi del trinceramento, con appoggiati ai lati i reperti ritrovati nei dintornifig. 8 – Che cos’è? Uno scudo? Una base di piccolo mortaio deformata? In ogni caso, è evidente la “rattoppatura” ed un piccolo foro di proiettile.fig. 9 – Un caricatore italiano fucile Carcano mod. 91 intatto
Raccogliamo parte del materiale (lavoro questo svolto specialmente in occasione della terza uscita) (fig. 10) e lo poniamo a mo’ di ometto lungo il sentiero. Così i resti di una gavetta, di una stufa, di una vecchia pentola smaltata, le schegge di granata, le suole ed i tubi delle tende diventano utili indizi là dove la traccia tende a diventare incerta (fig. 11, 12, 13, 14).
fig. 10 – Raccogliendo i vari reperti per un uso più… “utile”!fig. 11 – Nei tratti ove il sentiero tende a scomparire, il fondo di una gavetta diventa un ottimo indicatore di viafig. 12 – Due schegge di granata ed i resti di una scarpafig. 13 – I tubolari che reggevano le tendefig. 14 – I resti di una stufafig. 15 – La pentola smaltata
Siamo ora giunti indicativamente a metà del sentiero, in corrispondenza di un albero schiantato alla base della cui zolla rinveniamo una moltitudine di scatolame; da qui in poi, la via è sbarrata da un fitto intrigo di baranci (fig. 11). Dalle trincee di cui al canalino prativo dove ci troviamo in presenza dell’albero schiantato, la pendenza del terreno è aumentata. Sopra la nostra testa, incombono oltre trecento metri di ulteriore montagna. Dovrebbe essere proprio in questa sezione del sentiero che, in data 2 marzo 1916, perdettero la vita 6 soldati del 92° Regg. Fanteria 1° compagnia, travolti da una valanga staccatasi alle ore 22.00. (fonte: pietrigrandeguerra.it).
In occasione di questa prima uscita, non abbiamo individuato il corretto passaggio per la prosecuzione del sentiero. A seguito di un faticoso ed inutile ravanage, abbiamo penetrato il fitto muro di mughi esattamente all’altezza dell’albero schiantato, giungendo nel canalone principale sul ciglio di una parete di oltre una decina di metri, a picco. A posteriori, come si descriverà infra, dall’albero schiantato la traccia sale di pochi metri dentro il canale prativo. Abbiamo collocato un vecchio tubo di stufa là dove il sentiero traversa i baranci e praticato qualche taglio essenziale, permettendo un più comodo accesso al canalone. Onde evitare di farsi male – il canalone è profondo, con cigli ripidi e dirupati – è opportuno individuarne con precisone l’accesso, entrando tra il tubo di stufa ed un taglio praticato ad hoc (fig. 16)
fig. 16 – L’entrata dentro il canalone
Relazione dell’itinerario(II° tentativo)
È trascorso poco meno di un mese ed eccoci nuovamente alle pendici del Forame, determinati a concludere quanto rimasto in sospeso. Oggi mi accompagnano gli amici Paolo e Riccardo; percepisco il loro entusiasmo e già dai primi passi realizzo che, costi quel che costi, oggi l’uscita non potrà dirsi terminata fino a che non avremo completato la ri-apertura del Sentiero dei Volontari Alpini del Cadore e degli Alpini del Fenestrelle. Ho riflettuto molto sulla strategia da adottare in questa seconda uscita ed ho concluso che la soluzione più saggia sia trovare ed imboccare il sentiero da N, sul versante del rio Felizòn, fino ricongiungerci là dove ci siamo fermati con il Gila un mese fa. Prendiamo quindi la mulattiera ai piedi del rif. Ospitale, tenendo la sinistra al bivio, così costeggiando la recinzione dell’acquedotto. Di lì a breve, deviamo verso E, sulla dx, entrando nel bosco senza traccia obbligata. In ordine sparso battiamo il bosco fino a che troviamo la traccia che risale, coincidente con il “camminamento perimetrale” riportato nella carta della prima guerra. La traccia risale gradualmente, giungendo pressoché sul margine del precipizio che sovrasta il greto del rio Felizòn (fig. 1), fino ad incrociare un largo valloncello detritico (fig. 2) entro cui ci immettiamo (fig. 3).
fig. 1 – La traccia che risale sul bordo del precipiziofig. 2 – Il largo valloncello detriticofig. 3 – Entriamo nel valloncello
Risaliamo il greto ed iniziamo la ricerca di un qualsiasi indizio che ci lasci intuire l’attacco del sentiero abbandonato, che traversava in origine il valloncello su cui ci troviamo. Questi valloncelli, strette aperture nel bosco, rappresentavano gli obiettivi preferiti dall’artiglieria austriaca; i soldati italiani, infatti, nel percorrere il sentiero che stiamo oggi cercando, erano costretti ad abbandonare il riparo dei fitti mughi per passare da un ciglio all’altro dei canaloni, così esponendosi al tiro del nemico. Ecco un colpo caduto poche decine di metri più a monte del nostro sentiero (fig. 4); intorno, alcuni shrapnel ci ricordano quanto distruttivi fossero questi proiettili.
fig. 4 – Un proiettile carico di shrapnel
È probabilmente proprio nell’attraversamento di questo valloncello che si consumarono i tragici minuti descritti da Edgardo Rossaro:
Avevamo già superato il lungo camminamento, quando, a un alt, il tenente mi fece chiamare: si trattava di fare un piccolo disegno per un capitano, uno schizzo planimetrico delle posizioni avanzate. Affare di mezz’ora. Obiettai: «Ma come farò a raggiungerli? È quasi buio e io oltre il 3° posto di collegamento non conosco la strada». «Le manderò incontro un compagno pratico.» Infatti, prima ancora del 3° collegamento, trovai Da Rin che mi veniva incontro. Era ormai buio fitto; piovigginava. Ma il buon amico si appese alla schiena un fazzoletto bianco, perché potessi, seguendo quel segno più chiaro, trovare la direzione. «Sta attento, ora in questa valletta, perché fanno un continuo tiro di sbarramento. Segui la linea dei sassi che si vede più chiara, e parti di corsa subito dopo arrivata una granata. Andiamo uno per volta per offrire minor bersaglio. Per fortuna il punto pericoloso è breve». Proprio davanti a noi una granata scoppiò con uno schianto infernale e illuminò di luce livida la stretta fenditura tra due massicci. Doveva certo essere un grosso calibro. S’era appena spenta la fiammata che Da Rin disparve. «Ora tocca a me.» L’altro colpo non si fece attendere più di un minuto, il tempo per passare di corsa. Appena tornò il buio, dopo la fiammata, mi slanciai, purtroppo però senza vedere, ché il bagliore improvviso mi aveva del tutto accecato; cercai di andare diritto davanti a me, ma d’un tratto inciampai e prima che potessi rendermi conto, mi trovai come chiuso in una morsa, bocconi dentro la fenditura di una roccia. La situazione non era affatto piacevole: tentai di tirarmi fuori per fuggire, ma ero rimasto come avvitato in quella crepa, il sacco ci si’era incastrato e per quanto mi sforzassi non riuscivo più a cavarmi fuori. Sentivo la voce di Da Rin che gridava: «Presto Rossaro!» Spingevo con la forza della disperazione, puntando le mani e le ginocchia, quando intesi un sibilo terribile, poi uno schianto che fece tremare il sasso: mi trovai come avvolto da una vampata e sentii un terribile urto contro la persona (ma più grave al ventre e alla testa); avevo la sensazione di aver sfondate le orecchie e di essere ferito all’addome. Non so come fu che mi alzai, senza altra fatica e stavo fuori della buca a mezzo il corpo, cercando di sollevarmi, quando sentii che qualcuno mi toccava. Davanti a me stava Da Rin. Egli agguantò il mio fucile e presomi per un braccio mi trascinò via di corsa. Dietro un sasso si fermò: mi fece accucciare e, col viso contro il mio, doveva gridare, perché muoveva energicamente la bocca, ma io non sentivo nulla. A ogni modo intesi il gesto che doveva preoccuparsi di eventuali ferite. Portai le mani alla testa e al ventre; ma nulla di bagnato attestava sangue; dovetti costatare che non avevo alcuna ferita. Solamente ero rimasto sordo. La granata era scoppiata sull’orlo della spaccatura, ma, come sempre, l’esplosione avvenendo in altezza, mi lasciò incolume pure dandomi un fortissimo contraccolpo per lo spostamento d’aria.
Edgardo Rossaro, Id., pag. 114-115.
Dopo un inutile tribolare su e giù per il canalone, troviamo finalmente il sentiero (fig. 5)! Impossibile vederlo passandovi a fianco: solo da una posizione più a monte dentro il canalone riesco ad individuarne i vaghi profili celati da fitti baranci. Inizia quindi l’opera di ri-apertura, consistente nella costruzione di qualche evidente ometto (fig. 6), nella rimozione di pesanti macigni pericolanti (fig. 7), nel raro e centellinato taglio di qualche impenetrabile ramo di mugo (fig. 8), che occlude completamente il sentiero impendendo il transito.
fig. 5 – Finalmente individuiamo il sentiero, nascosto tra i baranci!fig. 6 – L’imbocco del sentiero dal canalone, dove costruiamo i primi tre omettifig. 7 – Pulendo il sentiero dalle rocce pericolantifig. 8 – Il sentiero si perde tra fitti baranci
Il sentiero si addentra nel bosco e la traccia, sebbene vaga, si intuisce abbastanza chiaramente. Rinveniamo innumerevoli tagli su antichi mughi pietrificati, praticati probabilmente durante la prima guerra mondiale, ed altri relativamente più recenti, evidentemente praticati da qualche cultore di questi luoghi che ci ha preceduto negli anni. Là dove troviamo qualche pietra nel bosco, componiamo un ometto (fig. 9).
fig. 9 – Riusciamo a costruire qualche ometto lungo il sentiero
Si giunge ora in un’area dove il bosco diviene più rado ed i mughi diminuiscono. La traccia tende a scomparire, coperta dalla folta erba. Il riferimento da scovare è un isolato macigno arenato sul tronco di un abete (fig. 10); si tratta di tenersi almeno una ventina di metri di dislivello più alti, mirando a monte, senza peraltro raggiungerla, una isolata parete rocciosa.
fig. 10 – Il riferimento da individuare, tenendosi a circa una ventina di metri più a monte
La traccia guadagna gradualmente quota e raggiunge un antico tronco morto, avvolto da filo spinato (fig. 11), per poi svolgere un netto zig-zag in salita (fig. 12).
fig. 11 – Il tronco morto avvolto da filo spinatofig. 12 – Il drastico zig-zag in salita
Iniziano ora gli attraversamenti dei vari canaloni, alcuni più stretti altri più ripidi ed ampi (fig. 13, 14 e 15). In ogni caso, il sentiero guadagna ulteriormente quota, fino ad attestarsi intorno a 1800m. Ne deriva che tutti gli attraversamenti avvengono quasi a ridosso della parete rocciosa, nelle sezioni apicali dei canaloni… e, man mano che proseguiamo, ci imbattiamo in un numero sempre maggiore di resti della grande guerra: una scala (fig. 16), filo spinato, scarpe (fig. 17), resti di piatti, scatolame vario che, raccolto da terra, farà compagnia ai nostri ometti (fig. 18).
fig. 13 – Il sentiero risale ora alla base della parete rocciosafig. 14 – Uno dei rari passaggi esposti per traversare un piccolo canalefig. 15 – L’attraversamento dell’ennesimo canalone, nella sua sezione apicalefig. 16 – I resti dell’antica scaletta della prima guerra mondiale.fig. 17 – Resti di calzari dei soldatifig. 18 – Le scatolette raccolte da terra diventeranno ometti per i futuri escursionisti
Dopo questo facile saliscendi tra i vari canali minori, si arriva finalmente al margine del canalone dove, un mese fa, mi ero dovuto fermare con il Gila. La prima scoperta è che il sentiero transita almeno un centinaio di metri più in alto rispetto dove, un mese fa, ero giunto. La seconda scoperta è che, con gran sorpresa, troviamo una corda, oramai dura come il legno, assicurata intorno al solido tronco di un abete (fig. 19). Qualcuno, quindi, è passato da queste parti, apparentemente negli ultimi trenta/quarant’anni. Dei boscaioli? Dei cacciatori? L’autore Giorgio Tosato? Qualcuno che, come noi, amava questi luoghi e voleva contribuire a mantenerne viva la memoria? Ringraziamo questo nostro predecessore, verosimilmente autore anche dei vari tagli di baranci (vedasi ai piedi del tronco), provvidenziali per il nostro orientamento, e fruiamo volentieri della corda per calarci in sicurezza dentro il profondo canale (fig. 20 e 21).
fig. 19 – La sorpresa: una vecchia e robusta corda scende nel fondo del canalone
fig. 20 – Calandomi nel fondo del canalone principalefig. 21 – Paolo si cala nel canalone
Giunti alla base dell’angusto canalone, si identifica con chiarezza la traccia, scavata con gli scarponi sul ripido pendio detritico, fino a trovare, sull’opposto versante, dieci metri di corda, allestita con comodi anelli per issarsi, che abbiamo assicurato ad un abete al fine di rimontare sul ripido e franoso ciglio (fig. 22, 23, 24).
fig. 22 – La messa in sicurezza con allestimento di corda con anelli per superare il ciglio dirupato sul versante idrografico sinistro del canalonefig. 23 – Aggiungendo un paio di fettucce all’ultimo anello della corda fig. 24 – Paolo affronta il ripido ciglio sul versante idrografico sinistro del canalone
Abbiamo quindi superato il canalone che un mese fa ci aveva bloccati nel senso opposto. Ora procediamo per pochi metri in mezzo ai baranci e spuntiamo in una radura, una decina di metri più in alto rispetto all’albero schiantato, punto d’arrivo della precedente esplorazione. Per la prosecuzione dell’itinerario, si faccia riferimento alla prima relazione, supra.
Note conclusive
Giorgio Tosato, autore del capitolo dedicato al sentiero in questione nel libro Itinerari Segreti della Grande Guerra nelle Dolomiti, già citato, concludeva la sua relazione con il seguente auspicio:
l’itinerario sommariamente descritto meriterebbe di essere ripristinato mediante il taglio dei mughi ed eventualmente con qualche opera di sicurezza negli attraversamenti dei valloncelli, diventando “il sentiero dei Volontari e degli Alpini del Fenestrelle” a ricordo dei sacrifici compiuti da questi uomini.
Con profondo orgoglio ed emozione, penso che la speranza dell’autore possa dirsi oggi esaudita. Il Sentiero dei Volontari Alpini del Cadore e degli Alpini del Battaglione Fenestrelle è da oggi finalmente percorribile, senza troppe difficoltà. Una serie di ometti sono stati collocati per permettere all’escursionista di non smarrire la via; una corda è stata lasciata sul ciglio ove non v’era agevolazione alcuna per entrare/uscire dal canalone; qualche raro taglio è stato praticato per permettere l’incedere là dove la natura aveva completamente coperto la traccia. Resta inteso che la traccia non è un sentiero CAI e non presenta tutta una serie di “garanzie”, in primis manutentive, che un sentiero CAI offre. Spesso è richiesto all’escursionista di aguzzare l’ingegno per indovinare dove la traccia si sviluppa, specie nei tratti ove il bosco è più rado ed il terreno erboso. Da qui, anche, la scelta di definirlo EE e non E, dovendo l’escursionista avere una minima capacità di movimento ed orientamento fuori da una nitida traccia.
Per completezza, come di consueto, rimando anche alla relazione dell’amico Paolo, che potrà offrire un ulteriore punto di vista!
Ringrazio infine la giornalista del Il Dolomiti, Sara De Pascale, per la gradita intervista e per l’articolo pubblicato!
Quante volte ho fissato la Croda Le Bance! Tanto, nelle esplorazioni della Val Cristallino quanto nel faticoso andirivieni lungo l’omonima Val de Le Bance! Tuttavia, le sue dimensioni “contenute” e la sua modesta altitudine hanno contribuito a porre la Croda Le Bance (talvolta anche “Le Banche”) in fondo alle mie priorità e, tutt’oggi, riservo a questo rilievo una giornata di meteo incerto, nella quale sarà meglio essere di ritorno nelle prime ore del pomeriggio. Eppure, la Croda Le Bance non è solo un banale spartiacque tra le due citati valli. Sebbene sotto un profilo geomorfologico appaia in tutto e per tutto come l’appendice settentrionale del Cristallino di Misurina, la Croda Le Bance gode invece di una notorietà storica non meno rilevante rispetto alle più alte cime circostanti. Il versante orientale, in particolare, ha ospitato le linee del fronte italiano durante la Prima Guerra Mondiale e la traccia che andremo a percorrere oggi dovrebbe coincidere con la cengia percorsa dai soldati italiani per congiungere le postazioni di guerra collocate nella forcella che separa Val de Le Bance da Val Cristallino con gli avamposti più settentrionali. Quanto alla salita della Croda Le Bance non è, come per molte esplorazioni Windchili, un itinerario inedito. È certamente un’escursione selvaggia in ambiente remoto ma più ometti indicano la traccia da percorrere. Non solo; la vetta ospita addirittura un “libro di vetta”, o meglio un barattolo di plastica che contiene un umido blocco note, le cui prime compilazioni risalgono al 1997. Anche in letteratura, la salita della Croda Le Bance trova il suo spazio, seppure modesto. In primis, ne parla Luca Visentini, nel suo ormai introvabile “Gruppo del Cristallo”. Ne parla poi un articolo pubblicato su Le Dolomiti Bellunesi, a mano di Roberto Vecellio, intitolato “Esplorazioni in Val di Landro e in Val Popena”. Infine, l’amico Riccardo, compagno di questa avventura, ha già salito la cima nel 2015. Per rendere più originale l’impresa, quindi, abbiamo deciso di compiere il giro ad anello della Croda Le Bance, traversando la forcella che separa Val de Le Bance dalla Val Cristallino. Il transito di tale forcella, apparentemente non più praticato da decenni, doveva invece risultare parte dell’itinerario classico di salita della cima del Cristallino di Misurina, già da fine ottocento. La via di ascesa più semplice e logica, infatti, prima che i soldati solcassero le pareti che si affacciano sulla Val de Le Barache di comode cenge nel corso del primo conflitto mondiale, era la salita dalla Val Cristallino per poi “scavallare” nella parte sommitale della Val de Le Bance, transitando appunto per la forcella in questione. Nel 1879, W. Eckerth scriveva
«chi vuol salire in vetta al Cristallino ha a disposizione due vie che dapprima portano insieme, su per la Val Cristallino, ad una sella profondamente incassata nella dorsale principale del Cristallino, fra il “Kofl” (ndr: Cima Le Bance) che costituisce l’ultimo rilievo a nord di questa dorsale e la cima Cristallino. All’inizio estate, di solito, si scavalca questa sella e si preferisce continuare per la Val Banche che in questa stagione, per lo più, è ancora piena di neve; a metà estate e in autunno, invece, quando la Val Banche è ormai senza neve fino in alto e perciò difficile da percorrere, si sale in cima direttamente dalla sella per il ripido versante nord delle rocce sommitali».
W. Eckerth, Il Gruppo del Monte Cristallo, 1891, Ed. La Cooperativa di Cortina, 1989
E pure Ugo di Vallepiana:
«Dall’inizio della Val Fonda, piegare a S e per cespugli portarsi nella Val Cristallina, risalirla raggiungendo una profonda insellatura aprentesi nella cresta N del Monte Cristallino».
Ugo di Vallepiana, Dolomiti di Cortina d’Ampezzo dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago, Guide del CAI, pag. 17, 1925.
Oggi la situazione appare ben mutata: la Val Cristallino è divenuta una valle chiusa, totalmente selvaggia, sui cui ghiaioni non si può ormai scorgere alcuna traccia se non qualche vago e raro segno nella sezione basale, sul versante idrografico sinistro. La Val de Le Bance, di contro, appare ben solcata da innumerevoli tracce, ben distinte, ed il suo attraversamento rappresenta di certo la seconda soluzione di ascesa del Cristallino di Misurina, dopo la salita per la Val de Le Barache.
Relazione dell’itinerario
Abbandonata l’auto nei pressi della curva di ingresso alla Val Popena, si imbocca il sentiero CAI n. 222 e lo si segue per pochi minuti. Si giunge in una piccola radura prativa, ove sulla destra si inserisce, distintamente, una traccia (fig. 1). La si imbocca, piegando verso O, ed in breve ci si imbatte in un inaspettato cartello di fresca foggia che indica, sulla destra, la Croda de Le Bance. Siamo sorpresi… non era una cima remota e poco frequentata? Chi ha infisso questi cartelli? Un po’ sbigottiti, percorriamo la traccia in mezzo al bosco, fino a giungere ad un nuovo cartello che, sulla sinistra, segnala nuovamente la deviazione per la Croda de Le Bance (fig. 2). Una cosa è certa: oggi non ci perderemo!
fig. 1 – Riccardo imbocca la traccia che, ben distinta, si inserisce nel sentiero CAI n. 222fig. 2 – Il secondo “cartellone” che ci indica la via, sulla sinistra.
Si sale ora, apparentemente all’interno del solco di una trincea, e si prende quota fino ad uscire dal bosco e trovarsi nella Val de Le Bance. La traccia è sempre piuttosto chiara e si guadagna ulteriormente quota, sul versante idrografico destro della valle, incedendo ora sulle ghiaie, fino a superare la quota apicale della macchia di baranci che colora il centro della sezione di base della Val de Le Bance. Si traversa quindi la valle, spostandosi sul versante orografico sinistro, alla base della Croda de Le Bance. A questo punto, si può scegliere di attaccare subito il ripido canale di ghiaie che scende subito a S della Croda Le Bance oppure, come pare consigliabile, guadagnare ulteriormente quota procedendo tra baranci e comode radure prative, sulla sinistra del ghiaione, per poi traversarlo e giungere alla parete della Croda Le Bance, da cui dipartono più cenge (fig. 3). Qui è facile sbagliare; la cengia corretta è quella più bassa di quota, che presenta continuità di sviluppo… ciò lo si può intuire solo percorrendo i primi metri di cengia.
fig. 3 – La Croda Le Bance e la più semplice traiettoria di avvicinamento alla cengia
La cengia taglia l’intera parete della Croda Le Bance verso N, talvolta restringendosi, alternando passaggi tra mughi con brevi traversamenti di modesti impluvi e facili paretine (fig. 4, 5, 6, 7, 8). In ogni caso, l’incedere risulta piacevole e sereno; sebbene alcuni passaggi richiedano piede fermo e sicuro, non v’è mai la percezione d’essere esposti. Sullo sfondo, le Tre Cime di Lavaredo sorvegliano la nostra avventura.
fig. 4 – L’inizio della cengiafig. 5 – Riccardo nei primi metri di cengiafig. 6 – Il solo passaggio leggermente espostofig. 7 – Il sottoscritto affronta i pochi metri di paretina leggermente espostifig. 8 – Sempre sull’unico breve passaggio in esposizione
Si abbandona quindi la cengia e la traccia si spiega su una più morbida dorsale di radi mughi e conifere (fig. 9), per poi tagliare un piccolo impluvio ghiaioso e svolgere una curva netta tra gli alberi che ci riporta, poco più a monte, dentro il canale detritico traversato prima più a valle.
fig. 9 – La traccia abbandona le pendici rocciose della Croda Le Bance per svolgere una curva netta in una dorsale boschiva
Ora l’itinerario si fa più aereo: il canale sale, a tratti verticalmente, e si superano facili roccette con passaggi di I grado. L’arrampicata è divertente, la roccia generosa d’appigli (fig. 10, 11, 12, 13).
fig. 10 – La salita del canalinofig. 11 – Riccardo nell’uscita dal canalefig. 12 – Il secondo canalinofig. 13 – Gli ultimi metri di uscita dal canale
Di lì a breve, il canale sbuca su un pianoro erboso, dorsale sommitale della Croda Le Bance. La percorriamo agevolmente (fig. 14), con panorama mozzafiato sul Cristallino di Misurina e sulla sottostante Val Cristallino, fino a giungere in vetta (fig. 15). A pochi metri dalla vetta, sotto un ometto di pietre (fig. 16), troviamo il “libro di vetta”, consistente in un barattolo di plastica contenente un blocco note. Non risultano visite annotate per l’anno in corso. In compenso, la memoria del libro di vetta risale fino al 1997, a testimonianza di quanto poco frequentata sia questa cima. Dalla posizione privilegiata in cui ci troviamo, possiamo vantare una nitida visione sulla parete N del Cristallino di Misurina, ed apprezzare i profili della Cengia Raule, già percorsa l’anno scorso (relazione itinerario) nonché stupirci per la ripidità del canale che conduce in Forcella Cristallino, raggiunta un paio d’anni fa (relazione dell’itinerario).
fig. 14 – La piacevole camminata lungo la dorsale che conduce in vettafig. 15 – In cima a Croda Le Bance, 2319mfig. 16 – A pochi metri dalla cima, l’ometto dentro il quale giace il libro di vetta
La discesa si svolge lungo il medesimo itinerario di salita, ridiscendendo il canalino (fig. 17) e ripercorrendo la cengia basale.
fig. 17 – Immettendosi in discesa nel canalino
Terminata la cengia, invece di scendere in Val de Le Bance, decidiamo di scavalcare la sella che separa la Croda Le Bance dal Cristallino di Misurina per scendere in Val Cristallino; rimontiamo quindi il canalone detritico a S della Croda Le Bance, su ghiaie particolarmente mobili ed insidiose (fig. 18). Un luogo dove non sostare troppo, apparentemente soggetto a scariche dalla friabile parete S, a picco, della Croda Le Bance.
fig. 18 – Dentro il canale detritico che conduce nella sella tra Cristallino di Misurina e Croda Le Bance
Completiamo la salita del canale e giungiamo ai piedi di un torrione, il Campanile Padre Pio (2260m), ove sono evidenti i resti di un baraccamento militare: il perimetro è delimitato da pietre; a terra giacciono due lunghi cilindri arrugginiti, antichi camini di stufe da campo; decine di caricatori di fucile sono sparsi a terra (fig. 19), insieme ad altrettanti lunghi chiodi e ad un secchio (fig. 20). Doveva essere una postazione privilegiata durante la guerra, al riparo del massiccio torrione roccioso, sicuro baluardo a protezione dei tiri dei pezzi austriaci collocati sul vicino Rauchkofel. Tra il Campanile Padre Pio e la Croda Le Bance, un piccola sella si affaccia sul Campanile Molin, la cui via di salita (VI grado) fu aperta nel luglio 1968 dal compianto e celebre Alziro Molin (fig. 21).
fig. 19 – I caricatori rinvenuti sul pianerottolo ai piedi del Campanile Padre Pio, ospitante una baracca militare italiana durante la prima guerra mondiale.fig. 20 – La postazione militare ai piedi del Campanile Padre Piofig. 21 – Il Campanile Molin
Il nostro itinerario, tuttavia, ci porta nella direzione opposta, continuando ad esplorare la sella a S del Campanile Padre Pio, muovendo in direzione del Cristallino di Misurina. Magnifica la vista del Campanile Padre Pio e della Croda Bance dalla dorsale su cui ci stiamo muovendo! (fig. 22).
fig. 22 – Sulla sinistra, il Campanile Padre Pio. Dietro, a destra, il versante meridionale della Croda Le Bance
Saliamo per poche decine di metri un pendio erboso e ci troviamo su un terrazzo di roccia aereo che si affaccia su una sottostante sella (fig. 23), prosecuzione della cresta che collega il Cristallino di Misurina con la Croda Le Bance. Tenendo la destra, scendiamo per una comoda forcelletta sulla nuova sella (fig. 24). Evitiamo di scendere verso la Val Cristallino imboccando il primo ripido ed insidioso canale detritico e preferiamo spostarci verso il centro della sella, perdendo quota su più stabili e sicure zolle erbose (fig. 25).
fig. 23 – Giunti sul pulpito, scendiamo sulla destra in una nuova sella, più bassafig. 24 Nella selletta sottostante fig. 25 – La discesa tra zolle d’erba e ghiaie nella Val Cristallino
Siamo giunti nella tanto amata Val Cristallino e l’itinerario potrebbe dirsi concluso, imboccando la traccia che, inserendosi sul greto del rio (asciutto/sotterraneo) dal versante idrografico destro, ci riporta sul sentiero che poi conduce all’ingresso della Val Popena (vedi itinerario già percorso in occasione di questa discesa). Il tempo tuttavia sembra reggere e ci prendiamo la soddisfazione di toglierci uno sfizio: visitare quelle grotte/resti di baraccamento che si notano distintamente sul rilievo che divide la Val Cristallino dalla Val Fonda. Trattasi di un certo numero di grotte e/o rientranze scavate nella roccia (fig. 16), in prossimità di una stretta gola (fig. 27) situata poche decine di metri a monte di altrettanti resti di baraccamenti (è ancora evidente la spianata, artificiale, ove sorgevano). Riccardo riesce a intrufolarsi nelle due grotte collocate all’altezza della forcella sopra alla gola (fig. 28); trattasi di grotte senza sviluppo. A quanto si può evincere dai fori sulla parete, sono tunnel probabilmente iniziati e mai più portati a termine (fig. 29).
fig. 26 – La rientranza collocata pochi sotto l’imbocco della stretta golafig. 27 – La ripida gola che conduce alle grotte dal versante orografico sinistro della Val Cristallinofig. 28 – Le due grotte viste dalla forcelletta a monte della golafig. 29 – Pochi metri dentro alla grotta, i fori del martello pneumatico sulla parete
Saziata l’avidità di conoscenza, possiamo ora dirci appagati e scendere sulla via del ritorno!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE (le difficoltà “EE” sono limitate allo scavallamento della forcellina ed alla discesa nel tratto apicale della Val de le Barache. Il resto dell’itinerario può essere considerato “E”).
DISTANZA: 11 km – DURATA: 4,30 h – DSL: 1020 m D+
DATA: 16 ottobre 2022
PREMESSE
Siamo a metà ottobre. A Cortina, ieri notte, la temperatura è scesa a 4°C. È quindi finita la stagione delle esplorazioni in alta quota; pur non essendoci che pochi centimetri di neve, le cenge esposte a nord rischiano di essere coperte da lastre di ghiaccio ed il fondo ghiaioso dei pendii inclinati può risultare compatto come il cemento. È tuttavia un autunno straordinariamente mite – come il precedente – e, sotto i 2500m, il terreno si presenta ancora tipicamente estivo. È questo il momento migliore per dedicarsi a veloci esplorazioni non troppo impegnative. La prima che mi viene in mente è l’esplorazione dei Campanili di Val Popena Alta. Chi, salendo il Cristallino di Misurina per la val de le Barache, non è stato attratto da quella singolare formazione rocciosa a forma di cuore, collocata su una cresta che si diparte da Punta Michele? Io e Paolo sicuramente, in occasione dell’esplorazione di Forcella Michele (vedi l’itinerario). Ora, il cuore roccioso che, osservato dalle pendici del Cristallino, sembra poggiare in bilico sul fil di cresta, ha in verità un nome… è il Campanile Dibona, così nominato in quanto l’ardito Maestro Angelo Dibona lo scalò per la prima volta nel 1906. Al suo fianco, un dente roccioso isolato separa il Campanile Dibona da un massiccio sperone roccioso che conchiude la val de le Barache, meglio noto come “Guglia di Val Popena Alta”. Sono queste guglie la nostra meta odierna. Non, però, accedendo dalla val de le Barache ma dal versante sud, alla testata della val Popena Alta, da un circo di ghiaie alle pendici della massiccia dei Campanili di Popena e delle pareti del Piz Popena. Tale soluzione era stata già descritta nel 1925 da Ugo di Vallepiana, nel suo “Dolomiti di Cortina d’Ampezzo dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago”. Non abbiamo tuttavia rinvenuto alcuna traccia di passaggio umano, probabilmente anche a dimostrazione del fatto che l’avvicinamento al Campanile Dibona, nota meta di scalata, si svolge prevalentemente dalla val de le Barache.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto poco dopo il Passo Tre Croci, nei pressi di una vecchia casa cantoniera, là dove il Rio de Pòusa Marza incrocia la strada statale, si imbocca il sentiero n. 224, che inizia come comoda mulattiera, a tratti asfaltata. Si guadagna quota e, nei pressi di una curva della mulattiera, la si abbandona, piegando verso O ed entrando tra i mughi su distinta traccia di sentiero. Il sentiero prosegue sino alle pendici della Pòusa Marza, sempre verso O, fino a che, a quota 1936m, una traccia si stacca puntando diritta verso le rocce; tale traccia consente di montare sul sentiero n. 222, pochi metri più a monte. Ora, il sentiero si inerpica verso NNE sui c.d. Tàche (tacchi), una serie di prominenze che costituiscono un costone prativo degradante su ripide pareti rocciose affacciate sulla Pòusa Marza. Si giunge quindi ai piedi della parete rocciosa del Corno d’Angolo e, di lì a breve, si incontra il profondo impluvio detritico proveniente da Forcella Popena. Le pareti del canale sono tuttavia ben solcate da una traccia e l’attraversamento risulta agevole (fig. 1).
fig. 1 L’impluvio che scende da Forcella Popena
Superato l’impluvio, il sentiero sale fino alle rocce sovrastanti, dove un recente intervento ha permesso di posare un sistema di scalette e passerelle di legno che consentono di giungere agevolmente in Forcella Popena, 2214m.
fig. 2 Il primo tratto del sistema di passerelle che conduce in Forcella Popena
In forcella, ci accolgono i ruderi del Rifugio Popena, costruito da Lino Conti ed aperto nel 1937 (fig. 3), purtroppo destinato ad un drammatico epilogo. Se già, infatti, la seconda guerra mondiale mise a dura prova l’attività ricettiva del rifugio, nel 1948 alcuni delinquenti vi entrarono nella stagione invernale e, dopo averlo saccheggiato, lo misero a fuoco. Rimangono oggi poche macerie (fig. 4).
fig. 3 Il Rifugio Popena negli anni ’40fig. 4 Le poche macerie che restano del rifugio Popena
Si segue ora il sentiero n. 222, scendendo verso la testata della Val Popena Alta, abbandonandolo dopo pochi metri per imboccare una nitidissima traccia che costeggia le pendici dei Campanili di Popena. Il punto d’arrivo, indicativamente, è un enorme blocco roccioso fessurato, che prende le sembianze di una “V”. Da qui, si risale faticosamente per pendii prativi, obliquando senza traccia obbligata verso i Campanili di Val Popena Alta (fig. 5 e 6).
fig. 5 Salendo sui pendii prativi senza via obbligatafig. 6 Alle nostre spalle, il Corno d’Angolo
Si traversa quindi agevolmente un largo impluvio detritico e si risale su ancor più ripido pendio, mirando ad un evidente canalone detritico e preferendo ai tratti rocciosi le ultime chiazze erbose (fig. 8).
fig. 8 Gli ultimi tratti erbosi prima di accedere al canalone detritico, ora evidentemente visibile alle mie spalle
Terminate le chiazze erbose, si entra nel canalone (fig. 9), tenendosi sulla sinistra (destra orografica) del medesimo (fig. 10), e lo si risale senza particolari difficoltà, sino a giungere su una sella (fig. 11) che congiunge la parte apicale dei due affioramenti rocciosi entro cui si apre il canalone.
fig. 9 L’entrata nel canalonefig. 9 Paolo sale gli ultimi metri del canalonefig. 10 Paolo giunto nella sella
Si segue ora il crinale della sella, puntando verso O, imboccando un nuovo canale che conduce sulla sinistra del Campanile Dibona (fig. 11). Ora, le Guglie di Val Popena Alta si affermano, imponenti, sul versante meridionale (fig. 12). Caratteristico appare il dente isolato che separa il Campanile Dibona dal Campanile di Val Popena Alta.
fig. 11 La traiettoria da seguire per giungere in forcellafig. 12 I Campanili sul versante meridionale
Praticando un po’ di divertente scrambling (fig. 13 e 14), si supera il canale e si giunge su una strettissima forcellina che separa il Campanile Dibona dagli affioramenti rocciosi di Punta Michele. Ai piedi del Campanile Dibona, un minuscolo terrazzino con muretto a secco si affaccia sull’ombroso versante N. La discesa dalla forcellina sulle ghiaie apicali è breve in termini di distanze ma non mi pare troppo agevole; consiste in tre piccoli salti di roccia caratterizzati però da fondo friabilissimo e marcio. Ugo di Vallepiana, nel 1925, la semplificava nei seguenti termini: «traversare un colletto aprentesi fra il Campanile di Dibona e la Punta Michele e scendere sul versante N. per la friabile gola e contornare il Campanile Dibona». Con più cauto approccio, preferisco salire ulteriormente lungo la dorsale che si dirama da punta Michele, alla ricerca di un più comodo e sicuro passaggio. Si percorre, pertanto, un’agibile e breve cengetta che aggira uno sperone roccioso e si sale di circa una decina di metri, su facili roccette, fino ad incontrare un’ulteriore forcellina (fig. 15). Ora la discesa appare decisamente più facile e sicura, priva di alcun salto di roccia.
fig. 13 Paolo nei primi metri del canalefig. 14 Lo scrambling nel tratto centrale dell’ultimo canalefig. 15 la seconda forcellina dove è preferibile scavallare
La seconda forcellina è collocata a 2455m. La giornata è incantevole, il cielo è blu ed il sole in quota scotta ancora come in una giornata estiva. Non possiamo che esitare, contemplando il panorama circostante e crogiolandoci in questo remoto angolo del gruppo del Cristallo.
fig. 16 Il passaggio nella seconda forcella più alta è decisamente più agevole e privo di salti di rocciafig. 17 Sotto di noi, il Campanile di Popena, contornato dal Corno d’Angolo
Un ultimo saluto al sole, che per un po’ non vedremo più, e giù sul versante N del Campanile Dibona! La discesa lungo il canalino detritico non presenta particolari difficoltà ma è pur sempre una discesa su terreno totalmente marcio e fuori traccia; pertanto, richiede un minimo di cautela (fig. 18).
fig. 18 Paolo affronta i primi ripidi metri del canale sul versante N del Capanile Dibona
Superati i primi metri a valle del canalino, ci si deve mantenere pressoché a ridosso della parete del Campanile Dibona (fig. 19), traversandone le pendici e tenendo nettamente la destra, entrando a stretto giro in un’area di grandi massi e sfasciumi (fig. 20). Superata quest’ultima sezione, continuando in diagonale verso destra, si entra dentro il ghiaione alle pendici del Campanile di Val Popena Alta. Qui il terreno diventa molto più morbido e, stringendo un po’ i denti, è possibile correrlo sciando fino a quasi intersecare il sentiero che taglia la Val de le Barache (fig. 21 e 22).
fig. 19 ai piedi della parete del Campanile Dibonafig. 20 La sezione di grandi massi e sfasciumi, mirando al ghiaione che scende dal Campanile di Val Popena Altafig. 21 La traiettoria di discesa in Val de le Barache fig. 22 Scendendo allegramente nel morbido ghiaione
Giunti alla base della Val de le Barache, il gioco è fatto! Un ultimo sguardo all’immensa valle appena traversata, immaginandola esattamente un secolo fa, a soli quattro anni dalla fine della guerra. Doveva apparire colma di rifugi e baraccamenti, scatolame e teleferiche, essendo stata un’importante base logistica dell’esercito italiano per l’intera durata del conflitto. Scendiamo quindi per il sentiero n. 222a, fino a trovare il bivio per il sentiero n. 224 che ci fa rimontare il costone boschivo occidentale delle Pale di Misurina. Giunti sulla dorsale, un magnifico panorama si apre sulla vallata sottostante, e subito riconosciamo il lago di Misurina, nostra meta. Da qui a malga Misurina il percorso è breve e piacevole, sempre in discesa.
fig. 23 Sulla dorsale delle Pale di Misurina.
La lettura della relazione di Paolo, non potrà che arricchire di dettagli e particolari quanto finora esposto! Grazie mille inoltre a Paolo, come sempre, per aver montato il video dell’avventura!
Esplorare non significa necessariamente sempre affrontare ripidi e dirupati pendii. Ci sono giornate in cui, o per ragioni meteorologiche o, banalmente, per rilassarsi, è possibile esplorare semplicemente camminando. È questo il caso presentato nell’odierno itinerario. Il meteo non promette bene e con Paolo si decide per una tranquilla passeggiata esplorativa senza caschi e imbraghi. L’obiettivo è una valle innominata, mai esplorata, conchiusa tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia. Per arrivarci, eviteremo i sentieri numerati ma saliremo fino a Pratopiazza percorrendo una traccia singolare, spesso segnata con bolli blu, meglio nota come Troi dei Milezinque.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Il Troi dei Milezinque pare così chiamarsi per l’altitudine dal quale parte. Lungo la strada statale che conduce a Carbonin, qualche tornante dopo il passo di Cimabanche, ecco una traccia che rimonta il costone erboso, inoltrandosi nel bosco (fig. 1). Superfluo sarebbe specificare a che quota ci troviamo 😉
fig. 1 L’attacco del Troi dei Milezinque
Il Troi prende subito quota (fig. 2) ed in breve conduce al facile guado del Rio di Specie. Traversato il rio, si giunge ad un’amena radura. Qui potrebbero nascere i primi problemi d’orientamento: qualche bollo blu, infatti, è presente, ma è posizionato sul lato a monte dei tronchi e non su quello a valle. In ogni caso, giunti alla radura, è necessario deviare a destra, direzione NE (fig. 3). Tale soluzione permette di raggiungere in breve il sentiero CAI n. 37 o la mulattiera, indicativamente nei pressi del quarto tornante.
fig. 2 Il Troi dei Milezinque nel primo tratto in salitafig. 3 Paolo indica saggiamente la via da percorrere giunti alla radura
Montati sul sentiero n. 37, ci si potrebbe accontentare di procedere comodamente su nitida traccia fino al rifugio Vallandro… ma che gusto ci sarebbe… non sarebbe più un’esplorazione in stile Windchili! L’idea di base è che il Troi dei Milezinque sia invero la prima traccia storicamente aperta per arrivare a Prato Piazza. Una traiettoria diretta e veloce in mezzo al bosco, solo successivamente soppiantata dalla carrareccia e, ancora successivamente, dal sentiero CAI 37 (che di fatto si modella sulle linee della carrareccia). Pertanto, nei pressi del quinto tornante della carrareccia, ci addentriamo nuovamente nel bosco alla ricerca di una traccia e, dopo vario ravanage sul ripido versante orografico sinistro del Rio di Specie, ci imbattiamo finalmente in una morbida dorsale solcata da piuttosto evidente traccia (fig. 4).
fig. 4 Finalmente ritroviamo la traccia nel bosco
In breve, la traccia ci conduce fuori dal bosco, in una vasta radura prativa a valle della carrareccia (fig. 5). Procediamo quindi in direzione NW su comodi prati fino a che, in prossimità della curva a gomito a destra della carrareccia, si innesta una nitida traccia proveniente da un rilievo barancioso. La imbocchiamo e, facendoci strada tra i mughi, ci troviamo presto ad una quota di un cinquantina di metri a valle rispetto al Rifugio Vallandro, sopra una profonda ed angusta forra rocciosa che accoglie i primi salti del Rio di Specie (fig. 6).
fig. 5 La radura prativa dove spunta il Troi dei Milezinquefig. 6 I primi salti di roccia del Rio Specie, prima di entrare nella profonda forra
Lasciata alle spalle la ripida forra, ci si apre di fronte un panorama delizioso: i noti verdi prati di Prato Piazza ci abbracciano e l’occhio non può che rilassarsi e godere di questo bucolico panorama (fig. 7 e 8).
fig. 7 Le sorgenti del Rio di Specie fig. 8 I verdi prati di Prato Piazza
Traversando i prati senza via obbligata, ci teniamo leggermente a sinistra, puntando l’ora ben visibile Croda Rossa, fino a giungere ad uno steccato di legno. Lo saltiamo e scendiamo attraversando nuovi prati, fino a montare sul sentiero CAI n. 18. Procediamo per poche decine di metri sul sentiero n. 18, superando sulla sinistra il ponticello di legno che conduce alla Val dei Chenòpe e giungendo in breve ad una radura prativa dove sorgono alcuni casoni di legno. Superiamo un nuovo steccato di legno e, con deviazione sulla sinistra poco dopo una magnifica veduta da cartolina (fig. 9), giungiamo alla confluenza di ruscelli poco sopra Malga Stolla. Incredibile pensare che, solo tre settimane prima, questa confluenza era popolata di artistici ometti creati da qualche esperto e paziente artista dello stone balancing (vedasi fig. 6); qualche giorno fa, un violento acquazzone deve aver riempito d’acqua questa confluenza, spazzando via tutte le creative opere.
fig. 9 Poco dopo questa visione idilliaca, sulla sinistra, lasciamo il sentiero e deviamo nel bosco per una scorciatoia
Una volta attraversato il torrente, seguiamo il sentiero CAI n. 3 fino ad imbatterci in un evidente bivio (fig. 10). Sulla destra, indicato con tanto di freccia su masso, prosegue il sentiero n. 3. Sulla sinistra, invece, si sale sino a sbucare in una nuova radura prativa, ai piedi della brulla collina che dà accesso al Cadin di Croda Rossa. Teniamo quindi la sinistra al bivio ed iniziamo ad inerpicarci faticosamente tra roccette e zolle erbose (fig. 11), puntando leggermente verso destra, in direzione dello sperone orientale delle Cime Campale. La brulla collina ai piedi del Cadin di Croda Rossa è letteralmente cosparsa di residuati bellici; sappiamo, infatti, che venne utilizzata durante la II guerra mondiale come poligono di tiro e, a quanto pare, mai adeguatamente bonificata!
fig. 10 Il bivio: tenendo la sinistra si abbandona il sentiero CAI n. 3 e ci si accede al Cadin di Croda Rossafig. 11 Paolo affronta la faticosa salita della brulla collinetta
Giunti ai piedi dello sperone orientale delle Cime Campale, ci dirigiamo verso O, fino a trovarci al cospetto dell’imponente fronte del rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio (fig. 12). Da questo punto, già si intravede il Cadin di Crodaccia, meta dell’odierna escursione, ma una breve divagazione all’interno del Cadin del Ghiacciaio è d’obbligo. Ci portiamo quindi nei pressi della metà del Cadin del Ghiacciaio, dove la fronte diminuisce di altezza, ed attacchiamo il ripido piano detritico (fig. 13).
fig. 12 Di fronte alla fronte del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio fig. 13 Attaccando la fronte del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio nel punto apparentemente più agevole
Ed eccoci sopra il rock glacier! L’ambiente è suggestivo, affascinante, selvaggio. Sono lieto di vedere che Paolo nutre lo stesso entusiasmo e percepisce le stesse emozioni che questo luogo, già esplorato tre settimana fa, suscita in me. L’ultima volta che ho esplorato il rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio mi sono trattenuto nella sezione apicale, ai piedi di Forcella Campale, per poi scendere direttamente nel lobo settentrionale. Il rock glacier, infatti, è suddiviso in due lobi: un lobo settentrionale ai piedi della Crodaccia Alta ed un lobo meridionale ai piedi delle Cime Campale. Maggiori approfondimenti sulle caratteristiche di questo rock glacier e sulla storia delle ricognizioni ad opera dei glaciologi possono essere trovati leggendo la relazione della traversata di Forcella Campale, compiuta tre settimane or sono. Nella giornata odierna, visto che il tempo sembra reggere, mi preme esplorare la linea di separazione tra i due lobi per verificare la presenza di affioramenti di ghiaccio, solo minimamente rilevati in sede di precedente ricognizione. Ci addentriamo quindi nel Cadin del Ghiacciaio, cercando di individuare la linea di demarcazione tra i due lobi… e presto la troviamo, distinguendo chiaramente una depressione lineare che solca longitudinalmente il Cadin del Ghiacciaio, coperta da ghiaie più “fresche”, segno di recente e costante movimento (fig. 14). Seguiamo dunque questa linea per poche decine di metri ed ecco i primi affioramenti di ghiaccio: il margine sinistro del lobo meridionale del rock glacier è completamente esposto, mettendo in luce piani inclinati, alti diversi metri, di puro ghiaccio compatto (fig. 15, 16 e 17). Altro che ghiaccio interstiziale!!! Questo rock glacier è al contrario un vero e proprio ghiacciaio coperto, solo in superficie, da un mantello detritico!
fig. 14 Trovata la linea di demarcazione tra i due lobifig. 15 Alla base delle pareti di ghiaccio defluisce l’acqua di fusione, creando probabilmente un rio sottoterraneo che confluisce nel laghetto termocarsicofig. 16 Il margine sinistro del lobo meridionale svela compatte pareti di ghiacciofig. 17 Si distingue chiaramente la linea di separazione tra i due lobi, soggetta evidentemente a continui movimenti
Conclusa la ricognizione lunga linea centrale di suddivisione in due lobi, torniamo indietro, camminando ora sul lobo settentrionale del rock glacier. In breve, il nostro orecchio è catturato da sinistri suoni di crolli. Fortunatamente, io conosco già la causa di questi inquietanti rumori e tranquillizzo Paolo, che già sta scrutando con occhio vigile le vicine pareti: siamo ormai nei pressi del laghetto termocarsico ed i rumori che s’odono sono invero causati dal materiale detritico che dai margini estremi della riva crolla in acqua rotolando lungo le pareti ghiacciate. Nonostante abbia da poco visitato questo luogo, la meraviglia resta tale quale durante la prima esplorazione (fig. 18 e 19). Osservando le alte e compatte pareti di ghiaccio del laghetto, si ha ulteriore conferma che il rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio altro non è che un vero e proprio ghiacciaio coperto da un sottile strato di detriti.
fig. 18 Il laghetto termocarsico svela la presenza di un vero e proprio ghiacciaio sotto il superficiale strato di detritifig. 19 I continui crolli lungo i bordi del laghetto termocarsico
Una curiosità: a quanto pare, nel 2015 il nostro laghetto termocarsico aveva un fratellino! Evidentemente, il tappo di ghiaccio sul fondo del laghetto si dev’essere sciolto, facendo così defluire l’acqua nei meandri del ghiacciaio!
fonte BING, immagine scattata il 27 agosto 2015
Terminata la contemplazione del laghetto termocarsico, ritorniamo ora all’obiettivo della nostra missione: l’esplorazione della valle conchiusa tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia. Dal laghetto, fronte a valle, ci teniamo sulla sinistra fino ai piedi dello sperone orientale della Crodaccia Alta ed intravediamo pure un ometto! Costeggiamo quindi la parete rocciosa e, girato l’angolo, eccoci entrati nella valle innominata, d’ora in poi battezzata Cadin di Crodaccia (considerata la sua collocazione, dubito qualcuno possa sollevare obiezione di sorta!) (fig. 20 e 21).
fig. 20 Il Cadin di Crodacciafig. 21 Le colate detritiche dalla Crodaccia
Il Cadin di Crodaccia si presenta come una piccola valle celata, sul versante meridionale, dalle alte pareti rocciose della Crodaccia Alta e, sul versante settentrionale, dalle ghiaiose pendici della Crodaccia. Nel versante occidentale del Cadin di Crodaccia, là dove le compatte rocce della Crodaccia Alta si intersecano con le friabili colleghe della Crodaccia, si profila una forcella, non segnata sulla cartografia Tabacco. Non è da escludere che, percorrendo tale forcella (fig. 22), si riesca a trovare una nuova via per giungere in cima alla Crodaccia Alta oppure, più semplicemente, per compiere una traversata dal Cadin di Crodaccia al Cadin conchiuso tra la Croda Rossa Piccola e La Crodetta. Oggi, tuttavia, il meteo non ci permette ulteriori divagazioni e ci rimettiamo presto sulla via del ritorno. Scendiamo quindi lungo la ripida collinetta che confina con l’ancor più ripida fronte del rock glacier e ci immettiamo presto nel sentiero CAI n. 3. Di lì a breve, giungiamo a Malga Stolla per un pranzo ristoratore!
fig. 22 La possibile via per un’esplorazione futurafig. 23 La discesa dal Cadin di Crodaccia, ai margini della dirupata fronte del rock glacier
Giusto il tempo di assaporare un delizioso tagliere di affettati ed il cielo inizia a coprirsi minacciosamente… finiamo in fretta e via di gran carriera traversando i prati di Prato Piazza sferzati da un piacevole vento fresco (fig. 24 e 25)! Scendiamo alternando tratti di sentiero n. 37 con pezzi del Troi dei Milezinque, ormai sotto una debole pioggia e contemplando un temibile temporale sul circo glaciale del Cristallo le cui pareti, in pochi minuti, diventano completamente innevate (fig. 26 e 27)! Tempo di arrivare alla macchina ed esplode il diluvio universale 😉 Anche questa volta ci è andata bene!
fig. 24 Il tempo sta cambiando quando siamo in Prato Piazzafig. 25 Una nuvola minacciosa sta covando sulla cima del Monte Cristallo, ora nascosta dietro il Col Rotondo dei Canopifig. 26 Ed ecco il temporalone in Val Fondafig. 27 e le pendici settentrionali del Cristallo e del Piz Popena innevate!
Ringrazio Paolo per la sempre magistrale regia nel montare il video, sintesi perfetta dell’avventura trascorsa!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA. Discesa dalla Forcella del Rauhkofel alla Val Fonda: PD+. Traversata alpinistica di media lunghezza ed impegno fisico, con diversi passaggi di I grado, tendenzialmente sempre poco esposti, ed un paio di passaggi di II grado su roccia friabile. Necessità di allestire una sosta per una calata ripida di ca 10m (in salita, V grado).
DISTANZA: 15 km – DURATA: 7.30 h – DSL: 800 m D+
DATA: 14 agosto 2022
PREMESSE
Come ormai molte delle avventure Windchili, anche questa scaturisce da un precedente tentativo incompiuto dell’amico Riccardo di congiungere, in discesa, la Val della Fontana di Sigismondo con la Val Fonda transitando per Forcella del Rauhkofel. Siamo nel gruppo del Cristallo, versante orografico sinistro del rio Val Fonda, ambiente inviolato ed estremamente selvaggio, già in più di un’occasione meta d’esplorazione (vedi l’esplorazione del ghiacciaio del Cristallo e la discesa in Val Fonda da Forcella Michele). Informazioni su questo itinerario sono davvero scarne, come di consueto d’altro canto. La seguente è la terza relazione mai pubblicata della discesa in Val Fonda dal Monte Rauhkofel. La prima fu pubblicata da Theodor Wundt nel 1893, primo uomo a compiere la discesa sul versante est dalla cima del Rauhkofel ma non primo, invece, a compierne la salita. La prima ascensione del Rauhkofel, infatti, è datata 1883 e porta la firma W. Eckerth. Questi, tuttavia, non s’azzardò a scendere in Val Fonda, ritenendo che «dovunque avessimo tentato la discesa, saremmo sempre finiti sulle pareti compatte e verticali della Val Fonda, per le quali è assolutamente impossibile scendere». (W. Eckerth, Il gruppo del monte Cristallo – 1891, La Cooperativa di Cortina, 1989, pag. 102). Così impossibile non dev’essere sembrato a Wundt dodici anni dopo! Wundt, peraltro, scelse una traiettoria differente rispetto alla linea da noi studiata per quest’avventura, più diretta e più a N, calandosi direttamente dalla cima del monte Rauhkofel. Ecco le sue parole, corredate dalla celebre fotografia (fig. 1):
«Arrivando dall’alto su roccia molto friabile, avevamo raggiunto una cengia le cui rocce scivolose non potevano essere superate direttamente. Qui è stato necessario scendere in corda doppia. La fune è stata fatta girare intorno a un masso a questo scopo, e uno alla volta ci siamo imbragati ad essa e ci siamo tirati giù. (…) Il resto della discesa è stato facile, ma la passeggiata attraverso la Val Fonda è stata ancora più confortevole».
Vanderungen in den Ampezzaner Dolomiten, Deutsche Verlags-Anstalt, 1895, pag. 66
fig. 1 La calata in corda doppia di Theodor Wundt
Successivamente a Wundt, si deve pazientemente attendere la penna di Marco di Tommaso, Cristina Bacci e Angelo Zangrando che, a distanza di 110 anni, descrivono la discesa del Rauhkofel nel libro “Avventure nelle Dolomiti Orientali” (Tamari Montagna Edizioni, 2005, pag. 74). In merito, gli autori scrivevano che l’itinerario è «quasi totalmente non segnalato su terreno impervio, destinato ad escursionisti esperti». Noi oggi abbiamo preferito una traiettoria più meridionale di quella identificata da Wundt, e solo per il primo tratto aderente a quella scelta da Di Tommaso e dai suoi compagni; il nostro percorso pertanto, parrebbe risultare assolutamente inedito. Non possiamo tuttavia dare per certo che l’odierna spedizione sia stata la prima a calcare tale traiettoria. Fin dai primi mesi di ostilità della prima guerra mondiale, infatti, il Monte Rauhkofel era «saldamente presidiato dagli austriaci, che occupavano con notevoli forze il rovescio delle forcellette di cresta». (A. Berti, 1915-1917, Guerra in Cadore e in Ampezzo, Mursia, pag. 104). Non minore importanza strategica, peraltro, rivestivano tali postazioni per gli italiani; dal Rauhkofel, infatti, il comando italiano temeva potessero essere sferrati fatali attacchi alle truppe che dal Ponte della Marogna avessero dovuto spingersi a Carbonin. Per tale ragione «violenti attacchi italiani, sferrati nell’autunno 1915 (11-12 settembre; 21-2 ottobre), nel corso di azioni di più ampio raggio, si erano infranti come ondate contro uno scoglio alla base del monte» (A. Berti, Id.). Non è quindi da escludere che qualche ardimentoso soldato, italiano o austriaco, abbia già faticosamente percorso la nostre odierna traiettoria! Un’ultima nota storica: le carte riportano spesso la dicitura “Rauchkofel – Monte del Fumo”. La cima, invero, si chiama “Rauhkofel – Monte Scabro”. La trasformazione toponomastica è ascrivibile ad un errore degli interpreti italiani che mutarono il tedesco “rau” (ruvido, scabro) con “rauch” (fumo).
La squadra per l’avventura esplorativa di oggi è composta da Paolo, Riccardo ed Edoardo (oltre, ovviamente, al sottoscritto!).
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi di Carbonin, una mulattiera si innesta, a quota 1457, sulla passeggiata della ferrovia. La si imbocca e, dopo un breve tratto nel bosco, ci si addentra sulle ghiaie della Val della Fontana di Sigismondo, risalendo la valle su chiara traccia, dapprima sul versante orografico sinistro e, poi, su quello destro (fig. 2 e 3).
fig. 2 Le prime ghiaie della Val della Fontana di Sigismondofig. 3 Già si intravede la Forcella del Rauhkofel
L’incedere è agevole fino all’attraversamento di un ripido impluvio che segna il termine della traccia (fig. 4). Ci si porta quindi sul greto e, senza via obbligata, si raggiunge in breve la parte apicale della Val della Fontana di Sigismondo, là dove i baranci lasciano il passo alle scomode ghiaie franate dal Rauhkofel e dalla Costabella (fig. 5).
fig. 4 L’impluvio che segna il termine della traccia e presso il quale è necessario scendere nel gretofig. 5 La parte apicale della Val della Fontana di Sigismondo
La Forcella del Rauhkofel è ormai sempre più vicina; un ultimo ripido tratto di ghiaie (fig. 6) ed iniziamo ad avvistare i resti dei baraccamenti austriaci della prima guerra mondiale (fig. 7); già da metà settembre 1915, infatti, gli austriaci avevano occupato la sella, nel timore che i reparti italiani potessero inoltrarsi dentro la Valle della Fontana di Sigismondo e, da lì, cogliere alle spalle i presidi austriaci. Impressionante è la quantità di scatolame arrugginito ed ossa di ungulati (probabilmente cervi, viste le dimensioni!!!) (fig. 8), fortunato pasto dei soldati che qui sostarono.
fig. 6 L’ultimo ripido tratto di ghiaione prima della Forcella del Rauhkofelfig. 7 I resti dei baraccamenti austriaci.fig. 8 Una mascellona, verosimilmente di cervo, probabile cena di un secolo fa dei soldati austriaci
Giunti in Forcella del Rauhkofel, 2250m, la vista è spettacolare. Da una forcelletta pochi metri prima della Forcella, sulla cresta rocciosa, si può ammirare verso N la cima del Rauhkofel, 2358m (fig. 9). Dalla Forcella del Rauhkofel, verso S, si profila maestoso il ghiacciaio del Cristallo, sovrastato dalle cime del Cristallo e del Piz Popena (fig. 10 e 11).
fig. 9 Riccardo e, alle sue spalle, la cima del Rauhkofelfig. 10 Le cime del Piz Popena e del Cristallo sorvegliano il sottostante ghiacciaio del Cristallofig. 11 In forcella!
Inizia ora la parte più esplorativa e delicata dell’itinerario. Si valica la Forcella del Rauhkofel verso S e si scende, piuttosto agevolmente, tra innumerevoli resti di filo spinato, fino al verde pendio prativo; un vero e proprio giardino pensile rigoglioso, aereo, contornato da profondi precipizi (fig. 12 e 13).
fig. 12 Il versante S di Forcella del Rauhkofelfig. 13 Sul pulpito prativo; alle spalle, il ghiacciaio del Cristallo!
Si scende quindi fino ai margini più bassi del prato, tenendo la sinistra, fino ad imboccare un ripido canale che scende verso E (fig. 14). Si inizia ora la discesa su terreno abbastanza solido (fig. 15); la roccia, infatti, è spesso levigata dall’acqua e la progressione in disarrampicata risulta gradevole e semplice (fig. 16) sino a che, nei pressi di una strettoia, ci troviamo di fronte ad un bel salto di circa una decina di metri (fig. 17). L’itinerario sino a qui svolto parrebbe ricalcare la linea scelta da Marco Di Tommaso e dai suoi compagni:
«Valicata verso sud la Forcella Rauhkofel, si scende nel versante opposto, seguendo una traccia di sentiero che, con numerosi zig-zag, solca il pendio erboso sotto il suddetto intaglio. Presso l’imbocco di un canale erboso, il sentiero scompare. Si scende per questo e, quando non è più possibile proseguire, si traversa verso destra su cengette (I) e si entra in uno parallelo».
A differenza di Di Tommaso, però, noi preferiamo una discesa più diretta e scegliamo di continuare nel canale.
fig. 14 Il passaggio dal pendio prativo al canalefig. 15 La sezione apicale del canalefig. 16 La discesa nel canale è piacevole, su roccia piuttosto compatta e levigatafig. 17 Presso la strettoia, un salto di roccia di circa una decina di metri ci impone di calarci
Iniziamo quindi ad allestire una sosta con cordino dentro una rientranza della parete e friend di supporto su compattissima roccia (fig. 18) e ci caliamo, superando il ripido salto. Apro io, segue Riccardo e chiude Edoardo (fig. 19 e 20). Da notare che, nei pressi della base del salto, fuoriesce dalla roccia una timido rigolo d’acqua sufficiente, con estrema pazienza, a riempire una borraccia!
fig. 18 Edoardo allestisce la sosta prima del saltofig. 19 Inizio a calarmi per superare il salto di rocciafig. 20 Riccardo in calata
Giunti alla base del salto di roccia, assecondando il pendio che degrada verso sinistra, troviamo un nuovo salto, meno marcato ma comunque esposto, e lo aggiriamo sulla destra, scendendo per ripidi mughi. Si entra ora in un curioso antro (fig. 21), particolarmente marcio, dove si effettuano un paio di passaggi delicati: un primo traverso su roccia sporca (II+ grado) (fig. 22), prestando particolare attenzione al fondo viscido, conduce in uno stretto canale di mobili sfasciumi e, dopo pochi metri, un secondo passaggio su terreno e roccia ancor più sporca e marcia (II grado) permette di superare un piccolo salto (fig. 23). L’ambiente è favoloso: siamo dentro un stretta gola inclinata con impagabile panorama sul Piz Popena.
fig. 21 Il curioso antro dentro il quale progrediamofig. 22 Il sottoscritto compie il traverso su fondo sdrucciolevolefig. 23 Riccardo affronta il secondo passaggio delicato dentro la gola
Usciti dalla stretta gola, si può procedere entrando simpaticamente dentro un cunicolo, cui tetto è un enorme masso incastrato nel canale oppure, in alternativa, scendere sulla sinistra del canale su facili roccette. Ovviamente, noi non potevamo non godere di questi trenta secondi da speleologi durante la nostra esplorazione! (fig. 24 e 25)
fig. 24 Entrato nel pertugio!fig. 25 Riccardo esce dal cunicolo!
Si scende ora per poche decine di metri, fino a che il canale si apre: sulla sinistra, un alto affioramento roccioso, riconoscibile da un masso quadrato incastrato alla sua base (fig. 26); frontalmente, le ghiaie finisco tra baranci oltre i quali s’apre il baratro; a destra, una debole traccia di camosci entra tra i mughi. Si imbocca quest’ultima traccia e si perdono circa 20/30 metri di quota a zig-zag tra il costone di mughi ed il canalino detritico che solca la sinistra del costone (fig. 27 e 28).
fig. 26 L’affioramento roccioso sulla sinistra (Riccardo è andato in perlustrazione sulla cima!)fig. 27 Scendendo a zig zag tra i ripidi barancifig. 28 Edoardo scende nel canale a sinistra del costone barancioso
Si giunge quindi alla medesima quota dove, a S, un impluvio taglia il costone barancioso. Si supera verso S l’impluvio, badando di traversarlo nella sezione apicale, per evitarne i ripidi margini franosi (fig. 29). Di lì, si continua a traversare le pendici rocciose di Costabella, tenendosi sempre piuttosto in quota per accedere più agevolmente al profondo impluvio di ghiaie che separa le pendici settentrionali del Monte Cristallo dalle pareti della Costabella, fino ad individuare una sorta di “scivolo” ghiaioso che consente di entrare nell’impluvio. È fondamentale individuare questo preciso punto di accesso in quanto il solo che permette di scendere più o meno agevolmente; come si evince dall’immagine di cui all fig. 30, infatti, ogni altra traiettoria comporterebbe una calata lungo ripidi margini rocciosi.
fig. 29 L’attraversamento a monte dell’impluviofig. 30 La traiettoria scelta dall’uscita della gola
Una volta dentro il profondo impluvio che separa le pendici del Monte Cristallo dalla Costabella, si rimonta il ripido bordo e si individua facilmente il sentiero che conduce ai piedi del salto roccioso che separa la Val Fonda dal circo glaciale del Cristallo. Una capatina alla magica cascatella è d’obbligo (fig. 31 e 32)!
fig. 31 La cascatella ai piedi del salto roccioso che separa la Val Fonda dal circo glaciale del Cristallofig. 32 La cascatella alla testata di Val Fonda
Senza via obbligata, individuando qualche ometto che di volta in volta, sul versante idrografico destro della Val Fonda, indica la traccia, si scende a valle, verso il Ponte della Marogna (fig. 33 e 34), per rimontare poi l’argine artificiale sulla sinistra, in corrispondenza della casetta di legno. Di qui si scende l’argine sulla sinistra, abbandonando la Val Fonda e dirigendosi, su comoda mulattiera, verso Carbonin in mezzo al bosco.
fig. 33 Riccardo in Val Fondafig. 34 La strettoia della Val Fonda
NOTE CONCLUSIVE
L’itinerario è divertente e non presenta particolari difficoltà tecniche, salvo la necessità di allestire una singola sosta per calata di 10 m. Il panorama, per l’intero svolgimento, è mozzafiato: Piz Popena, ghiacciaio del Cristallo e Monte Cristallo sono la cartolina che ci accompagna dalla Forcella del Rauhkofel alla Val Fonda. Unica sorpresa: ad eccezione del filo spinato in Forcella Rauhkofel, non abbiamo rinvenuto alcun reperto bellico. Ciò è davvero singolare, considerate le premesse storiche. Evidentemente, il versante meridionale del Rauhkofel doveva apparire ai soldati italiani veramente inaccessibile, al punto da concentrare tutti i tentavi di conquista sul versante settentrionale. Salvo prova contraria, possiamo quindi fieramente affermare di essere stati i primi, oggi, ad aprire questa nuova traiettoria di discesa!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA/PD. Lunga traversata alpinistica in ambiente severo, di per sé priva di difficoltà tecniche ma con diversi passaggi esposti e su terreno spesso incerto a causa della massiccia erosione.
DISTANZA: 15,5 km – DURATA: 9 h – DSL: 1400 m D+
DATA: 31 luglio 2022
PREMESSE
Già l’estate scorsa, l’amico Paolo aveva portato alla mia attenzione il giro ad anello del Monte Rudo (Rautkofel), con discesa per la Val Bulla. Su questo itinerario, alcune relazioni sono già state pubblicate. Ve ne sono talune, peraltro, che recano date piuttosto risalenti (addirittura 2009) e, in quanto tali, non possono essere considerate attendibili. Eventi atmosferici particolarmente intensi, infatti, si sono abbattuti nel corso degli anni successivi sulle Dolomiti; uno tra tutti, nell’agosto del 2017, ha di fatto sconvolto la topografia locale, cancellando letteralmente alcuni sentieri. È questo il caso della traccia che raggiunge la forcella del Rondoi percorrendo il versante meridionale del Monte Rudo, per poi immettersi in Val Bulla. Nel 2021, contattammo una guida alpina che, addirittura, rifiutò di accompagnarci nella discesa per la Val Bulla, memore della crisi di nervi di un povero cliente nell’attraversamento dei numerosi profondi impluvi che solcano la valle. E questa storia fu per noi il seme della curiosità. Abituati ad esplorare impervie valli selvagge, avvezzi all’impluvio quanto al barancio, non potevamo non esplorare anche la famigerata Val Bulla! Oltre ovviamente a Paolo, accettano di buon grado di unirsi all’avventura Edoardo, ormai compagno immancabile di ogni esplorazione Windchili, e Marco, alla prima uscita con il nostro gruppetto!
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi della ex fortificazione austriaca del Forte di Landro (Werk Landro), 1400m, si imbocca una mulattiera erbosa che, in breve, conduce alla traccia che risale a serpentine le pendici occidentali del Teston di Rudo. Si apre tra i mughi, di tanto in tanto, uno splendido panorama sul lago di Landro, sovrastato dal monte Cristallo e dal Popena. La Val Fonda, nella parte apicale, svela la fronte del ghiacciaio del Cristallo… e constatiamo che questo non è ormai più diviso in due lobi, come da rilevamenti svolti nelle esplorazioni degli ultimi due anni, ma è retrocesso ben sopra il grande affioramento roccioso che lo divideva (fig. 1).
fig. 1 Il panorama sulla Val di Landro e, all’orizzonte, il monte Cristallo ed il Piz Popena
Il sentiero, in costante salita, porta subito a guadagnare ca 700 m D+, fino a giungere ai ruderi di un insediamento austriaco della prima guerra mondiale, a quota 2175m (fig. 2 e 3).
fig. 2 Appropinquandoci all’insediamento militare austriaco di quota 2175mfig. 3 Curiosando dentro una fortificazione, con vista sul monte Piana e, all’orizzonte, su monte Cristallo, Piz Popena e Cristallino di Misurina
Il sentiero risale ora con decisione una dorsale rocciosa (fig. 4 e 5) puntando allo sperone occidentale del Teston di Rudo (fig. 6).
fig. 4 Il sentiero rimonta decisamente una dorsale rocciosafig. 5 Paolo affronta la dorsale rocciosa nella parte superiore rispetto alle fortificazioni militari austriache, ben visibili in basso a destrafig. 6 Edoardo ai piedi dello sperone occidentale del Teston di Rudo
Si prosegue ora ai piedi della parete, alternando passaggi su brevi cenge esposte (fig, 7 e 8) e franosi impluvi detritici (fig. 9).
fig. 7 La traccia si sviluppa ora in leggera inclinazione, su cengia espostafig. 8 La progressione in cengia non presenta, comunque, alcuna difficoltàfig. 9 Attraversando i vari impluvi che solcano i pendii della montagna
Questa prima sezione dell’itinerario non presenta particolari difficoltà, se non un paio di passaggi da affrontare con cautela: rispettivamente un brevissimo tratto di arrampicata per superare un salto roccioso di un paio di metri (fig. 10 e 11) ed una stretta cengia esposta (fig. 13 e 14). I due passaggi delicati sono separati da una tranquilla progressione in cengia (fig. 12).
fig. 10 Edoardo supera con agile classe il breve salto rocciosofig. 11 Paolo si appresta a superare il salto di rocciafig. 12 Paolo ed io che procediamo in cengiafig. 13 Paolo affronta l’esile traccia che taglia la paretefig. 14 Il sottoscritto per percorre la cengia
Ora la traccia prosegue ai piedi della parete (fig. 15), senza alcun passaggio esposto o pericoloso, fino a giungere nei pressi dello sperone meridionale del Teston di Rudo, intorno a quota 2500m, in prossimità di una serie di fortificazioni militari dalle quali gli austriaci bombardavano il Monte Piana nel 1915 (fig. 16 e 17).
fig. 15 La traccia prosegue ai piedi della paretefig. 16 Marco visita i ruderi dell’avamposto militare austriacofig. 17 Sull’opposto versante dello sperone meridionale del Teston, si rinvengono altre fortificazioni
Imponente, di fronte a noi, la parete meridionale del Monte Rudo ovest (fig. 18), separata dallo sperone su cui ci troviamo da una valle ghiaiosa che conduce direttamente in Val Rienza. Intravediamo la traccia che risale esposte balze rocciose alle pendici del Monte Rudo ovest e, per sicurezza e comodità, scegliamo fin d’ora di imbragarci. Una coppia, che ci precedeva, abbandona la traccia e scende lungo il ghiaione verso la Val Rienza: è l’ultima “via di fuga” prima di affrontare la sezione più delicata del versante meridionale del Monte Rudo.
fig. 18 Il Monte Rudo ovest e, in rosso, la traccia da seguire.
Seguiamo la traccia, che perde quota, superando prima uno sperone roccioso (fig. 19) per poi raggiungere il fondo del vallone ghiaioso e, quindi, rimontare le ghiaie fino alle pendici della parete del Monte Rudo ovest (fig. 20). Un primo passaggio delicato su terreno cedevole ci conduce al vertice dello spigolo meridionale del Monte Rudo ovest (fig. 21). Di lì, la traccia supera una serie di impluvi friabili (fig. 22 e 23) che separano il Monte Rudo ovest dal Monte Rudo di mezzo.
fig. 19 Al vertice dello sperone roccioso che separa il vallone che scende in Val Rienzafig. 20 Edoardo raggiunge la base della parete del Monte Rudo ovestfig. 21 Paolo risale su terreno cedevole lo spigolo roccioso meridionale del Monte Rudo ovestfig. 22 Paolo supera gli impluvi che separano il Monte Rudo ovest dal Monte Rudo di mezzofig. 23 Edoardo supera uno dei vari impluvi che cancellano il sentiero
Si giunge ora su una comoda sella, nei pressi di una caverna nella roccia. La traccia, che fino ad ora puntava verso E, devia bruscamente verso N/NE, aggirando lo spigolo meridionale del Monte Rudo di mezzo. Qui inizia la parte più “seria” della traccia sul versante meridionale del Monte Rudo. La “serietà” non è tanto dovuta alla difficoltà dei passaggi quanto all’aumentare dell’esposizione. Il versante meridionale del Monte Rudo di mezzo, infatti, si biforca in due ripidi speroni rocciosi e la traccia traversa le verticali e friabili pareti su un terreno sempre più dilavato ed incerto. Il primo assaggio di quanto ci aspetta lo troviamo nei primi metri dopo la selletta. Il costone orientale della sella è completamente smottato, cancellando il sentiero. Ci troviamo quindi costretti a progredire con estrema cautela, dapprima su zolle erbose e poi sulla più solida (solida???) roccia (fig. 24). Esemplare è il confronto con quanto fotografato da una comitiva nel 2017 (fig. 25) (fonte).
fig. 24 Superato il primo tratto critico. È evidente il collasso del costone che ha spazzato via il sentierofig. 25 Immagine scattata nel 2017, quando ancora esisteva il sentiero
Ed ora la parte più caratteristica e delicata del sentiero. Una stretta ed esposta cengia inclinata e gradinata conduce al bordo di un salto di roccia di circa tre metri. Una scaletta in alluminio, fissata alla base con due cordini non propriamente “stabili” legati ad un chiodo da roccia, permette di superare il salto (fig. 26). Pericolosissimo, invece, è il cordino che lega la scala, nella parte apicale, al fittone di guerra. Fortunatamente, ho saggiato la solidità del fittone prima di scendere la scala e… un po’ come il giovane Artù nella spada nella roccia, ho letteralmente estratto il pesante fittone dalla parete!!! Ho quindi abbandonato il fittone a terra poiché, se qualcuno dovesse reggersi sul cordino mentre scende la scala, si tirerebbe addosso l’intero fittone… scenario non proprio auspicabile, considerato che la scala poggia su una selletta che degrada nel vuoto. Una volta, la scala di alluminio era affiancata da una scala di legno… ora la vecchia scala di legno giace, in pensione, sul roccione di fronte alla selletta (fig. 27). Come anticipato, per giungere alla scala di alluminio è necessario percorrere un’esile cengia che, per pochi passi, si affaccia sul baratro sottostante. Provvidenziale è un ulteriore fittone, ben infisso pochi metri prima dell’imbocco dell’esposta cengia (fig. 28). È su questo fittone che Edoardo allestisce un punto di manovra per assicurarci mentre ci appropinquiamo alla scaletta. Apro io e scendo tranquillamente. Appena giunto sulla selletta, è mia premura tenere ferma la scaletta per i miei compagni d’avventura che si apprestano alla discesa (fig. 29 e 30).
fig. 26 In basso a sinistra si distingue il cordino che lega la parte apicale della scala di alluminio al fittone. Ora il fittone è riposto a terra, onde evitare tragici incidenti. In rosso, la prosecuzione della traccia rimontando il secondo sperone roccioso del Monte Rudo di mezzofig. 27 Il riposo della vecchia scala di legno, dopo chissà quanti anni di onorato servizio
In merito, ho il privilegio di riportare una perla di storica che il sig. Giovanni P. di Auronzo ha gradito condividermi:
«1977: ci arrivo da sopra avanzando carponi sulla cengietta colma di detriti e scopro un simulacro di legno, quasi diafano: anno 1915? Una settimana dopo scopro a Forcelletta Rondoi una altrettanto (?) vecchia scaletta ma rattoppata meglio, me la carico in spalla e la porto giù. Resisterà 25 anni, ora distesa sotto il salto. 2003: arrivo dalla pianura con una scaletta nuova fiammante in alluminio, la piazzo in loco e scopro che è troppo corta. Una settimana dopo finisce su alla Forcelletta ed è tuttora in servizio all’attacco della normale alla Croda dei Rondoi. Altro viaggio da Landro con scaletta più lunga, e fissaggio al meglio su chiodone originale…».
fig. 28 Il fittone (questa volta ben fisso!) su cui faremo sicurafig. 29 Marco procede assicurato verso la scalettafig. 30 Pronto a tenere ferma la scaletta prima del passaggio dei miei compagni d’avventura
Scesi tutti dalla “scaletta mobile”, realizziamo che i successivi metri sono altrettanto complicati. Non tanto per la difficoltà tecnica (di fatto assente) quanto per la combinazione di esposizione e terreno friabile. Si potrebbe certamente procedere slegati ma perché rischiare la vita, visto che abbiamo tutto l’occorrente per una progressione sicura? Cerchiamo quindi di allestire una sosta per assicurarci ma la roccia è completamente marcia. Per ben quattro volte Edoardo prova a piantare un chiodo ma la roccia si sgretola intorno non appena il chiodo entra (fig. 31). Alla fine rinunciamo e decidiamo di usare il chiodo che regge la scala per assicurarci. Mi cimento per primo in questo tratto di traversata all’interno dell’anfratto roccioso e senza alcun problema giungo in un punto più sicuro, superando il tratto esposto (fig. 32 e 33). Tocca ora a Marco e Paolo traversare (fig. 34 e 35).
fig. 31 La roccia non vuole accogliere i nostri chiodi ;-(fig. 32 Inizio la traversata del tratto espostofig. 33 Una panoramica rende l’idea dell’ambiente dove si sviluppa la tracciafig. 34 Paolo traversa la cengia insidiosafig. 35 Marco e Paolo hanno superato il tratto più esposto. L’immagine rende l’idea dell’esposizione
Giunti nel punto più “sicuro” per slegarsi, ancora le difficoltà non sono terminate. Si tratta ora di rimontare un ripido spigolo coperto di friabili ghiaie (fig. 36). Finalmente, in sella allo spigolo, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Riguardiamo indietro e solo ora realizziamo quanto la traccia che abbiamo percorso sia aerea e friabile (fig. 37).
fig. 36 Marco e Paolo superano il ripido e friabile pendiofig. 37 Uno sguardo retrospettivo ci fa apprezzare appieno l’esposizione del tratto percorso.
Nei pressi della selletta erbosa, intorno a quota 2520m, troviamo anche una curiosa trincea contenente un libro di sentiero. Peccato che il contenitore sia vuoto e non avremo mai modo di lasciar traccia in loco del nostro passaggio. Ora, è fondamentale badare a non perdere la traccia: dalla trincea, proseguendo verso NE, il costone della montagna collassa (fig. 38). La traccia, tuttavia, non segue tale direzione ma si inerpica a monte, in direzione NO, su facili e stabili roccette, per circa una cinquantina di metri, esattamente nell’intaglio tra il Monte Rudo di mezzo ed il Monte Rudo Grande.
fig. 38 Il costone della montagna collassato; all’orizzonte, il Monte Mattina (Morgenkopf), 2493mfig. 39 La traccia devia bruscamente rimontando verso NO su facili roccette
Più prendiamo quota più aumenta l’intaglio tra il Monte Rudo di Mezzo ed il Grande. Un ultimo tratto in arrampicata e giungiamo ad una comodissimo crinale erboso da cui si domina tutto ciò che di bello c’è da vedere nei dintorni! Una sosta ristoratrice è ora d’obbligo… e mentre ci rifocilliamo, spunta pure fuori il sole!!!
fig. 40 Finalmente una sosta!fig. 41 E le nuvole, alla fine, si diradarono.
La traccia si sviluppa ora su terreno più dolce, traversando un enorme cengia erbosa sul versante meridionale del Monte Rudo Grande. Si traversa ancora un piccolo ghiaione (fig. 42), per poi rimontare l’ennesimo spigolo friabile, con attenzione e cautela, su terreno cedevole e ripido (fig. 43 e 44).
fig. 42 Traversando il ghiaione che taglia il versante meridionale del Monte Rudo Grandefig. 43 Edoardo ed io sulle pendici del Monte Rudo Grandefig. 44 Ancora una volta superiamo friabili e ripidi costoni ai piedi delle pareti del Monte Rudo
Ed ecco che finalmente avvistiamo la forcella che conduce al Passo Grande del Rondoi, incorniciata da due ometti (fig. 45)!! Sono passate poco meno di sei ore e siamo al punto di svolta; giunti nel ghiaione che separa il Monte Rudo Grande dallo sperone meridionale della Croda del Rondoi, non si deve proseguire verso E ma deviare verso N, su modestamente ripide ma agevoli ghiaie fino a guadagnare la Forcelletta del Rondoi (Schwalbenjöchl), 2672m (fig. 46, 47 e 48).
fig. 45 In alto, sul profilo di cresta, si intravedono i due ometti che indicano l’accesso per scendere al Passo Grande del Rondoi. Sopra il mio caschetto, invece, le bianche ghiaie sulle quali ci si deve inerpicare, verso Nfig. 46 Edoardo attacca il ghiaione fino alla Forcelletta del Rondoi che conduce alla Val Bulla.fig. 47 Paolo risale gli ultimi metri di ghiaione fino alla Forcelletta del Rondoifig. 48 In forcella!
Ed eccoci a scendere in Val Bulla! La pendenza è contenuta e le ghiaie sono belle morbide; l’ideale per una veloce sciata in discesa!
fig. 49 Si scende come treni su un fondo bello cedevole!fig. 50 Cala l’adrenalina, il peggio è passato!
Là dove il ghiaione perde pendenza, si individua una debole traccia tra chiazze d’erba (fig. 51), con ometto, e la si imbocca, badando però di abbandonarla per deviare verso la sinistra orografica della Val Bulla, non appena ci si avvicina ai baranci (fig. 52) (proseguendo sulla destra orografica si seguirebbe il vecchio sentiero, che tuttavia risulta ripetutamente interrotto da profondi e ripidi impluvi). A quota 2080m, in prossimità del termine del letto ghiaioso, ci si addentra tra i baranci e si iniziano a traversare semplici impluvi (fig. 53). Si prosegue, in leggera discesa, tenendosi sempre sulla sinistra orografica del Val Bulla, sino a che un muro di baranci rende più difficoltoso il passaggio. A questo punto, è alternativamente possibile scendere su ripide ma facili ghiaie sino al greto del torrente, oppure entrare nei fitti baranci fino ad un profondo e largo impluvio. Noi optiamo per la seconda soluzione e, giunti sul bordo del costone franato, allestiamo una manovra su un solido ramo di mugo per calarci in sicurezza sul fondo dell’impluvio. Ci attendono circa 20/25m di ripida calata, su un fondo estremamente friabile. Il consiglio, per chi giunge nel fondo dell’impluvio, è di abbandonare immediatamente la posizione, scendendo più a valle, poiché chi scende a monte muove inevitabile un’importante quantità di detriti (fig. 54 e 55).
fig. 51 Si individua la vecchia traccia che scendeva sul versante orografico destro della Val Bulla e la si imbocca fino a che si immette nei barancifig. 52 Sulla sinistra orografica della valle, intorno a quota 2080m, tra gli ultimi macigni del ghiaione, ci si immette tra i mughi fig. 53 Si traversano alcuni semplici impluvi che hanno spazzato via il costone di barancifig. 54 Un enorme e profondo impluvio taglia il versante orografico sinistro della Val Bulla. Per procedere in sicurezza è opportuno assicurarsi e calarsi.fig. 55 Mentre mi calo sul fondo dell’impluvio
Il canale dell’impluvio non è proprio morbido come il ghiaione che scendeva da Forcella di Val Bulla ma ci si diverte comunque, con qualche acrobazia, a sciarlo (fig. 56)! Usciti dal ghiaione dell’impluvio, si entra nel greto asciutto del torrente della Val Bulla e si scende tra enormi macigni e tronchi levigati dalle acque (fig. 57). A quota 1700m, un debole rigagnolo d’acqua fuoriesce in un paio di punti dalle ghiaie che hanno coperto il greto del torrente. Continuiamo a perdere quota, progredendo sul greto del torrente circondati da ripide pareti di terra compatta, solcata dall’erosione delle acque, fino a giungere ad un terrapieno di ghiaia che funge da argine (fig. 58). È proprio sull’argine che si deve rimontare, per poi ridiscenderlo nei pressi di un forte militare dal quale un obice da 105 mm bombardava massicciamente Forcella Lavaredo nel maggio 1915. Aggirato il forte, si trova la vecchia mulattiera erbosa che, in breve, riporta al parcheggio del Forte di Landro.
fig. 56 Non è proprio morbido ma comunque in qualche modo sciabile!fig. 57 Entrati finalmente nel greto del torrentefig. 58 Le ultime centinaia di metri nel greto, prima di salire sull’argine di ghiaia sul versante orografico sinistro
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Nonostante l’itinerario non presenti particolari difficoltà tecniche (solo qualche passaggio massimo di I/II°), l’intera traccia sul versante meridionale del Monte Rudo, in particolare la sezione del Monte Rudo di Mezzo, si sviluppa su cenge esposte e dilavate. Passo fermo e condizioni meteo stabili sono fondamentali per affrontare tale percorso, che non può assolutamente essere considerato banale e sottovalutato per l’assenza di difficoltà alpinistiche. Una riflessione finale: alcuni sentieri dolomitici, tra questi sicuramente l’anello del Monte Rudo, non saranno percorribili in eterno. Ogni anno, gli eventi atmosferici erodono le pareti, spazzando via interi costoni e dilavando le cenge, che diventano sempre più esili. In assenza di adeguata manutenzione, un sentiero come la traccia che traversa il versante meridionale del Monte Rudo è destinato a breve a scomparire e, in ogni caso, richiederà all’escursionista sempre maggior ardimento. Un’occasione in più per percorrerlo quanto prima!!!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Calata di Forcella Campale: AD+. (Dovendo, come accaduto, risalire in arrampicata il tetto strapiombante, corrispondente al 4° tiro: D+).
Traversata alpinistica mediamente lunga e fisicamente non troppo impegnativa. La calata da forcella Campale al Cadin del Ghiacciaio si sviluppa su ca 150m, 100m D-, con necessità di effettuare almeno 6 calate (4 appoggiate, 1 strapiombante, 1 ripida). Nella sezione centrale, in disarrampicata, si raggiungono difficoltà di V grado. Da non sottovalutare la condizione della roccia, spesso marcia, che rende più difficoltosa la disarrampicata.
DISTANZA: 14 km – DURATA: 8,30 h – DSL: 1200m D+
DATA: 17 luglio 2022
PREMESSE
Una forcella è un valico che separa due valli. È quindi, idealmente, il punto di transito per passare da una valle all’altra… idealmente… vi sono infatti forcelle che, se da un versante si raggiungono più o meno agevolmente, dall’altro terminano nel vuoto. Io le chiamo ironicamente “forcelle terra-aria” 🙂 La Croda Rossa pare essere generosa quanto a forcelle terra-aria. La più nota è sicuramente Forcella Nord, la forcella più alta sciabile sulle Dolomiti. Si accede faticosamente su due piedi dalla Val Montejela ma si scende a quattro zampe dal lato di Forcella Nord. È un percorso di sci alpinismo piuttosto estremo ma risulta fattibile e se ne trova recensione. Altro esempio è poi Forcella Campale (Gumpalscharte). Vi si accede salendo un ripido ghiaione dal Cadin di Croda Rossa ma, giunti in forcella, si potrà scendere fino al Cadin del Ghiacciaio? È questo il quesito che Edoardo ed io ci siamo posti prima di intraprendere l’avventura. Descrizioni dell’itinerario non se ne trovano; questa è la prima relazione ad essere pubblicata. Prima di cimentarmi nell’avventura, ho ovviamente cercato di raccogliere tutte le informazioni del caso (pochissime). Un ringraziamento particolare al Maestro d’avventura dolomitica Paolo Beltrame e a Suo figlio che, disponibilissimi, hanno puntualmente riscontrato la mia richiesta di approfondimento sull’itinerario, confermando che la discesa di Forcella Campale ha carattere puramente alpinistico. Un ringraziamento speciale anche a Riccardo, che mi ha fornito i primi spunti di studio condividendo le foto del Cadin del Ghiacciaio e di Forcella Campale scattate dalla Crodaccia. Obiettivo della presente esplorazione non è, infine, esclusivamente appurare la fattibilità della calata da Forcella Campale al Cadin del Ghiacciaio ma anche verificare le condizioni dei due rock glacier collocati rispettivamente nel Cadin di Croda Rossa e nel Cadin del Ghiacciaio. Non si deve infatti dimenticare che l’Elenco dei Ghiacciai Italiani del 1925 rilevava l’esistenza del “Ghiacciaio di Croda Rossa”, cui emissario era il Rio di Stolla. Nel 1957, tale ghiacciaio risultava estinto.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi della casa abbandonata poco dopo il passo di Cimabanche, sulla sinistra, (1523m), si imbocca il sentiero CAI n. 18 e si risale la Val di Chenópe (Knappenfusstal) (dall’ampezzano chenòpo “minatore”, in tedesco knappe) sempre costeggiando il greto del torrente (fig. 1 e 2).
fig. 1 Seguendo il sentiero n. 18 che risale la Val di Chenópefig. 2 Edoardo sul sentiero n. 18, nel tratto che risale le pendici più settentrionali del Knollkopf
Dopo circa 45 minuti, si supera un piccolo ponte di legno e, nell’intersezione evidente con una mulattiera, si tiene la sinistra, raggiungendo in pochi minuti un’amena radura prativa, la cui vista si apre sul Cadin di Croda Rossa (fig. 3).
fig. 3 La radura prativa a valle del Cadin di Croda Rossa
Si procede quindi lungo l’evidente mulattiera sino ad uno steccato di legno che delimita l’area di pascolo. Entrati nella recinzione, è possibile alternativamente tenere la destra, seguendo il sentiero, oppure, senza via obbligata, risalire nel bosco rado, seguendo le umide zolle che indicano la presenza di una sorgente, sino a giungere ai ruderi di una casera (fig. 4).
fig. 4 Edoardo giunto nei pressi dei ruderi della casera
Superato il rudere, si continua in direzione NO sino a montare sul sentiero n. 3. Si guada là dove più rii confluiscono, non potendo non ammirare i giochi di stone balancing realizzati da qualche mano ferma e paziente (fig. 5 e 6).
fig. 5 La confluenza dei rii provenienti dalle valli superiorifig. 6 L’arte dello stone balancing, sempre più frequente nei torrenti di montagna
Si tiene ancora il sentiero n. 3, per poche decine di metri, fino a giungere ai piedi di uno sperone roccioso; da qui, una debole traccia devia a sinistra, in direzione SO, fino a giungere ad una radura prativa particolarmente amata dalle vacche al pascolo. Si traversa la radura e ci si inerpica, senza via obbligata, su per una collinetta pressoché spoglia, in direzione SO (fig. 7). Impressionante il numero di residuati bellici, alcuni apparentemente piuttosto recenti, al punto da nutrire qualche perplessità sul fatto che risalgano alla prima guerra mondiale. Un bossolo reca la data del 1945… dovremo approfondire quale evento bellico ha coinvolto questo versante della Croda Rossa durante la seconda guerra mondiale…
fig. 7 La radura prativa vista dalla sommità della collinetta sulla quale si deve salirefig. 8 Il resto di un razzo, oggi colonizzato da un ragnettofig. 9 Decine di resti di razzo costellano la via di salita. Il numero è tale che, in questo tratto, per la prima volta mi viene in mente il concetto di “inquinamento da residuati”.
Guadagnata la sommità della collinetta, si entra ora nel Cadin di Croda Rossa, tenendo la destra, ai piedi delle Cime Campale, su levigatissima roccia talvolta solcata dai tipici karren, parimenti molto comuni sul versante occidentale della Croda Rossa, in zona Fosses. È evidente il lavoro di erosione della roccia svolto dall’estinto ghiacciaio che, una volta, occupava il Cadin di Croda Rossa (fig. 10). Sorprende, inoltre, la qualità della roccia di Cima del Pin e delle Cime Campale, sul versante del Cadin di Croda Rossa; contrariamente alle aspettative, la roccia si presenta estremamente compatta e levigata, per nulla marcia; terreno ideale per gli amanti dell’arrampicata (fig. 11).
fig. 10 Entrando nel Cadin di Croda Rossa fig. 12 Punta del Pin, 2682m, dal Cadin di Croda Rossa. Da notare la deformazione dei calcari in c.d. pieghe coricate a letto
IL ROCK GLACIER NEL CADIN DI CRODA ROSSA(già “Ghiacciaio del Pin”)
Pochi metri ancora e giungiamo ai piedi della fronte del rock glacier del Cadin di Croda Rossa (fig. 13). Il Catasto dei Rock Glaciers delle Alpi Italiane del 1997 stabilisce che il Cadin di Croda Rossa ospita un rock glacier la cui fronte si attesta intorno ai 2285m e la parte sommitale intorno ai 2385m, occupando una superficie di circa 130mila mq. Tale rock glacier, risalente ad un’epoca anteriore alla Piccola Età Glaciale (1300 d.C.), definito nel 1974 “Ghiacciaio del Pin” (Pin Ferner) dal glaciologo Corrado Lesca (C. Lesca, Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, 22, 1974, pag. 121), presenta solchi e creste trasversali, una fronte marcata ed un lobo ben sviluppato. Tuttavia questo rock glacier presentava nel 1997 una “uncertain activity“. Una decina d’anni più tardi, i ricercatori, a seguito di rilevamenti svolti tra il 2005 e il 2007, rilevavano che «Il rock glacier di Cadin di Croda Rossa non mostra affioramenti di ghiaccio e presenta strutture interne differenti indicando che probabilmente si tratta di un rock glacier con ghiaccio interstiziale (ice-cemented rock glacier)». (K. Krainer, K. Lang, H. Hausmann, Active rock glaciers at Croda Rossa/Hohe Gaisl, Eastern Dolomites (Alto Adige/South Tyrol, Northern Italy), in Geogr. Fis. Dinam. Quat., 33 (2010), 25-36).
fig. 13 La fronte del rock glacier del Cadin di Croda Rossa
Confermando le osservazioni svolte dai ricercatori, ad oggi possiamo confermare che la fronte del rock glacier è di per certo ben marcata (fig. 13), con una pendenza di 35-40° ed un’altezza di 50m, e si attesta a circa metà della strettoia tra la Punta del Pin e le Cime Campale nel Cadin di Croda Rossa. Non è stata pervenuta alcuna acqua di fusione nell’area ai piedi della fronte né alcun ghiaccio esposto una volta rimontata la fronte ed esplorata la superficie del rock glacier. Si conferma, invece, che il rock glacier è traversato longitudinalmente da evidenti solchi e le rocce sui cui progrediamo sono particolarmente mobili (fig. 14). Nei pressi della sezione sommitale del rock glacier, infine, è presente un’area innevata che, tuttavia, non sembra appartenere al ghiacciaio quanto, piuttosto, pare essere il lobo di un canale valanghivo proveniente dalla Croda Rossa, le cui nevi evidentemente sono perenni (fig. 15).
fig. 14 Il materiale instabile sulla superficie del rock glacier del Cadin di Croda Rossafig. 15 Il nevaio alimentato dalle valanghe provenienti da un ripido canale sulla parete orientale della Croda Rossa. Sullo sfondo, da destra a sinistra, le creste della Croda Rossa degradano fino alla ben visibile Forcella del Pin, per poi riprendere quota sino a Punta del Pin.
LA TRAVERSATA DI FORCELLA CAMPALE
Sebbene la salita a Forcella Campale appaia dal rock glacier piuttosto ripida (fig. 16), si rivela in realtà meno faticosa di quanto previsto. E pensare che Ugo di Vallepiana, nel 1925, scriveva che Forcella Campale si risaliva faticosamente “attraverso pendii di detriti della peggior specie“!!! (Ugo di Vallepiana, Dolomiti di Cortina d’Ampezzo, dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago, Guide del Club Alpino Italiano, sezione unversitaria, 1925). Noi scegliamo di attaccare il ghiaione che scende dalla forcella sulla destra, cercando di poggiare i piedi sulle rocce più grandi e stabili (fig. 17).
fig. 16 Forcella Campale dal rock glacier del Cadin di Croda Rossafig. 17 L’inizio della salita alla forcella Campale
L’obiettivo è abbandonare quanto prima le mobili ghiaie e giungere ad una successione di speroni rocciosi che, nei pressi della sezione centrale della salita, ci forniranno più solido appiglio. Guadagnata la roccia, saliamo piacevolmente facendo scrambling (fig. 18, 19 e 20).
fig. 18 Guadagnate finalmente le solide rocce che ci garantiscono un più agevole incederefig. 19 Edoardo procede con lo scramblingfig. 20 Ormai pochi metri e siamo in forcella Campale
Giunti in forcella Campale, emblematica è l’espressione di Edoardo 😉
fig. 21 “Edoardo, com’è la discesa???”
Sotto di noi, si sviluppa un canale bello marcio intorno a poco più di 50° di inclinazione (fig. 22). Ma, sorpresa delle sorprese, ci rendiamo subito conto che il nostro intento di aprire una nuova via non potrà essere coronato: troviamo infatti uno splendido e lucido spit sulla roccia a sinistra della forcella!!! Facciamo quindi una foto di rito in forcella ed iniziamo ad imbragarci (fig. 23). Sul versante opposto a noi, la Forcella Nord scende ripidissima e scariche di sassi che rotolano come proiettili nel Cadin del Ghiacciaio echeggiano minacciosi sulle pareti (fig. 24).
fig. 22 La calata inizia dentro un canalino di roccia marcia con pendenze intorno ai 70° che permette di raggiungere un ampio balcone ghiaioso.fig. 23 La foto di rito in forcella!fig. 24 La forcella Nord, la più alta forcella delle Dolomiti coi suoi 3000m, mette in comunicazione il Cadin del Ghiacciaio con la Val Montejela (Montesela).
Ci appropinquiamo quindi allo spit, aggirando con forte esposizione un enorme masso pericolante. Lo spit si trova a circa 2 metri di altezza, subito dopo il masso (fig. 25).
fig. 25 Edoardo aggira l’instabile masso per allestire la manovra di calata
“Longiato” sullo spit, lascio ad Edoardo l’onore di aprire la calata! Il fondo del canale si presenta quasi terroso, totalmente friabile. Edoardo si cala per circa una ventina di metri fino a che, sul bordo di destra del canale, individua un secondo spit (fig. 26 e 27). Tocca ora al sottoscritto: infilo il secchiello, mi faccio un machard ed inizio la calata che concludo in un paio di minuti.
fig. 26 Edoardo inizia la calata su fondo quasi terrosofig. 27 Gli ultimi metri del primo tiro di calata
Ogni recupero di corda deve essere effettuato con la massima cautela poiché smuoviamo terreno che ci rotola addosso (fig. 28).
fig. 28 Recuperando la corda e, con essa, un po’ di sassolini 🙂
Con ulteriori due “calate appoggiate”, di circa 20 e 35 metri, approdiamo ora su un grande cengione ghiaioso, che segna il termine del canale, i cui bordi degradano nel vuoto (fig. 29 e 30). Al centro di questa grande cengia, sulla parete, troviamo un chiodo cui ci leghiamo per scendere fino al bordo della cengia (fig. 31); si tratta ora di scendere di circa un metro sulla parete, in totale esposizione ma su comodo gradino e beneficiando di un appiglio su stretta fessura trasversale, fino a trovare un piccolo pulpito dove ci attende una sosta già allestita con spit + chiodo (fig. 32).
fig. 29 La terza calatafig. 30 Edoardo si avvicina alla larga cengia che segna il termine del canalefig. 31 Nei pressi del cerchio rosso si trova il chiodo per assicurarsi e scendere fino alla sosta successivafig. 32 Con un po’ di entusiasmo e coraggio ci si deve affacciare sul bordo della cengia e scendere di circa un metro, con esposizione molto elevata, fino a trovare un piccolo balconcino con la sosta già allestita
Giunto alla sosta, attacco il moschettone della longe allo spit e tiro un sospiro di sollievo! Ora Edoardo ha recuperato la corda mi raggiunge sul piccolo pulpito (fig. 33).
fig. 33 Edoardo si appresta a raggiungere il pulpito aereo dove abbiamo trovato la sosta
Ci prepariamo per le manovre di calata e lanciamo la corda nel vuoto. Questa volta, però, non vediamo dove la corda atterra! La roccia sotto di noi, infatti, precipita con un probabile tetto (a breve scopriremo che l’ipotesi era ben fondata!) (fig. 34). Non c’è altro da fare che andare in perlustrazione. Edoardo aumenta le spire del machard e si cala fino a scomparire nel vuoto. E qui inizia un’interminabile e stremante attesa. Sono immobile su un pulpito che non mi concede grande libertà di movimento. Siamo all’ombra (ad occhio non batte mai il sole in questo tratto di parete) e tira un bel venticello che dalla valle si incanala nella Forcella Campale. Maniche corte e smanicatino non si rivelano la scelta più azzeccata in questo tratto di calata; tuttavia, sono così esposto che non mi fido di togliere lo zaino e cercare il goretex (che sicuramente sarà sotto di tutto)… quindi inizio a soffiare aria calda sulle mani, badando di non smuovere qualche sassolino su quel mezzo metro di balconcino. Finalmente, arriva il via libera di Edoardo che, nel frattempo, è riuscito ad atterrare e trovare un punto sicuro una decina di metri sotto il tetto. Controllo ripetutamente che le ghiere dei moschettoni siano ben serrate intorno al secchiello e al machard e… via, calata nel vuoto, per circa venticinque metri.
fig. 34 La corda scompare nel vuoto…
Ed eccoci al termine della calata strapiombante, superata una grotta dalle cui fessure scendono gocce che si trasformano in un rigolo d’acqua (fig. 35). L’atterraggio avviene su un comodo e sicuro balconcino, che mi permette di togliere lo zaino e mettermi una maglia tecnica per recuperare un po’ di calore! Ci attendono però ora due sorprese: la prima, non troviamo altri spit e, sotto di noi, v’è un bel secondo ripido salto. Inoltre, in fase di recupero della corda con il sagolino, qualcosa non funziona e le corde restano bloccate! Quest’ultima è davvero una bella rogna ed Edoardo è costretto a risalire la parete strapiombante su roccia marcia con passaggi di V grado, liberare le corde e ridiscendere (fig. 36).
fig. 35. Giunto al termine della calata strapiombante, indossando finalmente qualcosa di caldo!fig. 36 Edoardo scende per la seconda volta dopo aver liberato la corda a monte. Si nota distintamente la grotta dalle cui fessure promana acqua
Liberate le corde, dobbiamo ora pensare a come calarci poiché, nonostante le esplorazioni della parete nei dintorni, non troviamo davvero alcun chiodo infisso (fig. 37) Tale circostanza fa riflettere: evidentemente, la via è stata chiodata con gli spit da qualche sciatore nel periodo invernale. Terminata la parete strapiombante, infatti, è verosimile pensare che lo sci-alpinista abbia affrontato il pendio rimanente, fino al Cadin del Ghiacciaio, sciando. L’accumulo di neve, infatti, tenderà sicuramente a smorzare quei primi metri al 90/100% di pendenza che ci attendono; poi, dopo una decina di metri di dislivello, la parete inizia a gradonarsi, diminuendo così drasticamente l’inclinazione e rendendo ben appetibile la discesa. Noi, però, non abbiamo la neve, e quella decina di metri totalmente aerei ci obbligano a trovare una soluzione sicura per essere superati. È quindi il momento di tirare fuori i chiodi ed allestire una sosta (fig. 38).
fig. 37 Edoardo alla ricerca (infruttuosa) di qualche spit o chiodofig. 38 Edoardo conficca due chiodi per allestire la penultima sosta
Nel mentre Edoardo martella, la Crodaccia Alta ci osserva, con le sue tipiche “tasche paleocarsiche” che quasi le conferiscono grottesche sembianze umane (fig. 39). Nel sottofondo, scariche di sassi dalla Forcella Nord si alternano a sinistri crolli nei pressi del lago del Cadin del Ghiacciaio (fig. 40).
fig. 39 La singolare parete meridionale della Crodaccia Altafig. 40 Il Cadin del Ghiacciaio, con il tipico lago in prossimità della fronte
Una volta allestita la sosta, Edoardo si cala per l’ultima ripida parete. Io controllo attentamente i chiodi, verificando che non si muovano di un millimetro (fig. 41).
fig. 41 La sosta allestita prima dell’ultima calata
Tocca quindi a me scendere e supero abbastanza agevolmente gli ultimi venti metri di parete verticale approdando su un comodo gradone di ghiaia (fig. 42).
fig. 42 L’ultimo tratto di parete verticale prima di giungere sui più comodi gradoni
Ora il gioco è fatto e tiriamo un sospiro di sollievo!!! (fig. 43 e 44). Per affrontare gli ultimi trenta metri di gradoni friabili, scendo io per primo ed Edoardo mi fa sicura piantando un ultimo chiodo, giusto perché ogni appiglio che tocco mi resta in mano 😉
fig. 43 Espressione soddisfatta nr. 1!fig. 44 Espressione soddisfatta nr. 2!!!
Giungo quindi a fine corda e mi slego, procedendo sugli ultimi gradoni friabili prima di saltare sulle ghiaie del Cadin del Ghiacciaio e portarmi fuori tiro dalle eventuali scariche che Edoardo dovesse smuovere discendendo.
fig. 45 Edoardo si appresta a scendere l’ultimo tiro. In rosso, i tiri di calata una volta usciti dal canale detritico
IL ROCK GLACIER NEL CADIN DEL GHIACCIAIO
Appena messo piede sul Cadin del Ghiacciaio, mi rendo conto che la parte apicale è effettivamente un enorme nevaio su cui le sovrastanti cime scaricano continuamente materiale (fig. 46). La parete della Cima Campale a ridosso della via di calata, in particolare, appare marcissima e devastata dai crolli (fig. 47). Sul versante opposto, la Forcella Nord scarica costantemente materiale. Ci allontaniamo quindi velocemente da questa area tormentata dalle frane e, con divertente sciata sul nevaio inclinato, ci dirigiamo verso il centro del Cadin del Ghiacciaio (fig. 48).
fig. 46 Il nevaio coperto dalle scariche delle cime sovrastantifig. 47 Sulla sinistra rispetto alla via di calata (guardando dal Cadin), la parete di Cima Campale è soggetta a continui crolli. Non proprio quello che si definerebbe “the best place to be”, sicché leviamo i tacchi e ci portiamo velocemente al centro del Cadin del Ghiacciaiofig. 48 Sciando sulla parte apicale del Cadin del Ghiacciaio
Il sopra citato studio di Krainer, datato 2010, conferma le nostre osservazioni, concludendo che :
«le strutture interne (piani di scorrimento) e particolarmente gli affioramenti di ghiaccio nella parte superiore del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio indicano chiaramente che questo rock glacier si è sviluppato da un ghiacciaio di circo coperto da detrito che si trova in condizioni di permafrost ancora oggi. Presumiamo che questo rock glacier si sia sviluppato da un piccolo ghiacciaio di circo alimentato da valanghe in una fase di ritiro a causa del mancato trasferimento alle acque di fusione dei sedimenti trasportati dal ghiacciaio».
K. Krainer et alia, Id.
Ciò che sorprende, peraltro, è che questo rock glacier presenta caratteristiche morfologiche differenti rispetto al rock glacier ospitato nel Cadin di Croda Rossa. Innanzitutto, si trovano di tanto in tanto delle piccole depressioni, quasi delle doline; come se il ghiaccio sottostante le rocce fosse ceduto e/o si fosse formato un imbuto naturale/inghiottitoio (fig. 48 e 49).
fig. 48 Depressioni che lasciano presagire la presenza di un inghiottitoio nel sottostante ghiacciaiofig. 49 Ancora improvvise depressioni sulla superficie del rock glacier
Sorprendono, inoltre, le dimensioni di questo rock glacier. Krainer stabiliva che
«the rock glacier is 850 m long, 300-550 m wide and covers an area of 0.3 km2. The rock glacier extends from an altitude of 2340 m at the front to about 2500 m. The average gradient of the surface is 5°».
Tali misurazioni, confrontate con i primi rilievi svolti da Rictcher nel 1888, mostrano una regressione dell’apparato glaciale di una decina di metri. Nella parte centrale del rock glacier, si percepisce una divisione in due lobi; notiamo infatti ghiaie più “fresche”, risultato di un certo dinamismo sulla superficie… tale linea segna la demarcazione tra i due lobi e, nella parte apicale del rock glacier, emerge chiaramente il ghiaccio esposto, corrispondente con il margine sinistro del lobo meridionale (fig. 50).
fig. 50 Ghiaccio esposto poco sotto la superficie del rock glacier, in prossimità della suddivisione in due lobi
Incredibile pensare che, in alcune zone del rock glacier, il sedimento che ricopre il ghiacciaio è davvero poco spesso; secondo Krainer
«in the upper part massive ice is exposed during the summer months at several places below a less than 1 m thick debris layer. Locally the debris layer is only about 10 cm thick».
Tant’è che, a parere dello scrivente, la definizione di rock glacier non sembra propriamente calzare al caso di specie… più che rock glacier, questo apparato sembra un vero e proprio ghiacciaio sormontato da una copertina di detrito. Un mantello che preserva il ghiaccio sottostante sicuramente da oltre un secolo; già nel 1907, infatti, il glaciologo Marinelli descriveva il ghiacciaio come quasi completamente coperto di detrito superficiale. Lo stesso asseriva il glaciologo Lesca nel 1974, rilevando che il ghiacciaio era «per gran parte ricoperto da morena superficiale» (Lesca, Id.). Ciò è confermato dalla visita all’incantevole e tipico laghetto termocarsico, collocato sul lobo settentrionale, poco più a valle. Il lago presenta inclinate pareti di ghiaccio esposto e compatto, alte fino a venti metri sul versante idrografico sinistro della valle, che “letteralmente” si sciolgono al sole riversando acqua dentro il bacino. Sottolineo il concetto di “ghiaccio compatto”, per nulla mescolato al detrito, confinato al solo margine superiore delle pareti. Man mano che il ghiaccio si scioglie, precipitano dentro il laghetto le rocce che costituiscono lo strato superficiale del rock glacier, quasi vi fosse un preciso equilibro tale per cui la profondità del laghetto non può incrementarsi, perché la quantità di acqua di fusione riversatavi è in rapporto perfetto con la quantità di rocce che vi crollano dentro (fig. 51, 52, 53). Affascinante pensare che il ghiaccio che vediamo e tocchiamo risale alla Piccola Era Glaciale, ad un periodo quindi compreso tra la metà del XIV e la metà del XIX secolo (ISPRA, Note Illustrative della Carta Geologica d’Italia – Foglio 016 Dobbiaco, pag. 175).
fig. 51 Il laghetto termocarsico nel rock glacier del Cadin del Ghiacciaiofig. 51 Le pareti di compatto ghiaccio, fino a venti metri d’altezza, sono ricoperte da un relativamente sottile strato di sedimento rocciosofig. 53 Man mano che il ghiaccio esposto si scioglie, viene meno il supporto delle rocce superficiali che rotolano dentro il laghetto termocarsico
Una curiosità: studiando le immagini satellitari messe a disposizione dal servizio BING, scopriamo che, nell’agosto del 2015, il laghetto termocarsico aveva pure un fratellino!!! Evidentemente, il tappo di ghiaccio sul fondo si è poi sciolto, facendo defluire l’acqua nei meandri sotterranei del ghiacciaio.
fonte BING, immagine scattata il 27 agosto 2015
Dopo aver contemplato con meraviglia il laghetto, ci dirigiamo verso la fronte del rock glacier. Questa è alta almeno 30 metri e ben ripida (35°/40°), al punto che dobbiamo procedere lungo il perimetro della fronte, sul lobo meridionale, la cui fronte è meno ripida di quello settentrionale, fino a raggiungere un pendio di altezza più contenuta per poter scendere, non a fatica (fig. 54).
fig. 54 L’imponente fronte del rock glacier del Cadin del Ghiacciaio
Abbandonata definitivamente l’area del ghiacciaio, ci teniamo ora sulla destra, a ridosso dello sperone orientale delle Cime Campale (fig. 55), scendendo comodamente lo scosceso pendio tra radi mughi, fino ad incrociare nuovamente la radura popolata da vacche al pascolo. Di lì, per la via dell’andata, è d’obbligo una sosta ristoratrice a Malga Stolla. Nel giro di un’oretta, sempre per la stessa via dell’andata, si rientra al parcheggio presso Cimabanche.
fig. 55 L’inedita vista che si apre ai piedi dello sperone meridionale delle Cime Campale, verso le Tre Cime di Lavaredofig. 56 La discesa, senza via obbligata, fino alla radura adibita a pascolo
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA. Cengia “Raule”: PD-, con unico passaggio esposto di II grado, che richiede assicurazione e passo sicuro.
DISTANZA: 17,8km – DURATA: 8.20 h – DSL: 1300 m D+
DATA: 18 giugno 2022
PREMESSE
Con questa traversata andiamo a completare tutte le possibili interpretazioni di itinerario (note) nel massiccio centrale del Cristallino di Misurina. Lo spunto viene dall’amico Riccardo, anch’egli appassionato esploratore di nuove vie e di antiche tracce dimenticate. A sua volta, Riccardo ha seguito le orme di Vittorino Mason che, in memoria di un amico perito in montagna, ha nominato tale cengia “Raule”, descrivendone per la prima volta l’itinerario nel “Libro delle Cenge, 56 vie orizzontali nelle Dolomiti”, datato 2013. Successivamente, la cengia Raule è stata percorsa e descritta da Fabio Cammelli, nel numero di Le Alpi Venete, primavera/estate 2020. Hanno raccolto l’invito ad esplorare questa cengia sconosciuta gli amici Paolo ed Edoardo.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi del Ponte de la Marogna, si traversa il greto verso SE fino a risalirne la sponda ed imboccare una debole traccia parzialmente coperta dalla florida vegetazione. Si cammina pochi minuti nel bosco per poi entrare in una radura costituita da una lingua franosa (bolli su alberi e rocce); la si traversa in diagonale e si rimonta per una nitida traccia nel bosco che subito prende quota. In pochi minuti si giunge alla postazione militare con lapide commemorativa della prima guerra mondiale (fig. 1) (per questo primo tratto, vedasi anche la relazione della salita alla forcella Cristallino).
fig. 1 La lapide commemorativa
Si aggira sulla sinistra la lapide e si segue la traccia, badando di non farsi tentare dal proseguire nel corso delle innumerevoli trincee che tagliano il bosco. In questo tratto, la traccia si snoda all’incirca presso la sponda orografica destra del rio che proviene dalla Val Cristallino; si ode il gentile fragore delle cascatelle, senza però mai vederne il corso. Nel giro di pochi minuti si giunge ad un punto chiave: la traccia entra perpendicolare nel solco di una trincea, ai piedi di una ripida collinetta. L’intuito suggerirebbe di procedere a destra, ove la trincea appare più aperta e di facile percorribilità; al contrario, la traccia prosegue a sinistra: un grosso masso sul sentiero reca un bollo scolorito che indica e conferma la via. Di lì a breve il sentiero diventa sempre più evidente ed aperto, fino a procedere in falsopiano. Si procede quindi in direzione del ponte di Val Popena Alta. Secondo la cartografia Tabacco, si tratterebbe ora di imboccare un traccia che si innesta perpendicolarmente, a monte, in corrispondenza di un rio che taglia la traccia principale. Il rio appare asciutto e consiste in una lingua franosa che si appoggia timidamente al sentiero. Noi abbiamo scelto di risalire nel bosco ma la traccia riportata dalla Tabacco non la abbiamo mai incrociata. Dopo una ventina di minuti di salita, invece, ci troviamo finalmente su un sentiero che sembra un’autostrada, con tanto di ometti, proveniente da SE… dovrebbe trattarsi della traccia più alta che collega l’imbocco della Val Popena Alta, nei pressi del sentiero 222, con la Val de le Bance… resta fermo il fatto che in pochi minuti questo nuovo sentierone ci porta sul versante orografico destro della deserta Val de le Bance (fig. 2).
fig. 2 Il sentierone che ci porta all’imbocco della Val de le Bance
Entrati in val de le Bance, si comincia a risalire il ghiaione, dapprima tenendosi sul versante orografico destro, per poi tagliare nettamente in diagonale la valle portandosi sull’opposto versante orografico (fig. 3), ai piedi della strozzatura tra la Croda de le Bance e lo sperone settentrionale della Croda Mosca, ove idealmente dovrebbe scorrere il rio che solca la valle (fig. 4)… pensare che esattamente 143 anni fa W. Eckerth saliva questa valle insieme a Michel Innerkofler, descrivendo il rumoreggiare della cascata all’interno della forra. Giunti alla base della strozzatura, si consiglia di non imboccare direttamente il greto del rio ma di salire con facile arrampicata sulle rocce alla base della parete sul versante orografico destro. Ciò permette di superare un paio di non agevoli piccoli salti di roccia.
fig. 3 La vista insolita delle Tre Cime di Lavaredo dal bacino inferiore della val de le Bance. Evidenziata in rosso la traccia che traversa dal versante orografico destro al versante orografico sinistro.fig. 4 La via per entrare nella parte centrale della val de le Bance.
Si sale quindi lungo i gradoni rocciosi sulla sponda orografica destra del rio (fig. 5), fino ad intravedere un ometto sul versante opposto, che ci indica l’obbligo di traversare il rio e risalire ai piedi della Croda Mosca (fig. 6). Scrivo “obbligo”, non a caso; procedendo, infatti, lungo il solco del rio, ci si imbatte in un salto di roccia alto poco più di un paio di metri il cui superamento in salita richiede abilità d’arrampicatore non scontate (vedasi il superamento di tale salto in discesa in fig. 33, 34 e 35 in occasione della discesa di val de le Bance il 30 ottobre 2021).
fig. 5 La salita dei gradoni nell’inizio della parte centrale della val de le Bance fig. 6 Un ometto ai piedi della Croda Mosca indica la necessità di traversare sul versante orografico opposto e risalire ai piedi della parete dell’omonima croda.
Più si sale più la val de le Bance assume le sembianze di una brulla gola il cui fondo instabile rallenta la salita (fig. 7). Scriveva W. Eckerth nel 1879 sulla valle de le Bance che,
«chiusa ai lati dalle ripide pareti delle dorsali del Cristallino, essa si restringe in forma di gola nella parte superiore restando illuminata dal sole per breve tempo soltanto intorno a mezzogiorno».
La salita si svolge ora a ridosso della parete della Croda Mosca (fig. 8), fino a quando risulta più saggio spostarsi sul versante orografico opposto con facile arrampicata, per approdare su una comoda cengia che permette di proseguire evitando le mobili ghiaie del centro valle (fig. 9). Percorrendo la cengia, superando agevolmente qualche semplice salto di roccia e sempre tenendosi sul versante orografico sinistro della valle, si supera finalmente l’impervia strozzatura e si entra nella parte apicale della Val de le Bance, decisamente più amena e gradevole (fig. 10).
fig. 7 Edoardo, nella parte centrale della val de le Bancefig. 8 Paolo avanza ai piedi della Croda Moscafig. 9 Per raggiungere la strozzatura apicale della val de le Bance è consigliabile spostarsi sul versante orografico sinistro dove una cengia permette di salire più comodamente.fig. 10 La parte apicale della Val de le Bance.
La tentazione di risalire questo magnifico nuovo ambiente è forte ma non è questa la via da seguire oggi; si devono salire, invece, le facili roccette che si ergono sulla destra (sinistra orografica), fino ad approdare ad un largo e pianeggiante crinale che separa la val de le Bance da un’ampia conca che poi degrada per ripidi pendii in val Cristallino (fig. 11). Tale postazione ci offre a settentrione un panorama senza pari, con insolita prospettiva delle Tre Cime di Lavaredo (fig. 12). Si scorge nitidamente, inoltre, la cengia Raule che taglia la parete giallastra del Cristallino di Misurina (fig. 13).
fig. 11 L’ampio crinale che separa la val de le Bance dalla val Cristallinofig. 12 Le Tre Cime di Lavaredofig. 13 La cengia Raule sul versante orientale del Cristallino di Misurina
È ora opportuno mettersi in sicurezza: per raggiungere la cengia, infatti, si arrampica con facili passaggi di I° ma con una certa esposizione sulla conca sottostante (fig. 14).
fig. 14 L’itinerario scelto per appropinquarsi alla cengia Raule.
In pochi minuti, giungiamo in cengia, ai piedi della parete. Il versante orientale della cengia Raule non è proprio quanto di più comodo si possa immaginare. La cengia è stretta, in leggera discesa; la parete che si erge sopra di noi ci spinge in fuori e l’esposizione sulla conca sottostante gioca il suo fattore psicologico (fig. 15). Progrediamo, legati in conserva corta, transitando in un paio d’occasioni carponi per mantenerci il più possibile aderenti alla parete (fig. 16 e 17), fino a raggiungere lo sperone settentrionale della cengia, che finalmente si apre in un comodo balcone di ghiaia (fig. 18). Funge da ometto un pesante fondello di proiettile della prima guerra (fig. 19).
fig. 15 Il versante orientale della cengia Raulefig. 16 Finalmente una foto tutti e tre insieme sulla cengia Raule 😉fig. 17 Spesso ci troviamo costretti ad incunearci sotto la volta della parete per riuscire a progredirefig. 18 Lo sperone settentrionale della cengia Raulefig. 19 Il fondello di una granata della prima guerra mondiale.
Una volta aggirato lo sperone settentrionale della cengia Raule, affacciandosi sulla val Cristallino, la cengia prosegue, ampia ed in leggera salita, lungo la parete occidentale del Cristallino, in direzione dell’omonima forcella bipartita (fig. 20).
fig. 20 La cengia Raule sul versante occidentale, affacciata sulla val Cristallino
La progressione non presenta difficoltà alcuna, fino ad un repentino restringimento della cengia, con successiva interruzione della medesima nel vuoto. A distanza di poco meno di un metro, la cengia ricomincia, franosa. Sappiamo che sull’altra sponda dovrebbe trovarsi un vecchio chiodo… si tratta però di arrivarci sull’altra sponda! Ed ecco qui il deus ex machina, Edoardo! Con ferma precisione e sangue freddo, traversa in spaccata il baratro ed arrampica agevolmente sulla sponda franata della cengia. In pochi secondi individua il chiodo ed assicura noi tutti (fig. 21)! Sotto un profilo tecnico, il passaggio non risulta difficile: si tratta di effettuare una spaccata con piede su comodo appoggio per poi scendere di poco meno di un metro su più ampi appoggi per i piedi e di lì rimontare la cengia.
fig. 21 Edoardo rimonta sul lato opposto della cengia Raule
Una volta assicurati, Paolo approccia il salto (fig. 22) ed infine è il turno del sottoscritto che chiude la cordata (fig. 23).
fig. 23 Paolo affronta gli ultimi passi lungo la cengia prima del salto.fig. 23 Io che attraverso il salto
Il passaggio chiave indicato è collocato circa a metà della cengia Raule. Superatolo, la cengia torna ad essere agevolmente percorribile, spesso ampia (fig. 24), talvolta richiedendo il superamento di brevi ripidi tratti dal fondo friabile (fig. 25) ovvero piccoli nevai (fig. 26 e 27).
fig. 24 La cengia Raule torna ad essere ampia ed agevolmente percorribilefig. 25 Nella parte finale, la cengia Raule presenta qualche breve tratto dal fondo friabile ove risulta opportuno procedere con cautelafig. 26 Paolo ed Edoardo percorrono gli ultimi tratti della cengia Raulefig. 27 Vari nevai coprono il tracciato della cengia
La cengia Raule volge ormai al termine, conducendo nella parte apicale del canalone orientale che sovrasta la val Cristallino. Si supera un breve ripido tratto (fig. 28) che conduce sulle nevi del canalone e qui comincia una divertente discesa sulla morbida neve, che quasi inviterebbe alla corsa 😉 (fig. 29).
fig. 28 il ripido e franoso passaggio che conduce nel cuore del canalone bipartito orientale della val Cristallinofig. 29 e giù per il canalone innevato!!!
La discesa lungo la val Cristallino quasi ci permette di sciare, per brevi momenti, sul mobile fondo del ghiaione. La val Cristallino è una miniera di reperti bellici. Resti di granate e residuati sono disseminati in ogni dove tra le ghiaie, confermando ancora una volta quanto avevamo riscontrato nell’avventura del 30 ottobre 2021: la val Cristallino è una valle inaccessibile e completamente deserta, non frequentata da anima viva. Le distanze sembravano più corte… ci impieghiamo un’eternità a percorrere tutta la lunghezza della valle (fig. 30) fino ad immetterci nel greto del rio che raccoglie le acque di fusione dell’intera valle. Scendiamo lungo il solco dissestato del rio, che presto diventa asciutto, fino a raggiungere un grande masso con dei sassi posti sopra a mo’ di ometto (fig. 31): tale segnale preannuncia un sentiero che, pochi metri a valle, si dirama sulla destra per inoltrarsi tra i baranci (fig. 32), conducendo in breve all’ampia traccia percorsa all’andata in direzione della val Popena Alta. Appena montati su tale traccia, sarà opportuno deviare a sinistra giungendo in breve alla lapide commemorativa e, quindi, al ponte de la Marogna.
fig. 30 La val Cristallino nella sua immensa estensionefig. 31 I sassi posti sopra la roccia indicano la necessità di inoltrarsi tra i baranci ove presto si intravede il sentiero che conduce a vallefig. 32 Il sentiero permette di tagliare facilmente tutto il pendio coperto di baranci
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE DURATA: 8.00 h – DISTANZA: 16 km – DSL: 1453 m D+
DATA: 6 marzo 2022
PREMESSE
Come primo giro dell’anno, doveva essere un itinerario semplice e veloce, per sgranchirsi un po’ le gambe… l’idea era di esplorare la valle interna orientale di Colle Salere per poi rimontare una dorsale boschiva fino alle Pale di San Giorgio, giungendo quindi alla vetta del Monte Peron. Si è trattato, invece, di un’uscita piuttosto impegnativa, sia fisicamente che mentalmente. L’ascesa fino a Forcella Costacurta (1294m.), di per sé, è già fisicamente impegnativa. Sono pur sempre un migliaio di metri di dislivello positivo su traccia spesso incerta. A complicare questa ascensione si sono aggiunti due fattori. Un fattore naturale ed inevitabile: la neve che, sopra i 1000m, ci ha costretto ad indossare i ramponcini da ghiaccio. Un fattore tecnico e ben evitabile: come ogni uscita esplorativa che si rispetti, abbiamo voluto abbandonare la traccia, dapprima per esplorare il versante orientale di Colle Salere e Colle Scalon, poi per svolgere la concatenazione delle rispettive cime in cresta. Ciò ci ha portato ad affrontare ostacoli inimmaginabili, con un dispendio di tempo ed energia assolutamente imprevedibile. Oggi più che mai, colpevole di tali imprevisti è la cartografia Tabacco. Salti di roccia di oltre venti metri là dove la carta Tabacco indica bosco; tracce inesistenti riportate sulla carta Tabacco e tracce reali, con tanto di ometti e cartelli, non riportate sulla cartografia. In un’uscita simile, fare affidamento sulla carta Tabacco avrebbe significato solo una cosa: ammazzarsi.
DESCRIZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi dell’abitato di Peron, quota 388m, imbocchiamo il Sentiero tematico delle Chiesette Pedemontane. La giornata è splendida, il clima rigido (3°C) e soffia una leggera brezza da S-SE. Dopo pochi minuti, in prossima di una netta deviazione del sentiero verso E, prendiamo una traccia sulla sinistra. Non vi sono indicazioni ma si intravede un calpestio d’erba sulla traccia (fig. 1).
fig. 1 Abbandoniamo il sentiero che piega a E e saliamo nell’erba sulla sinistra.
Il sentiero prosegue su traccia nitida, con leggero guadagno di quota. Sulla sinistra, in direzione O, ammiriamo il torrente Cordevole e la Certosa di Vederna (fig. 2).
fig. 2 Il torrente Cordevole e la Certosa di Vederna.
La traccia diventa ora più incerta; ci si porta all’interno di una piccola gola erbosa che funge da impluvio e si attacca con facile arrampicata una paretina di solida roccia alta un paio di metri (fig. 3 e 4).
fig. 3 Superando il piccolo salto di roccia fig. 4 Paolo supera il primo salto di roccia
La traccia prosegue in mezzo all vegetazione, guadagnando man mano quota, fino a giungere alla sommità del Col delle Pere (777m) (fig. 5).
fig. 5 Il Col delle Pere, 777m
Ora la traccia abbandona il versante più propriamente occidentale del Monte Peron e ci si addentra nel versante settentrionale. Lo si percepisce immediatamente perché perdiamo ogni contatto con il sole! Le pendici, inoltre, diventano via via più ripide (fig. 6).
fig. 5 Camminando lungo il pendio inclinato verso il Colle Salere.
In breve, giungiamo in un punto in cui la traccia tende a perdere quota, per tagliare le pendici occidentali del Colle Salere. Il nostro piano, invece, prevede di raggiungere la sella che si trova a E del Colle Salere. Decidiamo, quindi, di non perdere quota ma di risalire leggermente fino alla base di un modesto salto di roccia (fig. 7). Da qui, iniziamo a salire a fatica, con pendenza sostenuta, verso la sella E del Colle Salere (fig. 8). La pendenza diviene sempre più elevata e la progressione avviene in sicurezza grazie al prezioso appiglio della flessibile vegetazione (fig. 9). È purtroppo in uno di questi passaggi che la borraccia di Paolo scivola fuori dalla tasca e precipita nel vuoto. Io sono convinto di averla sentita gridare ma non l’ho detto a Paolo, che già era alquanto rammaricato per la perdita.
fig. 7 Ai piedi del salto di roccia lungo il quale decidiamo di salire.fig. 8 Paolo inizia la sua salita lungo la parete del salto di rocciafig. 10 Man mano che la pendenza aumenta, risulta fondamentale aggrapparsi alla vegetazione circostante per salire. Nella tasca dello zaino, si intravede la borraccia di Paolo, pochi istanti prima del salto nel vuoto.
Giunti finalmente in un punto comodo e sicuro, troviamo la parvenza di una traccia, presumibilmente di animali, che ci conduce verso la selletta orientale del Colle Salere (fig. 11) e, di lì, sul Colle Salere, 969m (fig. 12).
fig. 11 La nostra destinazione rispetto alla traccia ufficiale.fig. 13 Sul Colle Salere, 969m.
E qui iniziano le vere difficoltà. L’obiettivo sarebbe quello di scendere nella valle a E di Colle Salere, per poi rimontare la dorsale meridionale della Val Modonuta, fino alle Pale de San Giorgio. Come si evince da un attento esame della cartografia Tabacco (fig. 14), la linea studiata non dovrebbe presentare particolari ostacoli. Le isoipse, in particolare, sembrano presagire una discesa non particolarmente ripida né si riscontrano salti di roccia. Iniziamo quindi la discesa ma, dopo una trentina di metri, ci accorgiamo subito che un salto nel vuoto ci separa dal fondo dalla valle. Chiedo quindi a Paolo di attendermi mentre procedo in esplorazione e, con passo fermo ed estremamente cauto, cerco di identificare il più comodo accesso al fondo della gola. Il terreno, tuttavia, è coperto di un sottile strato di neve ed il solo modo per vedere con precisione l’accesso alla gola comporta di transitare su uno stretto costone erboso inclinato che termina su un salto di roccia di parecchi metri. Più mi avvicino, più realizzo che il passaggio appare esposto e pericoloso. Alla fine, rinuncio e faccio dietrofront: troppo rischio. Siamo piuttosto delusi ed irritati. Com’è possibile che la cartografia Tabacco non riporti ripetuti salti di roccia superiori ai 5 metri di altezza?
fig. 14 La cartografia Tabacco non presenta salti di roccia lungo la traiettoria da noi prescelta… salti di roccia, invece, ben presenti e non aggirabili.
Ritorniamo quindi sui nostri passi e ridefiniamo il nostro itenerario: giungeremo in cima al Colle Salere per compiere la concatenazione delle creste con il Colle Scalon, subito a N, ed incrociare quindi la traccia che taglia il costone occidentale del Colle. La discesa dal Colle Salere avviene comodamente, in cresta (fig. 15). Il Colle Scalon, pochi metri più basso del Colle Salere, è un cocuzzolo erboso (fig. 16) che offre una magnifica vista sulle cime circostanti (fig. 17).
fig. 15 La discesa dal Colle Salere al Colle Scalonfig. 16 Il Colle Scalonfig. 17 Da sinistra a destra: La Peralora (1978m), il Fornel (1957m), il Mont Alt (2069m)
Il nostro piano di ricongiungimento con la traccia, tuttavia, si rileva ben più arduo di quanto previsto. Dopo pochi metri di ricognizione in discesa dal Monte Scalon verso N, realizzo subito che la via è sbarrata: ad un certo punto, infatti, non vedo più le cime degli alberi di fronte a me, segno che il pendio si interrompe nel vuoto. Secondo la cartografia Tabacco, il dirupo dovrebbe invece trovarsi più a E rispetto a noi (ed infatti c’è anche a E!). Mi muovo, quindi, più a O, cercando una traiettoria più sicura. Riesco a scendere di una decina di metri ma, di nuovo, vedo di fronte a me gli alberi scomparire completamente: siamo ancora di fronte a un salto di roccia. Mi sposto conseguentemente operando un traverso del ripido costone, verso S, sperando di trovare una pendice che scenda in continuità. Tutte queste operazioni di ricognizione avvengono con estrema cautela, ad una velocità di bradipo. Solo dopo una trentina di metri, in totale ombra, mi rendo conto che sto congelando, sferzato dal vento che si incanala nella valle del Cordevole. Mi metto quindi a cavalcioni di una pianta e riesco ad indossare un guscio che mi protegga. Nel mentre, cerco di indirizzare al meglio la discesa di Paolo verso la mia posizione. La nostra posizione sulla mappa dell’app Tabacco ci indica che dovremmo essere esattamente sopra il sentiero… ma la verità è che siamo esposti su un declivio erboso con sotto parecchi metri di salto. Procedendo ulteriormente pochi metri verso S, intravedo una chiazza di neve a terra, una decina di metri sotto di noi. È strano che una chiazza di neve persista su un simile pendio… ne deduco che deve essersi accumulata su una superficie piana… e quella superficie piana potrebbe essere esattamente la traccia che stiamo cercando. Compio quindi un ulteriore traverso verso S per poi cercare di raggiungere, aggrappandomi di pianta in pianta, la chiazza di neve. Ed ecco trovata la traccia!!! Per coprire non più di cento metri in linea d’aria avremmo impiegato almeno 45 minuti. Siamo fisicamente e moralmente affaticati, le mani insanguinate e il freddo ci è letteralmente penetrato nelle ossa. Tale stato d’animo muta tuttavia repentinamente in sonora “incazzatura” quando, scesi gli ultimi metri (fig. 18) e giunti all’imbocco della Val Modunuta (Val Madonetta), realizziamo quali pareti di roccia si ergevano pochi minuti prima sotto di noi (fig. 19). È uno scherzo??? La cartografia Tabacco non riporta alcun salto di roccia nel tratto in questione; la scarpata è riportata solo sul versante N/NE del Colle Scalon (fig. 20: in rosso l’area dove abbiamo tentato la discesa). E questi non sono propriamente dei saltini di roccia ma pareti verticali alte fino a 20 metri. Lo si può constatare dalla foto del Monte Scalon, scattata pochi minuti dopo sull’opposto versante a N (fig. 21).
fig. 18 Scesi finalmente sulla tracciafig. 19 All’imbocco della Val Modonuta. Si notino le pareti E/NE del Colle Scalon sul cui ciglio, pochi minuti prima, cercavamo di trovare una sicura discesa. Si confronti ora il versante E/NE del Colle Scalon sulla cartografia Tabacco riportata in immagine fig. 20.fig. 20 In rosso la zona dove abbiamo ripetutamente tentato di riguadagnare in discesa la traccia. Non sono segnati minimamente i salti di roccia di 20/30 metri che abbiamo trovato e le curve di livello non appaiono nemmeno particolarmente ravvicinate tali da far intuire una pendenza eccessiva.fig. 21 Il monte Scalon visto da N; in rosso la traiettoria tenuta, con tutti i vari tentavi di discesa.
Inutile a dirsi: in 2.30h abbiamo percorso solo 5 km e siamo già stremati! Almeno, per fortuna, saliamo ora al sole sulla dorsale settentrionale della Val Madonetta. La meta, ora, è Forcella Costa Longa. La traccia insiste sulla dorsale erbosa settentrionale del Col de Le Frare (944m), la cui cima non andiamo a toccare ma lasciamo sulla sinistra. È una traccia talvolta evanescente, supportata da qualche bollo blu, qua e là. Superata la metà della dorsale, percepiamo che sulla nostra sinistra si apre, di nuovo, il baratro (questa volta effettivamente indicato sulla cartografia Tabacco con degli evidenti salti di roccia) (fig. 22). Lasciamo sulla sinistra un curioso pertugio ad arco nella roccia (fig. 23) ed iniziamo a piegare verso E, nonostante la carta Tabacco ci inviti a deviare nettamente verso N per raggiungere la Forcella Costa Longa. Ora, l’erba secca inizia ad essere ricoperta di neve e sotto un dito di fresca troviamo un sottile strato ghiacciato. Perdendo ogni traccia, procediamo a intuito, fino ad incontrare un rincuorante ometto (fig. 24) che ci conforta d’esser sulla retta via… non per la cartografia Tabacco, tuttavia, che indica la traccia da seguire ben più a N ormai.
fig. 22 La risalita della dorsale verso forcella Costa Longa e, a N, il vuoto.fig. 23 Il curioso arco di rocciafig. 24 Finalmente un ometto rincuorante!
Il terreno diventa sempre meno affidabile e decidiamo di indossare i ramponcini da ghiaccio. Ancora un paio di scomodi saliscendi fuori traccia ed ecco che raggiungiamo Forcella Costa Curta. Iniziamo quindi a percorrere in cresta le Pale de San Giorgio. Il percorso non è di per sé difficile; trattasi di un saliscendi continuo tra la cresta ed il ripido e boschivo crinale E della Pale. La difficoltà, in alcuni passaggi leggermente tecnici, è data dalla presenza del fondo innevato (fig. 25).
fig. 25 Sulla cresta delle Pale di S. Giorgio
Si prosegue con saliscendi tecnico, talvolta aiutati da un cavo d’acciaio, verso il Monte Peron, ma ormai è tardi. Sono le 15.30 e siamo a marzo. Bisogna calcolare il tempo di rientro fino a Forcella Costa Curta, su una traccia in cresta con neve… in discesa! E poi c’è l’incognita della discesa da Forcella Costa Curta fino a Pian de Fraina… se la traccia dovesse comportare le difficoltà di orientamento riscontrate in salita, rischieremmo di trovarci col buio. Senza alcun rammarico, ci si ferma su un cucuzzolo antecedente la cima del Monte Peron, a quota 1509m, secondo il mio Garmin. Il panorama è spettacolare ovunque ci si giri, a 360°. In direzione N, svetta la cima della Pala Alta (1933m), affiancata a O dalla Zima di Larese e dalle Zingiolade (1766m) (fig. 26).
fig. 26 La Pala Alta e, a O, Zima di Larese e Zingiolade
Con cautela, si rientra quindi a Forcella Costa Curta (effettivamente, la progressione in discesa su neve risulta più pericolosa, specie in un paio di passaggi di per sé non tecnici ma piuttosto esposti). Giunti a Forcella Costa Curta, un nuovo e bellissimo cartello di legno ci sorprende, indicandoci “Pian de Fraina”… ancora una sorpresa, visto che da Forcella Costa Curta la Tabacco non segna alcun sentiero che scende a Pian de Fraina. Un po’ perplessi, iniziamo quindi la discesa, rincuorati dalla comodità del sentiero che scende in mezzo al bosco senza difficoltà alcuna, tant’è che finiamo per correre fino ad imboccare il sentiero delle Chiesette Pedemontane. Deve essere stata una zona particolarmente frequentata in antichità; ne sono testimoni i resti di un’antica fornace che rinveniamo poco sopra l’incrocio con il suddetto sentiero (fig. 27).
fig. 27 I resti di un’antica fornace nel bosco
Un ulteriore sorpresa: giunti al “parcheggio” dove finisce la strada asfaltata, troviamo un bel cartello (fig. 28) che ci indica la possibilità di salire fino al Monte Peron… peccato che la cartografia Tabacco non contempli alcun sentiero che da lì conduca in vetta…
fig. 28 Il cartello che indica un sentiero inesistente sulla cartografia Tabacco
Scendiamo ora spediti lungo la strada asfaltata del sentiero tematico delle Chiesette Pedemontane e, nei pressi della frazione di Costiet, 829m, scegliamo di prendere una traccia che dovrebbe fungere da scorciatoia, sulla destra. Non lo avessimo mai fatto. La traccia, dapprima nitida, scompare presto nel nulla e camminiamo a intuito lungo un ripido costone boschivo, cercando di incrociare nuovamente il sentiero tematico. Qualsiasi traccia fosse esistita, qui non v’è sicuramente passata anima viva da anni. Per oggi ne abbiamo veramente abbastanza di queste tracce inesistenti e scegliamo di abbandonare quanto prima il sentiero tematico delle Chiesette Pedemontane non appena trovato un sentiero (di nuovo non indicato sulla cartografia Tabacco) che sembra ben battuto e scende diretto verso l’abitato di Casate (fig. 29). Fortunatamente, è riportato nella cartografia dell’orologio Garmin. Di lì a breve, giungiamo nel paese di Peron, concludendo l’anello.
fig. 29 Il sentiero ben battuto, con tanto di antichi muretti a secco, non riportato in cartografia Tabacco, che conduce all’abitato di Casate
Come anticipato in premessa, trattasi di un giro particolarmente impegnativo. L’approccio esplorativo tipico delle uscite “windchili” si scontra con caratteristiche geomorfologiche spesso insuperabili. A differenza di altre zone pedemontane, le pendici del Monte Peron sono caratterizzate da un susseguirsi ininterrotto di salti di roccia e strette gole. Un terreno veramente aspro ed ostico per chi ama spingersi fuori dalle tracce battute. Inoltre, la pressoché costante non aderenza della cartografia Tabacco con la reale ubicazione dei sentieri tradisce ogni aspettativa di salita “a cuor leggero”. Un itinerario, quindi, assolutamente da non sottovalutare, perlomeno limitatamente all’esplorazione delle pendici occidentali del Monte Peron.
Ecco il video dell’avventura, montato dall’amico Paolo!
Ed ecco anche la relazione dell’itinerario scritta da Paolo sul suo blog Mybesttimehiking!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Da Forcella Cristallino alla spalla meridionale del Cristallino di Misurina: AD-
Traversata alpinistica lunga e fisicamente molto impegnativa. Da forcella Cristallino alla spalla meridionale del Cristallino di Misurina, necessità di alternare progressione in conserva con soste da allestire con chiodi, affrontando passaggi fino a III+ (non v’è presenza di spit).
DISTANZA: ca 20 Km – DURATA: 11 h – DSL: 1434 m D+
DATA: 30 ottobre 2021
PREMESSE
Chiudiamo la stagione “estiva” con l’itinerario più esplorativo e, sicuramente, più difficile dell’anno: la traversata della Val Cristallino, fino a forcella Cristallino, per poi raggiungere la spalla meridionale del Cristallino di Misurina aprendo una nuova via che, per temporanea assenza di estro poetico chiamiamo “Cristallino Ovest”. Dalla cima del Cristallino di Misurina, discesa per la via normale, aperta da Paul Grohmann e l’albergatore di Carbonín Georg Ploner il 16 agosto 1864, fino alla Forcella de Le Bance. Dalla forcella, traversata in discesa della Val de Le Bance e chiusura dell’anello. Un’avventura fisicamente molto impegnativa, anche perché per il 95% del giro si cammina sempre fuori sentiero, su fondo impervio, con pendenze spesso sostenute, specie nella discesa verso S da Forcella Cristallino. Un itinerario che richiede necessariamente l’uso della corda e di quanto necessario per approntare le opportune soste (chiodi da fessura e blocchi da incastro). Giunti in Forcella Cristallino, qualora non si gradisse affrontare la via “Cristallino Ovest”, è possibile scendere fino alla confluenza con il canalone che scende da Forcella Michele; se da un lato si evita l’arrampicata in salita, dall’altro non ci si può però esimere dalla disarrampicata in discesa della seconda metà inferiore del ripido e dirupato canale che scende da Forcella Cristallino. La salita del canalone che scende da Forcella Michele è invece più agevole, nonostante sia necessario affrontare un salto di roccia alto circa quattro metri, in corrispondenza della strettoia tra la parete S del Cristallino di Misurina e la parete N della dorsale di Popena (per maggiori dettagli, si veda la relazione sulla discesa del canalone di Forcella Michele, svolta a luglio 2021). Compagno d’avventura è oggi Edoardo, delle Guide Alpine di Cortina, con cui abbiamo avuto il piacere di condividere l’ascensione della Furcia dai Fers da Tamersc appena quindici giorni fa e che si è nuovamente reso disponibile ad affrontare un itinerario esplorativo che, fin da subito, si è rivelato particolarmente avventuroso.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto presso il ponte de la Marogna, 1472 m, si traversa il greto asciutto della Val Fonda e ci si addentra subito nel bosco, sul versante orografico destro. Dopo poche decine di metri, il bosco si dirada e si cammina ora su una frana, risalendola ancora per poche decine di metri, sino a che si individua una traccia che si immette nuovamente nel bosco. La traccia è piuttosto evidente ed in breve conduce alla c.d. “lapide della Valfonda”, riscoperta e restaurata nel 1982. La lapide, datata 31 agosto 1916, reca incisi 269 nomi, tutti i componenti della 6a Compagnia, facente parte della Brigata Umbria, del 53° Reggimento di Fanteria Vercelli (fig. 1).
fig. 1. La lapide commemorativa del 1916.
Si continua a seguire la traccia, ora leggermente in salita, tenendo sulla destra il rio che funge da spartiacque della Val Cristallino. Intorno a quota 1600 m, si abbandona la traccia e si cerca di deviare verso S (destra), aprendosi un varco tra i baranci. (ndr: a posteriori, la corretta via consiste nel procedere dentro il bosco lungo la traccia, senza abbandonarla. Poi, quando la traccia inizia a procedere su falsopiano, si innesta a monte nella traccia principale un sentierino: questo sentierino consente di raggiungere in breve il greto del torrente). La soluzione migliore è scendere quanto prima sul greto del rio. Noi abbiamo invece temporeggiato, fino quasi a raggiungere le pendici rocciose settentrionali della Croda de Le Bance, con grande fatica facendoci strada tra i mughi. Ritrovato finalmente il greto, lo si risale senza possibilità di errore. Ci meravigliamo, quando troviamo infisso perpendicolare nel greto del rio un binario di rotaia, probabilmente della prima guerra mondiale (che ci fa una rotaia qua???) (fig. 2).
fig. 2. La rotaia infissa perpendicolare nel greto del torrente.
Si continua la risalita del greto, sino a che si apre finalmente di fronte a noi la visione della Val Cristallino, in tutta la sua interezza (fig. 3). La salita avviene sempre in ombra ma senza trovare traccia di ghiaccio sul fondo; sebbene al ponte de la Marogna il termometro segnasse -4°C, il clima è particolarmente secco, da giorni, e non v’è umidità che ghiaccia la superficie delle pietre che calpestiamo. La Val Cristallino è davvero una valle deserta, esplorata a fine dell’800 dai primi scalatori che affrontavano la salita del Cristallino di Misurina. Questi, tuttavia, non percorrevano interamente la valle, fino alla Forcella Cristallino, ma la abbandonavano verso metà, per salire, verso E, alla sella che separa le pendici N del Cristallino di Misurina dalla Croda de Le Bance. Da questa sella, salivano poi al Cristallino di Misurina attraverso la parte sommitale della Val de Le Bance. Scriveva W. Eckerth nel 1876:
«Chi vuol salire in vetta al Cristallino ha a disposizione due vie che dapprima portano insieme, su per la Val Cristallino, ad una sella profondamente incassata nella dorsale principale del Cristallino, fra il “Kofl” (nda: Cima Le Bance) che costituisce l’ultimo rilievo a nord di questa dorsale e la cima del Cristallino. All’inizio estate, di solito, si scavalca questa sella e si preferisce continuare per la Val Banche che in questa stagione, per lo più, è ancora piena di neve; a metà estate e in autunno, invece, quando la Val Banche è ormai senza neve fino in alto e perciò difficile da percorrere, si sale in cima direttamente dalla sella per il ripido versante nord delle rocce terminali».
W. Eckerth, Il Gruppo del Monte Cristallo, 1891, Ed. La Cooperativa di Cortina, 1989.
Aggiungeva Eckerth una breve descrizione della Val Cristallino, pronunciandosi come segue: «Dalla forcella, che appare bipartita da un roccione centrale, ripidi canaloni nevosi scendono su un circo di ghiaie e sfasciumi. Questo circo, a sua volta, ha varie diramazioni ed è in parte coperto di neve e ghiaccio».
fig. 3. La Val Cristallino.
Noi scegliamo di non seguire le istruzioni di W. Eckerth ma di percorrere invece interamente la Val Cristallino, fino all’omonima forcella. Giunti là dove la valle si restringe improvvisamente, la pendenza inizia ad incrementare drasticamente e l’incedere sul ghiaione, il cui fondo è compatto e scivoloso, risulta sempre meno agevole. Procediamo, quindi, dapprima tenendoci all’estrema destra del ghiaione, sfruttando i generosi appigli che offre la parete rocciosa, per poi sfruttare una comoda fessura che ci permette di montare sopra il costone roccioso che costeggia il ghiaione (fig. 4, 5, 6 e 7). In verità, pochi metri dopo la fessura su cui saliamo, si trova un accesso molto più semplice, che non richiede di arrampicare, e permette di salire sul costone roccioso ancora più facilmente. Su questo terreno la progressione risulta sicuramente più comoda!
fig. 4 La traiettoria scelta per affrontare la salita del ghiaione nei pressi della strettoia.fig. 5. Edoardo che risale il ghiaione sul lato destro.fig. 6. Le due possibili soluzioni per montare sul gradone roccioso ed evitare di procedere sul ripido ghiaione.fig. 7. Finalmente, procediamo comodi su un fondo solido e stabile!
Ancora una volta, realizziamo quanto la valle che stiamo traversando sia remota e selvaggia; ad ogni passo, troviamo reperti bellici di ogni sorta, che lasciamo in loco a memoria degli aspri combattimenti che tormentarono questa valle, contesa tra italiani e austriaci, nel corso della prima guerra mondiale. Giungiamo ora ad un bivio o, meglio, alla confluenza di due canali. Il canale più a sinistra (E), appare stretto e coperto nella parte sommitale di neve. Il canale di destra, invece, sembra meno ripido e già intravediamo Forcella Cristallino baciata dal sole. Edoardo traversa la confluenza per verificare la percorribilità del canale a E (fig. 8) ma, dopo una breve perlustrazione, conveniamo di salire il più ampio canale di destra.
fig. 8. Edoardo verifica la percorribilità del canale di sinistra, più a E.
Iniziamo ora una salita che si rivela da subito tutt’altro che semplice. Il terreno è instabile e ad ogni passo muoviamo scariche di pietre. Scegliamo quindi di salire su due linee diverse: Edoardo, alla base della parete di sinistra (fig. 9 e 10), mentre io mi porto alla base della parete di destra, iniziando una dura salita che, tecnicamente, sembra più essere un lungo traverso in diagonale delle pendici rocciose (fig. 11).
fig. 9. Edoardo inizia a salire alla base delle pendici del Cristallino.fig. 10. Edoardo, sempre tenendosi alla base della parete, per sfruttare un terreno più solido.fig. 11. Quasi in forcella Cristallino 🙂
Finalmente, giungiamo in Forcella Cristallino. Una luce violenta, accompagnata da un teso vento che si incanala in forcella, mi riempi gli occhi che, da ore, erano ormai abituati all’ombra. Tempo di abituare gli occhi alla nuova luce e metto a fuoco il luogo in cui siamo giunti. Forcella Cristallino è una minuscola sella che, sul versante S, degrada drasticamente in un ripido e stretto canale, marcio e dirupato. Il versante S scende così ripidamente che potremmo sederci a cavallo della sella (fig. 12). W. Eckerth lo descriva a fine ottocento come «un canalone roccioso che scende verso il bordo settentrionale del ghiacciaio di Popena» (si pensi a quanto è arretrata oggigiorno la fronte del ghiacciaio!!!). Visto dal basso, nei pressi della confluenza con forcella Michele, veniva descritto come
«un canalone che sale ripido ad una forcella divisa in due da un roccione centrale. Sul ramo sinistro della forcella si eleva la cima più alta dello sperone occidentale del Cristallino, mentre sul ramo destro sorgono le rocce della cima principale».
Entrambi siamo sorpresi; non ci aspettavamo un terreno così poco praticabile. Alla base del canale, nell’ombra, intravediamo la confluenza con l’angusto canale che scende da Forcella Michele, già percorso a luglio in discesa per esplorare il circo glaciale del ghiacciaio di Popena. Non ci perdiamo d’animo (almeno ora staremo un po’ al sole!) e ci imbraghiamo per calarci nel canale (fig. 13).
fig. 12. Il canale S di Forcella Cristallino.fig. 13. In sella a Forcella Cristallino.
Edoardo appronta un ancoraggio intorno a un solido masso ed io inizio la disarrampicata. I primi metri del canale sono terrosi ed il piede solca piacevolmente il fondo. Dopo pochi metri, tuttavia, il terreno diventa roccioso. Ogni appiglio che prendo sulla parete mi si sgretola in mano e, complice il vento che si incanala nella gola, mi ritrovo presto occhi e bocca pieni di polvere. Tutto quello che tocco è marcio e, prima di poter fare affidamento su un appiglio, devo letteralmente smontare la parete per trovare qualcosa di solido! Procediamo con singoli tiri di una ventina di metri: appena riesco a trovare un anfratto riparato nella roccia, mi ci inserisco, così che Edoardo possa scendere a sua volta, senza che le scariche di pietre provocate dal suo passaggio mi investano. Con questa tecnica, facciamo tre calate. La prima e la seconda calata risultano abbastanza semplici da affrontare in disarrampicata (fig. 14, 15 e 16). La terza, invece, più ripida, prevede il superamento di un salto di roccia di circa un paio di metri d’altezza, ben levigato dalle acque piovane e privo di appigli (fig. 17 e 18).
fig. 14. Edoardo durante la prima calata.fig. 15. Il sottoscritto affronta la seconda calata.fig. 16. La seconda calata attraversa la sezione del canale più semplice da affrontare in discesa.fig. 17. Al termine della seconda calata, circa a metà del canale che scende da Forcella Cristallino, pronto per affrontare la terza calata, che prevede il superamento di un salto di roccia di circa un paio di metri di altezza.fig. 18. Il sottoscritto, pronto per affrontare la terza calata!
Tutto ciò avviene al cospetto della magnifica cima del Popena, 3152 m, dell’Ago Loschner, 2939 m, di Punta Michele, 2898 m, e… del magico Ghiacciaio di Popena, la cui fronte abbiamo esplorato a luglio di quest’anno (leggi la relazione dell’itinerario) e che in questo periodo appare, naturalmente, meno innevato (fig. 19).
fig. 19. Il Piz Popena ed il ghiacciaio di Popena.
Conclusa la terza calata, ci troviamo a dover scegliere tra due itinerari alternativi. Il più “sicuro” e scontato prevederebbe la discesa fino alla confluenza con il canale che scende da Forcella Michele. Conosco quel canale, per averlo percorso in discesa tre mesi e mezzo fa: è ripido, ma non troppo, ed il fondo, per lo meno fino alla strettoia di metà canale, è ghiaioso. Chiaramente, tale soluzione implicherebbe un’ulteriore perdita di quota, per poi dover riguadagnarla superando una nuova forcella (Forcella Michele) con dura salita. Alternativa più intelligente ma di per certo più audace è traversare il costone della montagna, in direzione O, trovando una via che ci permetta di arrivare alla spalla meridionale del Cristallino di Misurina (dove, per intenderci, conduce il sentiero che sale dalla Val Popena, attraverso una nuova e comoda ferrata). L’idea è allettante ma non sappiamo quali incognite potremmo trovare. Alla fine, poiché la fortuna aiuta gli audaci – per lo meno sulla carta 🙂 – optiamo per la seconda strategia. Procediamo quindi di conserva, traversando un costone roccioso con saliscendi su agevole cengia (fig. 20), per poi salire di pochi metri, individuando un’ulteriore cengia (fig. 21).
fig. 20. Edoardo apre la via, cercando il percorso più agevole e diretto.fig. 21. Edoardo risale la parete individuando la migliore cengia dove traversare.
Arriviamo quindi ad una parete che forma una sorta di diedro. Da qui, Edoardo sale per circa una decina di metri e predispone una prima sosta (fig. 22 e 23).
fig. 22. Alla base dell’ampio diedro.fig. 23. Il primo tiro di arrampicata.
La fatica inizia a farsi sentire… sarà che non arrampicavo da dieci anni :-), ma sento i muscoli che rispondono pigramente per l’ipossia (e siamo solo a 2500 metri circa!). Inoltre, sono completamente sudato – la parete è in pieno sole – e disidratato. Mi sento un po’ mentalmente fiaccato ma realizzare che stiamo aprendo una nuova via mi rinfranca l’animo ed arrampico cercando di controllare bene la respirazione e muovermi il più fluidamente possibile. Superato il primo tiro, giungiamo in una ampia e comoda cengia, dove posso tirare un po’ il fiato. Ora siamo di fronte ad una parete verticale di almeno un’altra decina di metri. Edoardo la scala con la stessa facilità con cui si potrebbe portare a spasso un cagnolino con una mano mentre con l’altra mano si chatta (fig. 24). Sono impressionato dalla forza e dalla tecnica del mio odierno compagno d’avventura. Non mi resta che contemplare, ammirato, ed imparare (fig. 25).
fig. 24. Edoardo supera il secondo tiro di arrampicata.fig. 25. In attesa di scalare il secondo tiro.
Giunto in cima alla parete verticale, sento Edoardo approntare una seconda sosta. Questa volta, piantando i chiodi da roccia che, saggiamente, ha portato con sé. Inizio quindi a scalare ma, per la solita legge sull’entropia, accade l’inghippo: la corda si incastra in una fessura rocciosa mentre sto svolgendo un traverso diagonale in salita, creando un angolo che, in caso di caduta, mi farebbe violentemente “sbandierare”, prima di andare in tiro. Tenendomi saldamente all’appiglio con una mano, cerco di liberare con l’altra la corda, dandole delle poderose frustate che, tuttavia, non la svincolano dall’incastro. Mi tocca disarrampicare un paio di metri e riprovare a sbloccare la corda che non ne vuole sapere di liberarsi. Ritorno quindi alla base della parete e, solo nel momento in cui riporto la corda in linea verticale, riesco a tirarla fuori dall’abbraccio dello spigolo malandrino. Questa operazione deve essere durata almeno cinque minuti, che mi hanno ulteriormente prosciugato di energie. Ciononostante, l’arrampicata di questo tratto verticale, che Edoardo valuta essere un III+, mi offre grandissima soddisfazione. Dalla sommità del salto verticale, si procede agevolmente in leggera salita su una stretta cengia, in conserva, fino a raggiungere la cresta della la spalla meridionale del Cristallino di Misurina. Qui, finalmente, mi reidrato e mangio un po’ di frutta secca. Mi sembra di rinascere. Siamo entrambi profondamente soddisfatti di aver aperto una nuova via sulla parete ovest del Cristallino di Misurina (la nuova via, in verità, l’ha aperta Edoardo. Io mi sono limitato a seguirlo. Nonostante ciò, il nobile Edoardo lascia a me l’onore di battezzarla!). Sarà trascorsa almeno un’ora e mezza da Forcella Cristallino ed il sole di fine ottobre inizia a velarsi, sopra le maestose vette del Cristallo e del Piz Popena (fig. 26). Nel 1864, Grohmann descriveva così il panorama che ora ammiriamo: “la vista giù, verso Carbonin e Landro, è bella, quella sul Piz Popena e sul Cristallo è grandiosa e selvaggia“.
fig. 26. Il Piz Popena e, dietro, il Cristallo.
Ora si sale lungo la spalla meridionale, su traccia obbligata e ben indicata, superando sulla sinistra alcune gallerie di guerra, fino a giungere in breve ed agevolmente alla vetta del Cristallino di Misurina, 2775 m (fig. 27 e 28)!
fig. 27. Edoardo raggiunge la vetta del Cristallino di Misurina.fig. 28. In vetta al Cristallino di Misurina, 2775 m!
Dalla vetta, scendiamo ora in direzione E, verso Forcella de Le Bance, per la stessa via di salita scelta da Grohmann e Ploner nel 1864, data della prima ascensione ufficiale. La discesa è abbastanza agevole; un alternarsi di strette e brevi cenge con facili roccette da disarrampicare. È sufficiente prestare un po’ di cautela a non scivolare sulla ghiaia del pendio. Giunti in prossimità di Forcella de Le Bance, la parete diventa più ripida (fig. 29) e le strette cenge più esposte. Preferisco chiedere a Edoardo di procedere in conserva e, così, superiamo facilmente anche gli ultimi metri.
fig. 29. Lungo la via Grohmann-Ploner del 1864, in vista di Forcella de Le Bance.
Forcella de Le Bance, al contrario di Forcella Cristallino, è una comoda ed ampia sella che mette in comunicazione la Val de Le Bance con la Val de Le Barache, già visitata a luglio di quest’anno (maggiori dettagli sull’itinerario). La Val de Le Bance appare però parzialmente coperta da neve polverosa ed il terreno è molto più duro e compatto di quello trovato nella parallela Val Cristallino. Quanto aveva ragione W. Eckerth quando, nel 1879, descriveva la Val de Le Bance come una
«valle esposta a nord e resta in ombra quasi tutto il giorno. Chiusa ai lati dalle ripide pareti delle dorsali del Cristallino, essa si restringe in forma di gola nella parte superiore restando illuminata dal sole per breve tempo soltanto intorno al mezzogiorno».
Ciò si traduce, per me, in una discesa particolarmente faticosa… sarà che le gambe iniziano a sentire la fatica… ma non riesco a sentirmi sicuro ad ogni passo su questo terreno (fig. 30).
fig. 30. La parte sommitale della Val de Le Bance.
La discesa continua, estenuante, fino alla sella che mette in comunicazione la dorsale del Cristallino di Misurina con la Croda de Le Bance. Da questa altezza, non troviamo più neve ma il fondo resta particolarmente insidioso, durissimo, e lo scarpone continua a non riuscire a scavare il minimo gradino in discesa (fig. 31 e 32).
fig. 31. Il restringimento della Val de Le Bance.fig. 32. Il restringimento della Val de Le Bance e la Croda de Le Bance, sulla sinistra.
A questo punto, il pendio diventa sempre più moderato e, con esso, diminuiscono le mie difficoltà di progressione. Ci troviamo però di fronte ad un salto di roccia, alto circa un paio di metri. Non possiamo aggirarlo e siamo costretti a preparare un ancoraggio intorno ad un pesante masso, per effettuare una veloce calata.
fig. 33. Giunti sul margine di un salto di roccia.fig. 34. Edoardo prepara l’ancoraggio per la calata. fig. 35. Ed ecco Edoardo che supera agilmente il salto di roccia.
Ormai inizia ad imbrunire e siamo effettivamente piuttosto stanchi. Ci troviamo circa a metà della Val de Le Bance. Accendo quindi la lampada frontale ed iniziamo un cammino infinito sulle ghiaie nella parte finale della valle, fino ad addentrarci nei tanto amati baranci, dove perdiamo la traccia (che invece prosegue sul versante idrografico destro della valle) e procediamo per un tempo che mi sembra interminabile verso valle, correggendo di tanto in tanto la traiettoria e seguendo come linea ideale lo spartiacque della Val de Le Bance (fig. 36).
fig. 36. Tra baranci e ghiaie, uscendo dalla Val de Le Bance.
Dopo un’infinita lotta dentro i mughi, intercettiamo, finalmente, la traccia che, nel bosco, mette in comunicazione Malga Mosca con il ponte de La Marogna, dove abbiamo l’auto. La traccia ci sembra un’autostrada, dopo undici ore di cammino fuori sentiero. Percorrendola in direzione NO, giungiamo finalmente alla meta, alle ore 20.20, stravolti ma soddisfatti!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE (una corda da 30m può essere utile per assicurarsi in alcuni passaggi più impegnativi. Trattasi peraltro di passaggi non obbligatori, che possono essere aggirati con itinerario meno diretto ma forse più comodo). DURATA: 8 h – DISTANZA: 11.10 km – DSL: 1125 m D+
DATA: 17 ottobre 2021
PREMESSE
Un altro itinerario che custodivo nel cassetto da due anni! Ci troviamo al margine settentrionale delle Dolomiti di Fanes. Anche questa volta, le informazioni a disposizione sono scarse se non addirittura completamente assenti. Sappiamo sicuramente che sulla Furcia dai Fers si è svolta l’epica battaglia finale narrata nella saga del Regno dei Fanes, con sconfitta definitiva di quest’ultimi. Sappiamo, inoltre, che l’ascensione della Furcia dai Fers de Fora viene usualmente praticata dal lago Piciodel, salendo il faticoso ghiaione e poi rimontando la spalla S. Eppure sul versante opposto, nei pressi di Tamersc, la cartografia indica una traccia che, traversando la valle incuneata tra la Furcia dai Fers e la Montesela/Muntejela di Fanes (Monte Sella di Fanes), nota anche come Piz de Sant’Antone, conduce alla medesima spalla S. Ed è proprio questo l’itinerario prescelto, nonostante non si rinvengano descrizioni di sorta a riguardo. Come di consueto, compagno dell’avventura è il valoroso amico Paolo. Per l’occasione, inoltre, sarà dei nostri anche Edoardo, guida alpina di Cortina, che ha accettato con entusiasmo l’originale proposta di itinerario!
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi di un ponte poco dopo località Tamersc, ci inoltriamo nel bosco sulla sinistra orografica della valle, trovando e percorrendo per pochi metri una mulattiera erbosa le cui tracce presto svaniscono nel bosco. Iniziamo quindi la salita a naso, individuando una tenue traccia che corrisponderebbe, effettivamente, con la traccia GPS della carta Tabacco. Il bosco diventa tuttavia troppo fitto ed intricato per permettere un agevole incedere, sicché ci troviamo a preferire una salita in verticale sul margine di un largo impluvio detritico (fig. 1 e 2).
fig. 1. Usciamo dal bosco e risaliamo il margine sinistro di un largo impluvio detritico.fig. 2. La salita, non proprio agevole, del vasto colatoio.
Giunti pressoché all’apice del colatoio, scegliamo di rimontare il margine per riguadagnare il bosco. Ed ecco la prima difficoltà: la parete dell’impluvio è particolarmente compatta e dura; probabilmente il ghiaccio interstiziale della notte comincia ad amalgamare bene questi pendii esposti a nord. Fatichiamo quindi a scavarci il minimo solco che ci regga con sicurezza nella salita. Provvidenziale è l’intervento di Edoardo, che supera agilmente il ripido pendio ed improvvisa un ancoraggio su tronco di mugo. Saliamo quindi assicurati, non senza qualche difficoltà (fig. 3 e 4).
fig. 3. Edoardo affronta senza alcuna difficoltà il ripido traverso.fig. 4. Paolo affronta assicurato il pendio.
Ci inoltriamo quindi nuovamente nel bosco, identificando una probabile traccia che supera alcuni ripidi tratti di terreno roccioso e sporco. La traccia si perde subito e cerchiamo di guadagnare il più possibile quota superando piccoli smottamenti e balze erbose (fig. 5), fino a giungere ad una comoda cengia ai piedi di un anfratto roccioso (fig. 6). Qui troviamo un bel segno giallo su un albero e qualche sbiadito bollo rosso sulla parete. Rincuorati, procediamo aggirando la paretina rocciosa sulla destra.
fig. 5. Paolo si inerpica nel bosco aggirando il pendio friabile.fig. 6. Finalmente troviamo un segnale che ci indica d’essere sulla giusta via.
Procediamo ora nel bosco più rado, su terreno comodo, sempre risalendo in direzione S, fino a che individuiamo un ometto che ci indica la via (fig. 7): si tratta, ora, di ripiegare sulla sinistra, fino ad incrociare un vasta frana che incide la vallata e funge da spartiacque (fig. 8).
fig. 7. L’ometto e l’evidente traccia che conduce a breve alla frana.fig. 8. Entriamo nel greto che funge da spartiacque della valle.
Camminiamo sul greto e puntiamo i biondi larici alla cui base intravediamo una traccia. Secondo la cartografia, il sentiero dovrebbe costeggiare la frana, tra i mughi. Evidentemente, l’erosione ha cancellato negli anni il sentiero. Superato il gruppo di larici, che ci lasciamo sulla destra, saliamo per facili rocce le pareti levigate del greto del torrente giungendo infine al salto di roccia che sbarra l’accesso alla valle superiore (fig. 9). Confluiscono qui tre canaloni. Il primo, a destra, è un impluvio detritico ghiaioso; il secondo, sempre sulla destra, è un susseguirsi di piccoli salti di roccia. Deviando nettamente a sinistra, invece, si apre un profondo canyon che taglia la valle ed ospita un modesto torrente. Scegliamo di imboccare la seconda via, sulla destra.
fig. 9. Il sole fa capolino dalla parete N della Furcia dei Fers.fig. 10. Lasciamo a destra il primo impluvio e, superato lo sperone roccioso, rimontiamo sulla destra lungo il canalone.
Il fondo del canale che saliamo è spesso ghiacciato e, per superare un piccolo salto di roccia, ci assicuriamo al tronco di un barancio: una caduta sul ghiaccio sarebbe infatti rovinosa (fig. 11 e 12)!
fig. 11. Paolo supera assicurato un salto di roccia ghiacciato.fig. 12. Edoardo assicura Paolo al solido tronco di un pino mugo.
La salita prosegue su facili roccette friabili (fig. 13) fino a che riteniamo di aver raggiunto una quota sufficiente per riprendere il traverso del costone barancioso in direzione S. Aprendoci il varco tra i mughi, intersechiamo due canali detritici che scendono fino a raggiungere un più vasto canale, apparentemente la parte sommitale del profondo canyon che si diramava sulla sinistra ai piedi del salto di roccia iniziale (fig. 14).
fig. 13. Edoardo sale l’ultima parte del canale detritico.fig. 14. Paolo attraversa il tratto apicale (e terminale) del profondo canyon.
Da qui, la salita diventa agevole, su fondo erboso, fino a raggiungere un’area che, in carta Tabacco, corrisponde ad un bivio (fig. 15). Il ramo di sinistra del bivio sulla carta si interrompe pressoché immediatamente. Di contro, la Tabacco suggerirebbe di muovere verso destra, fino a salire (a quanto pare) su un costone roccioso alle pendici della Montesela di Fanes. Francamente, non riusciamo a capacitarci del motivo di tale “deviazione”; di fronte a noi, infatti, si apre un’amena vallata erbosa ed assolata, a vista priva di ostacoli di sorta… perché dovremmo andare ad incrodarci su un terreno ripido, apparentemente esposto ed all’ombra? Decidiamo quindi di ignorare totalmente la traccia indicata dalla cartografia e di percorre una spalla erbosa (fig. 17) per poi scendere, sulla sinistra, in un canalone detritico (fig. 18). Da qui in breve ci ritroviamo in una magnifica valle, condivisa solo da un numeroso gregge di camosci che transita sulle ripide cenge della Furcia dai Fers (fig. 19). La cartografia Tabacco non riporta il nome di questo luogo paradisiaco che, in altre mappe, ho trovato denominato come Pizzo Forca di Ferro (Dont de Furcia dai Fers). Non sarebbe peraltro possibile descrivere, a parole, la bellezza dell’ambiente che ci circonda. Sembra che questa valle sia rimasta per anni ed anni inviolata, completamente priva di alcun segno di passaggio umano.
fig. 15. Giunti presso il “bivio” segnato nella carta Tabacco.fig. 17. La traiettoria che preferiamo tenere, senza seguire le indicazioni della cartografia Tabacco, che ci invitano a rimontare sulle pendici della Montesela di Fanes.fig. 18. Il canalone detritico che mette sulla sinistra della spalla erbosa.fig. 19. La magnifica valle incuneata tra la Furcia dai Fers e Montesela di Fanes, meglio nota come Pizzo Forca di Ferro oppure Dont de Furcia dai Fers. Un remoto paradiso di silenzio.
Procediamo quindi all’interno della valle cercando di tenerci il più possibile in quota (fig. 20), in direzione della sella, che al momento non vediamo, tra la Furcia dai Fers de Fora (nostra meta) e la Furcia dai Fers da Ete, 2489 m (fig. 21). Alle nostre spalle, troneggia la Montesela de Fanes, 2655 m. (fig. 22). Tra queste rupi, si è svolta la battaglia finale che vide la sconfitta del popolo di Fanes, così come narrata nell’epica saga del Regno dei Fanes. K.F. Wolff descriveva la scena con le seguenti parole:
«Il sole era tramontato dietro l’alta catena rocciosa irta di punte dei monti di Vanna. Ai piedi delle rocce strisciavano le ombre della sera che si allungavano via via su tutto il paese. La maggior parte dei caduti giaceva intorno alla vetta chiamata “Furtja dai Fers” (Forca dei Ferri), perché in quel punto si era combattuto più a lungo e con maggiore accanimento. Un grosso corvo si era posato sull’elmo di un guerriero morto e gli beccava il viso. Un avvoltoio lo guardava pigramente».
fig. 20. Tenendoci il più possibile in quota, in direzione della sella.fig. 21. La Furcia dai Fers da Ete, 2489 m, sulla sinistra. La sella sulla destra, parzialmente celata, è la Forcia dai Fers, 2320 m.fig. 23. Alle nostre spalle, la Muntejela de Fanes o Piz de Sant’Antone, 2655 m.
Guadagnata finalmente la cresta che sale alla Furcia dai Fers, si apre una visione mozzafiato sulle vette circostanti. Verso S, da sinistra, il Bechei di sopra, 2794 m, dietro sormontato dalla Tofana di mezzo, 3244 m, dalla caratteristica piramide della Tofana di rozes, 3225 m, parzialmente coperta dal Piz di Forcia rossa IV, 2806 m. Procedendo verso destra, Cima Campestrin sud, 2910 m, Punta Fanis di mezzo, 2989 m, ed il Lagazuoi piccolo, 2778 m (fig. 24). Volgendo lo sguardo a E, da destra a sinistra, si distinguono nettamente forcella Camin, salita all’incirca un paio di mesi prima (leggi la relazione dell’itinerario), il monte Ciamin, 2600 m, subito sotto forcella Gran Valun (pure guadagnata nell’itinerario precedentemente citato) e il Banch dal Se, 2400 m. In fondo, sulla sinistra, il gruppo della Croda Rossa: si distingue chiaramente forcella Colfiedo, traversata l’anno scorso (leggi la relazione dell’itinerario) (fig. 25).
fig. 24. Le vette ampezzane svettano dietro le pareti del Col Bechei di sopra.fig. 25. Le vette sul versante E della Furcia dai Fers.
Risaliamo ora la cresta, lungo un’evidente traccia che aggira uno sperone roccioso sulla sinistra (fig. 26) e… siamo finalmente in cima, a 2534 m, (fig. 27, 28 e 29So).
fig. 26. Aggirando lo sperone prima della cima. fig. 27. In cima alla Furcia dai Fers de Fora, 2534 m.fig. 28. Godendomi il panorama dalla vetta della Furcia dai Fers de Fora.fig. 29. In cima!
Sono quasi le 16.00 ed è ora di iniziare la discesa, che avviene, fino alla sella tra la Furcia dai Fers de Fora e da Ete, sulla stessa linea di cresta dell’andata (fig. 30).
fig. 30. La discesa verso la sella tra le due Furcia dai Fers.
Giunti in sella, si inizia la discesa verso E, tenendo in fronte il Banch dal Se, dapprima su terreno prativo (fig. 31) e poi su più ripido ghiaione, con divertente corsetta (fig. 32).
fig. 31. La prima parte della discesa attraversa le pendici prative della Furcia dai Fers de Ete.fig. 32. La discesa lungo il ghiaione.
Là dove il ghiaione termina tra i baranci, teniamo la sinistra, costeggiando idealmente la parete della Furcia dai Fers, tenendo una direzione NE, fino a trovare una tenue traccia che, a fatica, attraversa i fitti mughi. Giungiamo quindi ai ruderi di una casa di legno collocata in una radura (fig. 33).
fig. 33. Giunti alla casa di legno abbandonata.
L’obiettivo sarebbe ora procedere lungo la traccia nera tratteggiata in carta Tabacco che, costeggiando le pendici dalle Furcia dai Fers, dovrebbe condurci nei pressi di Tamersc, lungo una via evidentemente più breve rispetto a quella del sentiero n. 7 che passa per il rifugio Pederù. Ci proviamo ma fin da subito l’impresa sembra piuttosto ardua. Dalla casetta, infatti, non troviamo tracce evidenti che seguano la traiettoria indicata dalla cartografia. Camminiamo tra i baranci, non troppo fitti, incrociando delle possibili tracce che, tuttavia, sembrano morire di volta in volta. Traversiamo ora un ripido ghiaione (fig. 34) ma ci troviamo di fronte a pareti che sembrano inviolabili.
fig. 34. Traversando l’ultimo ripido ghiaione prima di abbandonare.
Nonostante la traccia della Tabacco indichi di proseguire esattamente sulla via dove ci troviamo, rimontando per ripidi salti di roccia, preferiamo desistere e scendere lungo il ghiaione, fino ad incrociare il sentiero n. 7. Probabilmente, questo antico sentiero che non troviamo consiste in un viaz che taglia le pareti lungo esposte cenge ormai invase dai mughi. Noi, per oggi, siamo soddisfatti dell’avventura già compiuta; inizia ad imbrunire e scegliamo di scendere al rifugio Pederù, per poi procedere sulla strada asfaltata in direzione dell’auto (fig. 35).
fig. 35. Il Banch dal Se baciato dagli ultimi raggi prima della sera.
Ecco il video dell’avventura magistralmente montato da Paolo!
La relazione del compagno d’avventura Paolo saprà sicuramente arricchire di particolari ed emozioni quanto sinora descritto!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: E DURATA: 7.20 h – DISTANZA: 16 km – DSL: 1133 m D+
DATA: 11 ottobre 2021
PREMESSE
Oggi decidiamo di esplorare le pendici del versante orientale del Col Toront; quelle impervie pareti che da quando sono piccolo osservo mentre percorro in auto il viadotto autostradale che traversa la valle incuneata tra il Cansiglio e la dorsale del Nevegal. È un itinerario certamente poco frequentato (non abbiamo incrociato nessuno per tutta la durata della giornata, ed era una splendida giornata di sole!), selvaggio e di medio impegno. Il fatto che ci si trovi sulle Prealpi trevigiane, a poca distanza dai paesi valligiani, non deve però indurre a sottovalutare l’impegno dell’itinerario. La traccia che collega il Troi de le Lisse con il Troi de Medo presenta infatti alcuni tratti un po’ impervi e moderatamente esposti. Il terreno è infido, spesso caratterizzato da foglie e fango che richiedono particolare attenzione nella progressione. Tutto l’itinerario è segnalato da bolli rossi e, talvolta, da fettuccine rosse affisse sugli alberi. Spesso, peraltro, è capitato di perdere la via nella progressione lungo il raccordo tra il Troi de le Lisse e il Troi de Medo che, probabilmente a causa della scarsa percorrenza, presenta una traccia poco evidente. Lungo il medesimo raccordo, si affrontano una trentina di metri attrezzati con fune d’acciaio che, peraltro, non presentano alcuna difficoltà tecnica. Come di consueto, compagno d’avventura è il fedele amico Paolo.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto nei pressi del parcheggio del bar di Sella di Fadalto, 487 m, si traversa la strada e si imbocca la strada asfaltata che sale leggermente sulla sinistra, segnata come sentiero E7. Si giunge in breve nel piccolo borgo di Caloniche di sotto, 512 m, e, traversatolo lunga la “via” principale, si prende il sentiero 1045, avendo cura di abbandonarlo dopo poche decine di metri, per imboccare sulla destra quello che sulla cartografia appare come un sentiero tratteggiato nero. Questo è appunto il Troi de le Lisse, meglio noto anche come Troi dei boce o Troi de Tosàt, in quanto i bambini di Caloniche e di Collon lo percorrevano reciprocamente per venirsi ad incontrare e, secondo le testimonianze raccolte da Giovanni Carraro, per piantarvi alberi (I sentieri nascosti delle Prealpi trevigiane, pag. 229) (fig. 1).
fig. 1. L’entrata nel Troi de le Lisse.
Il sentiero traversa la Croda Longa in leggera salita, quasi impercettibile, penetrando nella fitta vegetazione. Superiamo sulla destra alcune piccole pareti, ove un tempo i pastori dovevano probabilmente trovare riparo negli anfratti rocciosi (fig. 2), nonché qualche curioso passaggio aereo tra grovigli di solide radici (fig. 3).
fig. 2. Gli anfratti rocciosi lungo il Troi de le Lisse.fig. 3 Curioso passaggio aereo
La vegetazione diventa ora più rada e, improvvisamente, ci troviamo dentro un’ampia vallata rocciosa, selvaggia, coperta da detrito franoso, meglio nota come Gravòn del Verdilòn (fig. 4). La sorpresa è però più grande quando quando ci tagliano la strada una ventina di mufloni (fig. 5). A posteriori, scopriamo che le pendici del Col Visentin e la zona di Miane ospitano ormai da diversi anni questa famiglia di mufloni!
fig. 4 Si apre di fronte a noi il Gravon de Verdilon, che traversiamo in leggera salita, perdendo un paio di volte la traccia corretta.fig. 5. Mufloni traversano il Gravon de Verdilon.
Ritrovata la traccia perduta, il sentiero entra nuovamente nella fitta vegetazione. Si supera ora un vecchio cavo d’acciaio di teleferica (fig. 6) e si giunge in breve alla deviazione, segnata chiaramente con cartello “Strapeze e Pra de Larghet” (fig. 7), per imboccare il sentiero che la cartografia indicata come puntinato nero e che mette in connessione il Troi de le Lisse con il Troi de Medo.
fig. 6 Occhio alla testa!fig. 7 Il cartello indica una traccia che risale sulla destra.
Ora inizia la salita vera e propria. La traccia è ben segnata ma, talvolta, la vegetazione è troppo fitta e perdiamo la via, per poi ritrovarla a breve. Si rimonta il pendio della montagna, entrando ed uscendo dal bosco, muovendo in direzione NE (fig. 8), per poi salire più ripidamente a serpentine e traversare nuovamente verso O.
fig. 8 la salita in direzione NE, ai piedi delle pareti rocciose.
Si giunge ora in un punto chiave dell’itinerario. È presente un cartello con deviazione che inviterebbe a salire verso N lungo una traccia che si innesta nella traccia principale. Questo “sentiero” non è pero riportato sulla cartografia. Più o meno in corrispondenza di questa intersezione, il sentiero su cui procediamo pare interrotto; vi sono infatti due rami posti a mo’ di croce, con una pietra sopra. Sembrerebbe troppo perfetto per esser naturale… Non sapendo dove conduce l’intersezione, tuttavia, noi decidiamo di procedere per il sentiero probabilmente chiuso. I bolli rossi, effettivamente, sembrano ora più risalenti, e la traccia diventa molto più tenue. Finiamo per perderla definitivamente e procediamo intuendo la via più agevole e determinando la nostra posizione grazie al GPS. Ci facciamo breccia dentro una vegetazione sempre più fitta e rigogliosa, sino a sbucare in un’affascinante pianoro chiuso da ripide pareti verticali (fig. 9).
fig. 9 Ai piedi delle pareti rocciose, nel piccolo pianoro senza uscita.
Si tratta ora di rimontare lo sperone roccioso di destra, individuano una debole traccia che risale una breve e ripida conca boschiva. Il terreno è fangoso e, scivolando, prendo una botta allucinante sul ginocchio destro, che mi toglie il fiato per almeno un paio di minuti. Mi riprendo su una radura prativa sulla destra della conca, giusto per verificare che la rotula sia ancora lì… e così è… anche questa volta, abbiamo fregato l’elicottero 😉 Riprendiamo quindi la traccia, che ora taglia la ripida conca, e ci portiamo sul pulpito erboso dello sperone roccioso, dove vediamo chiaramente un cavo d’acciaio collocato sulla parte. Appena mi avvicino al cavo, ecco una piccola vipera che se la svigna… questi ultimi quindici minuti promettono bene… Procediamo quindi con cautela, svolgendo un traverso di una trentina di metri, dapprima su tratto esposto e, poi, su ripido pendio (fig. 10, 11 e 12).
fig. 10 L’inizio del tratto esposto. Sulla sinistra di Paolo, il vuoto.fig. 11 Il tratto attrezzato, superato il primo passaggio esposto.fig. 12. Verso il termine del tratto attrezzato.
Terminato il tratto attrezzato, la traccia sale lungo una nuova ripida conca boschiva su insicuro terreno fangoso e sassoso, quasi un canalone (fig. 13), per poi ripiegare nettamente sulla sinistra, in direzione O, traversando il bosco.
fig. 13 La salita lungo il canalone di terra e sassi.
Si esce ora nuovamente dal bosco e ci si trova in un’ampia radura che sale dolcemente fino a delle piccole paretine rocciose. Qui il sentiero si inerpica sulla destra del colatoio franoso, in mezzo al bosco, anche se la vegetazione è troppo florida per permetterci di seguirlo con precisione. Procediamo quindi a naso, in salita, avendo cura di lasciare sulla sinistra lo sperone roccioso di cui in foto (fig. 14).
fig. 14 Saliamo lasciando sulla sinistra la frana e ci teniamo sulla destra, verso il bosco.
A questo punto, si finisce per intravedere un paio di pali di legno con alcuni segnali dipinti di rosso affissi. Non è così scontato se l’erba è alta fino al bacino, come nel caso di specie. Ad ogni modo, risaliti lungo il bosco per una ventina di metri, si tratta di traversare a sinistra per altra decina di metri, fino ad intersecare uno stretto canale detritico. Risalendolo, si arriva ad intersecare il Troi de Medo, sentiero n. 985, e lo si imbocca a destra, direzione N.
fig. 15. Imboccato il Troi de Medo.
Di lì a breve, il sentiero diviene ben evidente, spesso falciato accuratamente. Si traversa quindi in direzione NE, con panorama mozzafiato sulle Prealpi e sul Lago Morto, ai piedi delle pendici che stiamo percorrendo (fig. 16 e 17). Unica nota dolente: non riusciamo a non sentire i continui rombi delle moto che transitano sul viadotto autostradale sottostante 🙁
fig. 16 Il Troi de Medo, sent. 985fig. 17. Il Troi de Medo, sent. 985.
Superati i ruderi di Casera dei Grass e Casera Tombaril, il sentiero 985 comincia a perdere quota fino ad immettersi nel Troj delle Casere. Qui, poco prima di imbatterci in una vecchia strada sterrata abbandonata, superiamo un paio di larghi impluvi detritici senza alcuna difficoltà (fig. 18).
Percorrendo la vecchia strada abbandonata, superiamo in breve gli orti dell’abitato di Caloniche di Sopra e ritroviamo la strada asfaltata che ci porta al parcheggio di Sella di Fadalto.
Per un ulteriore approfondimento, non si può mancare di leggere anche la relazione dell’itinerario scritta dall’amico Paolo sul suo ricco blog di itinerari in montagna!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE+ (il + è per il solo impegno fisico nell’attraversamento del Ruoibes de inze). DURATA: 11 h – DISTANZA: 21,5 km – DSL: 1348 m D+
DATA: 22 agosto 2021
Premesse
Danilo Pianetti titolava il presente itinerario “L’alta dimora degli dei è silenziosa”, pubblicato su Le Alpi Venete nel 1988. Mai definizione simile fu più azzeccata. Come tutte le spedizioni in stile “Windchili”, anche su questa troviamo scarsissime informazioni. Sappiamo che la salita a Forcella Ciamin è un apprezzato itinerario invernale, purtroppo tristemente noto per la valanga che nel 2007 costò la vita a due sci alpinisti. Sappiamo che, là dove molti itinerari descritti in questo blog sono completamente fuori traccia, il presente è “almeno” segnato sulle mappe, anche sulle più recenti, come sentiero difficile (come si vedrà, la mappatura della traccia ha costituito più un problema che un beneficio). Conosciamo, poi, la versione delle guide alpine di San Vigilio di Marebbe e di Cortina, all’estate del 2020. Entrambe non sono mai state in stagione estiva. In particolare, le guide di San Vigilio di Marebbe mi hanno domandato perché, con tutti i posti belli che ci sono in montagna, volevo proprio complicarmi la vita su quell’itinerario… (il titolo di Danilo Pianetti non è sufficiente 😉 ???). Le guide alpine di Cortina, invece, dopo un breve confronto sulle mie capacità, con apprezzabile obiettività, mi avevano suggerito di salire e, al massimo, ritornare sui miei passi se gli ostacoli fossero divenuti insormontabili. Decisamente più drastico era stato l’approccio dei gestori del Rifugio Fodara Vedla che, interpellati di persona sulla possibilità di traversare Forcella Gran Valun e scendere per l’omonimo vallone, avevano bocciato la mia idea, comunicandomi che nessuno transitava più per quel sentiero in quanto l’intera valle era stata brutalmente erosa dai violenti fenomeni meteorologici delle ultime stagioni. Infine, conosciamo la valutazione fornita da Paolo Beltrame, nella sua guida Croda Rossa – 101% Vera Montagna, datata 2008, che descrive dettagliatamente l’itinerario e lo classifica come “E” (sappiamo però che il Beltrame ha un metro di valutazione che, talvolta, non abbiamo condiviso e ci aspettiamo, quindi, che il suo “E” corrisponda a un “EE”!!!). A posteriori, l’itinerario non presenterebbe nel suo complesso particolari difficoltà tecniche, se non nella salita da forcella Ciamin a forcella Gran Valun per la ripidità del ghiaione. Il vero immane ostacolo di tale escursione è l’accesso alla Val di Meso, traversando l’invalicabile Ruoibes de Inze; rarissime sono le tracce, profondi e ripidi gli impluvi franosi, impenetrabili le pareti di mughi, alte oltre i tre metri. Per traversare gli 8km del Ruoibes de Inze, abbiamo impiegato addirittura quattro ore!!!
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Lasciata l’auto presso il parcheggio in località S. Uberto, scendiamo a valle in pochi minuti, fino a traversare il ponte sull’Aga de Ciampo de Crósc. Subito dopo il ponte, sulla destra, si inserisce il sentiero n. 418 che conduce al Casón de Antruiles (o Antruilles) (fig. 1).
fig. 1. Il Cason de Antruiles.
Lasciando il Cason de Antruiles sulla sinistra, si procede per pochi metri nel bosco, seguendo la mulattiera, fino ad incontrare il torrente che scende dalla Val de Meso. Ci si tiene sulla destra idrografica del torrente, senza quindi attraversare il ponte, e si comincia la salita costeggiando il torrente, su una vecchia ed incerta traccia che entra nel bosco (fig. 2).
fig. 2 La traccia che entra nel bosco.
Dopo pochi minuti nel bosco, troviamo il primo ostacolo che opera indubbiamente una “selezione naturale” dei pochi escursionisti che scelgono di intraprendere questo itinerario. Il costone è interamente franato, per una larghezza di almeno trenta metri, cancellando il sentiero (fig. 3). Saltiamo dentro alla frana e traversiamo rimontando il bosco senza troppe difficoltà (fig. 4).
fig. 3 La prima frana lungo il costone boschivo di Ruoibes de Inze.fig. 4 Paolo entra nella frana.
Rimontare nel bosco non è stato molto utile poiché ci ritroviamo davanti una nuova frana che ha cancellato il sentiero (fig. 5). Decidiamo, quindi, di entrare nel greto del torrente e risalirlo per qualche decina di metri (fig. 6 e 7), in attesa di ritrovare il costone boschivo intatto.
fig. 5 La frana ha nuovamente cancellato il sentiero.fig. 6 Il sottoscritto attraversa il torrentello per l’ennesima volta!fig. 7 Paolo attraversa il torrente.
Guadagnate, non senza fatica, alcune decine di metri zigzagando sul greto del torrente, identifichiamo un punto in cui la risalita pare favorevole (fig. 8 e 9) e ci inerpichiamo nuovamente nel bosco.
fig. 8 Provando a rimontare il costone franato in cerca di un varco…fig. 9 Paolo risale il costone franato.
Ancora una frana, tuttavia, spazza l’intero costone. Decidiamo di traversarla (fig. 10 e 11) e scendere nuovamente lungo il greto del torrente, che pare ora più ampio e facilmente percorribile (fig. 12).
fig. 10 Ancora una frana che cancella il sentiero!fig. 10 Paolo scende con cautela verso il greto del torrente.fig. 11 Il greto del torrente, ora più ampio, ci permette di risalire la valle più agevolmente.
Risaliamo quindi nuovamente il costone del versante idrografico destro del torrente, là dove la traccia indicata in mappa inizia a curvare leggermente verso SO, in direzione delle pendici della Croda de Antruiles, superando alberi schiantati e smottamenti (fig. 12).
fig. 12 Il punto in cui la freccia rossa entra nel bosco corrisponde a dove la traccia, secondo la cartografia Tabacco, dovrebbe transitare. Non troviamo però alcun minimo segno di passaggio, nemmeno remoto, tale da lasciare ipotizzare che una traccia transitasse nei pressi.
Procediamo nel bosco, controllando regolarmente (quasi maniacalmente) la nostra posizione sul GPS, senza peraltro rinvenire alcun indizio che lasci supporre l’esistenza di una traccia. Inizia ora la parte più difficile dell’itinerario. Attenendosi precisamente alla traccia mostrata sulla carta Tabacco, ci si trova in tratti nei quali il passaggio è assolutamente precluso. Ci troviamo a dover superare intricatissimi muri di pini mughi (fig. 13), senza nemmeno riuscire a calpestare il suolo ma arrampicando come scimmie tra gli elastici e dondolanti rami. Si superano di volta in volta impluvi ghiaiosi più o meno profondi, che rimontano poi in altri impenetrabili boschi di mugo. L’incedere è estremamente faticoso e molto lento. L’umidità dentro i mughi è estenuante.
fig. 13 Il percorso secondo la cartografia Tabacco…fig. 14 Da un raro punto di osservazione più elevato, vediamo solo… pini mughi.
Siamo stremati e decidiamo di abbandonare il percorso indicato dalla Tabacco. Apro una piccola parentesi di riflessione a riguardo: il fatto che l’edizione aggiornata della carta Tabacco indichi una traccia inesistente e completamente errata è increscioso. L’esistenza di un’indicazione fuorviante dettata da un’autorità di riferimento in materia, quale è la cartografia Tabacco, può inoltre risultare particolarmente pericoloso per l’escursionista che, come noi, vi faccia affidamento. Se l’aggiornamento corretto di una traccia non è, per molteplici ragioni, fattibile, la traccia deve essere cancellata dalla mappa, per consentire all’escursionista di scegliere il percorso migliore in totale autonomia. Ed è quello che abbiamo fatto, scegliendo di salire fino alle pendici rocciose della Croda de Antruiles, dove, fortunatamente e finalmente, abbiamo trovato una debole traccia che conduce alle pareti dello sperone più esterno della Croda del Antruiles (fig. 15 e 16).
fig. 15 Alle pendici della Croda de Antruiles, finalmente fuori dai mughi, troviamo una timida traccia.fig. 16 Il sottoscritto, sguardo alle pareti della Croda de Antruiles, finalmente soddisfatto di aver trovato un terreno praticabile!
La nuova traccia perde leggermente quota e ci conduce fino ad un impluvio che solca le pendici dello sperone più esterno della Croda de Antruiles (fig. 17 e 18). Entriamo dentro l’impluvio e scendiamo fino all’intersezione con un ulteriore e minore impluvio, in corrispondenza dell’estremità dello sperone. Da qui risaliamo sul versante opposto.
fig. 17 Discesa sul fondo dell’impluvio in corrispondenza dello sperone esterno della Croda de Antruiles.fig. 18 Nell’intersezione dei due impluvi, in corrispondenza dell’estremità dello sperone della Croda de Antruiles.
Rimontato il sentiero eh… miracolo: troviamo il primo ometto (fig. 19)! Non sappiamo, purtroppo, che l’illusione svanirà a minuti; dopo pochi metri, la traccia è visibilmente sbarrata con delle pietre poste di traverso. Provo a proseguire per comprendere l’entità dell’ostacolo e mi trovo di fronte ad un bel salto di oltre una decina di metri. Siamo quindi costretti ad attraversare il più profondo e ripido solco franoso incontrato fino ad oggi.
fig. 19 Il primo ometto della giornata!
L’attraversamento del profondo canale franoso si rivela tutt’altro che semplice. Per accedere alla frana, siamo dapprima costretti a calarci su ripido terreno roccioso, aggrappandoci ai resistenti e flessibili rami dei pini mughi (per una volta, tornano utili!). Giunti sul terreno franoso, sotto un primo strato detritico grossolano e mobile, il fondo si mostra molto più duro e compatto del previsto, al punto che il tallone non riesce a scavare un gradino sufficiente a garantirci una sicura stabilità in discesa. Scendiamo quindi a quattro zampe o, come dicono i poeti, “di culo”. Se la discesa fino alla base del solco franoso ci ha provato fisicamente, la salita per rimontare il versamento opposto si rivela ancora più impegnativa! Improvviso una salita in traiettoria diagonale là dove il pendio mi sembra meno inclinato e scavo con tutta l’energia che ho nelle gambe dei gradini il più profondi possibile. Il terreno è però su questo versante friabile, poco compatto, e lo scarpone non ha presa sicura. Devo conficcare con quanta più forza ho in corpo i bastoncini nel pendio per riuscire a non franare insieme al terreno che mi cede sotto i piedi (fig. 20). La stessa traiettoria risulta meno fortunata per l’amico Paolo, che rimedia una bella grattata sul braccio 🙁 (fig. 21)
fig. 20 La traiettoria tenuta per traversare il profondo impluvio.fig. 21 Lo scivolone di Paolo, fortunatamente privo di conseguenze.
Superato anche questo ostacolo, ritroviamo una traccia che però si perde dopo pochi passi nei pini mughi. Avanziamo alla cieca, di pino mugo in pino mugo, spremendo ogni singolo muscolo per mantenere l’equilibrio ed aprirci un varco nell’intrico dei rami. Ogni tanto, una piccola radura erbosa ci permette di respirare e controllare il GPS, che ci pone nuovamente in corrispondenza della traccia segnata sulla carta Tabacco. Traccia, tuttavia, che non vediamo minimamente. Che incredibile beffa! Finalmente, riesco a guadagnare una posizione vantaggiosa che mi permette di osservare al di sopra della linea dei pini mughi. Basta un veloce sguardo per capire che ci siamo quasi! Le ghiaie della Croda Ciamìn sono a poco più di una cinquantina di metri davanti a noi. Entusiasti della scoperta, procediamo con ignorante violenza, senza più cercare il varco più agevole. Avanzo tra i mughi aggrappandomi ai rami come fossero liane e mi lascio accompagnare per inerzia fino alla meta. Mai agognai di più uno spazio aperto!!! Giunti alla lingua più esterna della frana che dolcemente scende dalla Val de Meso superiore, ci spogliamo e ripuliamo degli aghi di pino e dei sassolini negli scarponi! La Val di Meso si staglia ora di fronte a noi, silenziosa, immobile, completamente deserta ed assolutamente inviolata (fig. 22). Piccola riflessione: è evidente che questo accesso alla Val de Meso non è consigliabile. È altrettanto chiaro, visto i pochi indizi trovati, che, illo tempore, il sentiero risaliva più o meno dove siamo passati noi ma, sicuramente, non è una via oggi suggeribile. Solo per dovere di completezza, riporto l’itinerario proposto da Ugo di Vallepiana nel 1925, consapevole che quasi sicuramente sarà anch’esso precluso da frane e vegetazione. Dalla Malga d’Antruiles,
«non appena valicato il ruscello di Moz, per una mulattiera sulla sua destra, risalire la Val de Mez. Dove la strada sparisce, traversare per pendii e boschi verso destra in direzione della continuazione della strada che termina su un prato dov’è una sorgente. Su per il canale ghiaioso a destra della sorgente fino nelle vicinanze delle rocce dove una traccia di sentiero conduce verso destra per gerbidi e pini nani. Superare numerosi costoncini fino ad un ripido pendio erboso conducente nella valle superiore della Vel di Mez».
Ugo di Vallepiana, Dolomiti di Cortina d’Ampezzo dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago, 1925, Guide del Club Alpino Italiano, pag. 110.
In sostanza, Ugo di Vallepiana risale sempre sulla destra al contrario di noi che ci siamo portati sulla sinistra della valle.
fig. 22 La Val de Meso.
Scegliamo di salire tenendoci sul versante idrografico sinistro dello sperone erboso che spacca a metà la Val de Meso, nonostante la carta Tabacco indichi l’esistenza di una traccia sull’opposto versante. Quest’ultimo versante è però visibilmente solcato da frane e il fondo appare tutt’altro che agevole. Guadagnato il cocuzzolo sul lato prescelto, la salita risulta comoda su fondo erboso (fig. 23). Giungiamo sulla sommità di questa amena “isola” al centro della Val de Meso per poi percorrerla nella sua intera lunghezza (fig. 24) e scendere quindi sul versante idrografico destro della vallata, incontrando le ghiaie della Croda de Antruilles.
fig. 23 Salendo al lato del cocuzzolo erboso.fig. 24 In cresta al cocuzzolo erboso, per poi traversarlo e discendere sul versante idrografico destro della vallata.
Finalmente, il profilo della Forcella Ciamin si staglia davanti a noi. Abituati a salire ripide forcelle ghiaiose, Forcella Ciamin ci stupisce per la sua dolcezza. È una forcella erbosa, molto ampia, di comodo accesso. Accelero quindi il passo, incuriosito da questa insolita meta e, in breve, raggiungo la forcella posta a 2395m (fig. 25). La prima meta è conquistata! Riprendo fiato ed attendo Paolo che, a breve, mi raggiunge in forcella (fig. 26).
fig. 25 Raggiunta la Forcella Ciamin, 2395m.fig. 26 Paolo arriva in Forcella Ciamin.
Il panorama che si apre di fronte a noi è maestoso. Il versante O della Forcella Ciamin è ripido e franoso, al contrario del versante appena salito. Le lingue franose si esauriscono a poche decine di metri dal Lago Piciodel. Le ripide pareti della Furcia dai Fers contrastano con i morbidi pascoli dell’Alpe di Fanes e raccolgono in un abbraccio il Piz de Sant’Antone, 2655m, alle cui spalle svetta la più alta cima della zona, il Sasso delle Nove, 2968m (fig. 27). Alle nostre spalle, guardiamo la Val de Meso, superata con grande dispendio di energie. Una valle conchiusa tra la Croda Ciamin, a N, e la Croda de Antruilles, a S, le cui rispettive ghiaie ormai si mescolano sul fondo della Val di Meso, pioggia dopo pioggia (fig. 28). Per tutta la Val de Meso, fatta eccezione per due ometti, non abbiamo rinvenuto alcuna traccia di passaggio umano, sia essa un’impronta ovvero il segno a terra di un sentiero.
fig. 27 Il panorama mozzafiato che si apre ad O da Forcella Ciamin.fig. 28 La Val de Meso: a sinistra (N) la Croda Ciamin e a destra (S) la Croda de Antruilles.
In forcella tira un certo venticello fresco e decido di muovermi subito perché mi sento raffreddare rapidamente. Ora viene la parte “difficile”. E si vede fin dalla base. La salita a Forcella Gran Valun appare moderatamente ripida. Non trovando una traccia, devo ancora una volta aprire la via a istinto. Inizio a salire mantenendo una traiettoria diagonale che punta ad un varco tra la parete del Monte Ciamin ed un affioramento roccioso all’imbocco del canalone tra il Monte Ciamin stesso e la Croda Ciamin. A metà via, peraltro, mi rendo conto che la pendenza è troppo sostenuta ed il terreno troppo cedevole per mantenere il traverso previsto. Sono quindi costretto e ripiegare fino alla base dello sperone del Monte Ciamin, dove si intravedono delle zolle erbose che dovrebbero garantire un migliore appiglio (fig. 29).
fig. 29 La traiettoria poi tenuta per guadagnare l’imbocco del canalone.
L’inizio del canalone è ancora più ripido e sono costretto a salire il canalone sulla sinistra, a ridosso della parte del Monte Ciamin, aiutandomi con le mani sui generosi appigli coperti di detriti. Nel mentre, Paolo sta attaccando la salita alla base del ghiaione (fig. 30).
fig. 30 Paolo alla base del ghiaione attacca la salita a Forcella Gran Valun.
L’incedere si rivela particolarmente faticoso, almeno fino al raggiungimento di una modesta conca poco prima della forcella, che spezza la pendenza della salita. Da lì, in pochi metri, si giunge in Forcella Gran Valun, 2523m (fig. 31). Nuovamente, nessuna traccia di passaggio umano. A monte della forcella, chissà quanto tempo fa, qualcuno aveva improvvisato una croce con del fil di ferro e dei pezzi di legno. Ora giace mezza smontata a terra. Mentre aspetto Paolo, mi diletto a rimodellare la croce conficcandola entro una piramide di sassi.
fig. 31 Forcella Gran Valun, 2523m. In primo piano, la cima di Monte Ciamin, 2610m. Sullo sfondo, la Croda de Antruilles.
Il panorama è ancora più maestoso di quello goduto da Forcella Ciamin. Il Gran Valun è, effettivamente, grande, immenso, racchiuso a O dal Banch Dal Sé e a E dallo sperone N della Croda Ciamin. Finalmente possiamo goderci la tappa più sudata ed agognata (fig. 32)!
fig. 32 Giunti entrambi in Forcella Gran Valun!
La discesa avviene per via abbastanza evidente, sulla sinistra, tenendo come punto di riferimento la forcella Banch Dal Sé. Anche su questo versante, nessuna traccia di passaggio umano. Riusciamo però a interpretare preventivamente il tipo di fondo grazie alle impronte dei camosci che ci hanno preceduto: dapprima troviamo un fondo divertente, quasi sabbioso, che poi vira presto in un fondo compatto ed infido (fig. 33). Superata una prima parte in moderata pendenza, la discesa diventa via via più agevole (fig. 34 e 35).
fig. 33 Mentre inizio la discesa da Forcella Gran Valun.fig. 34 Lasciamo alle spalle la parte più insidiosa della discesa.fig. 35 Ormai il piano ha perso di pendenza e si procede senza problemi.
A questo punto, si costeggia la propaggine rocciosa sulla destra, che ci conduce, su ghiaino sempre più fine e divertente, nel bel mezzo del Gran Valun. Ora la discesa è appagante, l’ambiente maestoso e solitario (fig. 36, 37, 38 e 39).
fig. 36 L’inizio del divertente ghiaione.fig. 37 Costeggiando gli ultimi metri dello sperone roccioso che si inserisce nel Gran Valun.fig. 38 La discesa nel ghiaione del Gran Valunfig. 39 Il Banch Dal Sé
Ormai al centro del Gran Valun, diventiamo puntini nel grandioso anfiteatro che ci circonda (fig. 40). Miriamo alla zolla erbosa alle pendici della valle, dalla quale dovremo tenere la destra per evitare l’imponente salto di roccia che nasconde il vuoto (fig. 41). Qui troviamo, dopo ore ed ore, i primi segni di passaggio umano: ometti, resti arrugginiti di scatolette, un sentiero.
fig. 40 Prossimi al termine del Gran Valun.fig. 41 Il Gran Valun, dalle sue pendici.
Ci teniamo il più possibile vicino alle pareti dello sperone N della Croda Ciamin e, traversando alcuni impluvi ghiaiosi che hanno cancellato il sentiero, giungiamo ad una radura prativa che ospita due sorgenti (fig. 42). Da questo ameno spazio verde, deviamo verso N, a sinistra, seguendo per qualche decina di metri il corso del ruscello.
fig. 42 Il sentiero che conduce, tra i vari smottamenti, alla radura dove troviamo le sorgenti.
Ormai il rifugio Fodara Vedla è in vista. In una ventina di minuti lo raggiungiamo, talvolta perdendo la traccia, senza peraltro mai trovare difficoltà di sorta. Al rifugio ci rifocilliamo a dovere e siamo pronti per una lunga discesa fino a Malga Ra Stua, su comoda mulattiera, e, successivamente, fino al parcheggio di S. Uberto, lungo l’ormai deserta strada asfaltata (sono le 19.30!!!) (fig. 43 e 44).
fig. 43 Il lago di Rudo, nei pressi del rifugio Fodara Vedla.fig. 44 La tipica cascata dell’Aga de Ciampo de Crosc.
Un itinerario epico ed emozionante, alla portata dell’escursionista che abbia una certa flessibilità mentale, una buona dose di forza di volontà e dimestichezza con l’improvvisazione. Per ulteriori approfondimenti e punti di vista, vi rimando con piacere alla relazione scritta dall’amico Paolo. A seguire, inoltre, il bellissimo video del giro montato da Paolo, che ringrazio per il gran lavoro svolto!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA. Discesa di Forcella Michele: F+ (traverso a metà del canale di Forcella Michele: II-III grado); salto di roccia in Val Fonda: PD (al massimo qualche passaggio di II grado). DURATA: 8.30 h – DISTANZA: 19 km – DSL: 1100m D+
PREMESSE
Nell’agosto del 2020, ho iniziato con l’amico Paolo l’esplorazione della Val Fonda, che particolarmente si presta ad innumerevoli interpretazioni alpinistiche in stile “Windchili”. Traversato l’anno scorso il ghiacciaio del Cristallo, e l’omonimo passo (chi volesse può curiosare qui), decidiamo quest’anno di traversare Forcella Michele (2591m), che separa la dorsale del Popena dal massiccio del Cristallino, ed esplorare poi il ghiacciaio di Popena, comunemente considerato “estinto”. L’attraversamento estivo di Forcella Michele, con calata nella conca glaciale sottostante, non trova precedente alcuno online, fatta eccezione per qualche scarna descrizione di salite invernali con sci d’alpinismo. La guida Camillo Berti del 1991 riporta che il canalone è percorribile «ma escursionisticamente difficile ed assolutamente sconsigliabile in presenza di neve dura o ghiaccio, senza adeguata attrezzatura (ramponi, piccozza e corda)» (C. Berti, Dolomiti della Val del Boite, Nuove edizioni Dolomiti, p. 195). La cartografia non indica alcuna traccia. Solo sulla carta Kompass edizione 2003, è indicata una traccia che dalla Val Fonda conduce alla dorsale del Popena. Non, tuttavia, a Forcella Michele. Le immagini satellitari, invece, permettono di apprezzare l’esistenza di un traccia che dalla Val Fonda sale alla conca del ghiacciaio di Popena, dirigendo apparentemente a Forcella Michele o Forcella Cristallino. Tale vecchia traccia, tuttavia, risulta improvvisamente interrotta essendo stata sommersa dalle colate di ghiaie scese dalle pareti sovrastanti. Sulla base di simili presupposti, non possiamo esimerci dal tentare questa nuova ed inedita traversata estiva. Lo stesso vale per l’esplorazione del ghiacciaio di Popena. Trovandosi nascosto alla vista dei rari escursionisti che si cimentano nella traversata del ghiacciaio del Cristallo (e soprattutto non conducendo da nessuna parte), resta una meta assolutamente remota e di scarso interesse escursionistico. Coglieremo inoltre l’occasione per fare una capatina anche al ghiacciaio del Cristallo, al fine di verificarne lo stato e confrontarlo con quanto esplorato l’estate scorsa. In ultima, proveremo a cercare quella via alternativa che ci viene suggerita per superare il salto di roccia che conduce nella parte inferiore della Val Fonda, evitando di entrare nella gola dove scorre la cascatella. In occasione di questa uscita, per dare maggiore forza e sicurezza alla “spedizione esplorativa”, si è unito a noi, accettando con entusiasmo la sfida, anche Giacomo, guida alpina di Cortina!
DESCRIZIONE DELL’ITINERARIO
Parcheggiata l’auto presso il Ponte Val Popena Alta, 1658m, imbocchiamo il sentiero 222 che, costeggiando il Rio Popena, risale gradualmente la Val Popena Alta. Al momento, presso il Ponte Val Popena Alta, un cartello comunica che il sentiero 222 è chiuso al transito. È probabile che tale indicazione trovi ragione in un leggero smottamento del costone sul versante orografico sinistro del Rio Popena, che ha cancellato il sentiero, a pochi minuti dall’imbocco del medesimo. Si procede comunque agevolmente, senza particolare difficoltà e pericolo, sulla stabile ghiaia della frana, per pochi metri, sino a riguadagnare l’evidente traccia del sentiero. Il sentiero continua ora dentro il greto ghiaioso del Rio Popena (fig. 1) fino a rimontare in leggera salita sul versante orografico sinistro, staccandosi così dal torrente.
fig. 1 Il sentiero procede dentro le ghiaie del Rio Popéna.
Qui la deviazione non è evidente, tant’è che ci siamo trovati in un’amena radura prativa, circa una cinquantina di metri oltre il bivio (fig. 2).
fig. 2 Il sentiero 222 è più a O, sulla destra.
Ritrovato il sentiero, prendendo gradualmente quota, si apre un magnifico panorama sulla Val Popena Alta (fig. 3) e, di lì a breve, si arriva all’innesto del sentiero 222a, che inizia la risalita in direzione O.
fig. 3 La Val Popena Alta, sormontata dal Corno d’Angolo e dai Campanili di Popena.
Si giunge quindi ad un bivio, dove una freccia sull’erba allestita con dei sassi ci indica di tenere la sinistra, procedendo sul sentiero più basso (fig. 4). Mantenendo sulla sinistra il Campanile di Val Popena Alta, il sentiero 222a conduce, risalendo con ampi tornanti (fig. 5), alla Val de le Barache, valle adibita durante la prima guerra mondiale a postazione di baracche e teleferiche che salivano alla sovrastante Forcella Michele, meta della nostra odierna salita (fig. 6 e 7).
fig. 4 Alla biforcazione, tenere la sinistra.fig. 5 Le Pale di Misurina e la Val Popéna Alta.fig. 6 La Val de le Barache. Sul profilo di cresta della dorsale di Popena, a sinistra, si distingue l’intaglio di separazione dal monte Cristallino, più a destra. In corrispondenza di tale intaglio v’è Forcella Michele.fig. 7 La Val de le Barache, sovrastata dai Campanili di Popena.
Giunti ai piedi delle pareti del Cristallino, si trova una recentissima via ferrata che consente di evitare la salita all’interno del canalone detritico (salita precedentemente utilizzata per guadagnare quota). La ferrata si rivela estremamente piacevole, con semplici passaggi aerei sempre però su roccia ben solida e pulita, senza mai trovarci in esposizione (fig. 8, 9, 9a, 9b).
fig. 8 I primi metri della ferrata sul sentiero 222a.fig. 9fig. 9afig. 9b
Terminata la via ferrata, si traversa uno stabile ponte di legno nei pressi di un enorme chiodo di ferro utilizzato probabilmente durante la prima guerra mondiale per l’assicurazione e le calate di materiale (fig. 10). Si sale quindi a zig zag tra piccole cenge franose e canali detritici, sempre comunque senza alcuna esposizione, sino a giungere, intorno a quota 2630m, presso i resti di alcuni baraccamenti tra tronchi di larice, chiodi e filo spinato (fig. 11 e 12). Scriveva Antonio Berti:
«dal villaggio (ndr: Val delle Baracche) un ardito sentiero ricavato con sostegni, scavi, riporti di notevole impegno, risaliva a zig zag la parte superiore del valloncello per poi arrampicarsi sulle rocce del versante orientale del Cristallino fino a raggiungere la cresta meridionale del monte poco sopra Forcella Michele».
A. Berti, 1915-1917 Guerra in Ampezzo e Cadore, Mursia, 1992, pag. 116.
fig. 10 Paolo appeso al fittone infisso in parete.fig. 11fig. 12 Ultimi metri prima del baraccamento demolito. Forcella Michele è circa una quarantina di metri più a valle.
Dopo una breve pausa ristoratrice iniziamo la discesa verso Forcella Michele, avvalendoci di comode tracce e transitando nei pressi di due caverne scavate nella roccia durante le prima guerra mondiale. Forcella Michele è ora in vista. Per raggiungerla è necessario effettuare un breve traverso diagonale su terreno friabile (fig. 13) ed eccoci in forcella, a 2591m (fig. 14).
fig. 13 Il breve traverso in diagonale verso Forcella Michele.fig. 14 In sella a Forcella Michele! Lo sguardo è volto alla parete terminale della dorsale del Popena.
Ora inizia la parte più difficile 🙂 nonché l’incognita principale della nostra esplorazione. L’aspetto positivo è che il canalone che scende verso NO dalla Forcelle Michele non mostra una pendenza particolarmente sostenuta. Di contro, il terreno si rileva piuttosto insidioso, marcio e frammisto di grosse rocce franate dai ripidi pendii sovrastanti (fig. 15, 16, 16a). Non è quindi possibile ipotizzare una spensierata e fluida discesa su ghiaione… anche perché dopo una ventina di metri inizia la neve, che copre ancora tutto il canalone fino alla sua base! Procediamo, quindi, con particolare cautela, senza peraltro indossare i ramponi, visto che la neve non è poi così compatta (fig. 17 e 17a). Nel mentre, veniamo avvolti dalla nuvola ed inizia a piovere! L’ambiente è severo; sulle pareti del Cristallino scorgiamo postazioni di guerra sulle pendici del Cristallino e, nei primi metri di discesa, il ghiaione ci svela un caricatore di fucile, una pallottola e filo spinato in abbondanza. Presto detto: esattamente qui si trovava la linea del fronte italiano durante la prima guerra mondiale!
fig. 15 Il canalone che scende a NO di Forcella Michele.fig. 16 I primi metri di discesa da Forcella Michele verso NO, su terreno infido e cedevole.fig. 16afig. 17 Scendendo nel canalone NO da Forcella Michele, sul nevaio.fig. 17a
Ed ecco il primo ostacolo! Là dove la gola si restringe, la neve alla base si è sciolta, erosa dalle acque piovane convogliate dalle sovrastanti pareti. Ciò ha comportato che si sia venuto a creare un ben poco affidabile ponte di neve, con sotto un bel buco di oltre due metri. Giacomo scende in perlustrazione sotto il ponte di neve, per cercare un possibile passaggio, ma il salto diventa ancora più profondo e ci andremmo a complicare ulteriormente la vita (fig. 18). Non ci resta che scegliere la via più ripida e predisporre un ancoraggio per calarci per circa cinque metri al di là di un enorme masso squadrato (fig. 19). Osservandone le forme ben squadrate, suppongo trattasi verosimilmente di un masso franato da una delle sovrastanti cime che è rotolato fino ad incastrarsi nella gola. Sarei propenso a scommettere che Camillo Berti non ha rinvenuto tale “occlusione”, con conseguente salto a valle, nelle ricognizioni svolte negli anni ’80, altrimenti avrebbe classificato la via come non escursionisticamente percorribile.
fig. 18 Giacomo perlustra una possibile via sotto il ponte di neve.fig. 19 L’ancoraggio intorno al masso prima del salto di roccia.
Iniziamo quindi la calata. Apre il sottoscritto che, piuttosto che calarsi, si cimenta in un traverso lungo la parete marcia, pulendo detriti e ricavando appigli apparentemente affidabili (fig. 20). Segue Paolo e chiude Giacomo calandosi in corda doppia (fig. 21 e 22).
fig. 20 Aprendo il traverso per superare il salto di roccia.fig. 21 Paolo percorre il traverso diagonale.fig. 22 La calata in corda doppia di Giacomo.
Superato il salto di roccia, la discesa non presenta ulteriori ostacoli e si svolge agevole sino all’intersezione del canalone che scende da Forcella Cristallino (fig. 23 e 24), dove deviamo con decisione a destra, verso S, così tenendoci a ridosso delle pareti della dorsale del Popena, uscendo dal canalone innevato.
fig. 23 La discesa lungo il canalone innevato. fig. 24 All’uscita del canalone, nei pressi dell’intersezione con il canalone proveniente da Forcella Cristallino.fig. 25 Abbandonando il nevaio e dirigendosi a ridosso delle pareti del Popena.
Decidiamo di prendere come punto di riferimento una curiosa “porta” (fig. 26) che conduce ad un comodo e breve ghiaione (fig. 27), dal quale poi traversiamo un nevaio e, con facile discesa, approdiamo sull’antico terreno morenico del ghiacciaio di Popena.
fig. 26 Il caratteristico passaggio prima del ghiaione.fig. 27 Paolo si cimenta della discesa del ghiaione.fig. 28 L’arrivo sulla morena del ghiacciaio di Popena. In alto a sinistra, in rosso, il percorso seguito per scendere sulle morene del ghiacciaio provenendo dal canale NO di Forcella Michele.
IL GHIACCIAIO DI POPENA
Scriveva W. Eckerth nel 1886, esplorando il gruppo del Cristallo in compagnia della guida Michel Innerkofler:
«il ghiacciaio di Popena si trova ai piedi delle pareti Nord-occidentali della dorsale del Popena e si estende da una quota di 2600m fino a meno di 2500m. A seconda della stagione appare coperto di neve o da uno strato di ghiaia e può facilmente esser preso per un semplice circo di ghiaie e neve».
W. Eckerth, Il gruppo del Monte Cristallo, 1891, Ed. Cooperativa di Coortina, 1989, p. 163
Ulteriormente Eckerth sottolineava che «il ghiacciaio di Popena è tanto nascosto quanto impervio e quindi non deve far meraviglia che la sua esistenza sia quasi sconosciuta» (W. Eckerth, Id., p. 133). Effettivamente, salendo per la Val Fonda, non è possibile avere visione della conca glaciale superiore conchiusa ai piedi delle pareti N – NO del monte Popena. Sarà forse questo il motivo per cui, dagli anni ’30 agli anni ’60, i glaciologi non hanno rivolto approfondite attenzioni al ghiacciaio di Popena. Le ultime significative osservazioni prima di questo “vuoto” temporale, furono svolte dal glaciologo Celli, il quale, nell’agosto del 1933, rilevava che «la fronte glaciale arriva col suo lobo più avanzato, coperto da detriti, alla quota 2370 circa, presso un grosso masso (…)». (Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, vol. 14, 1934). Bisogna poi aspettare i primi anni ’60, per apprezzare una nuova e significativa manifestazione di interesse verso tale apparato glaciale. In particolare, con riferimento agli anni 1960-61, il glaciologo Piera Nicoli osservava che il ghiaccio di Popena era “in regresso”, con una superficie di 19 ettari ed un “innevamento frontale scarso” (Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, 1962). A distanza di venticinque anni, nell’agosto del 1986, il glaciologo Perini approfondiva ulteriormente il tenore delle osservazioni e rilevava che
«la crepacciatura è evidente solo sulla sinistra, a quota 2530, dove il ghiaccio aggira uno spuntone roccioso. La zona frontale è sempre sommersa da detriti morenici, che lasciano solo in parte intravvedere il ghiaccio». Riscontrava, inoltre, un «leggero ritiro frontale, anche se tutto l’apparato glaciale sembra stabile; non si notano archetti morenici frontali
Geografia Fisica e Dinamica Quaternaria, vol. 10, 1987
Nell’agosto dell’anno successivo, il Perini registrava quanto segue:
un leggero rigonfiamento evidenzia, quest’anno, nettamente la fronte; corpi di ghiaccio morto, staccatisi presumibilmente di recente, sono presenti nella parte destra frontale. I crepacci sono sempre ben evidenti sulla sinistra orografica, nella parte alta, alcuni profondi 8-9 metri.
GFDQ, vol. 11, 1988
Pochi anni dopo, nell’estate del 1991, il Perini osservava che «la situazione di questa ghiacciaio è di una certa stabilità, dovuta anche al riparo esercitato dalle alte pareti del Piz Popena». (GFDQ, vol. 15, 1992) e, nell’agosto del 1993, «sempre più massiccia la copertura detritica che maschera la zona frontale; al di sopra del grande accumulo morenico situato poco a monte, invece, il ghiaccio è abbastanza pulito».
fig. 29 Il ghiacciaio di Popena, fotografato dal glaciologo Perini nel 1994.
Successivamente, nell’agosto del 1995, Perini rilevava che
«è in aumento il detrito galleggiante; vistose sono alcune bedieres, con cospicua acqua di scorrimento. A monte del grande cono si è formato un laghetto di sbarramento morenico di 70-80 mq, su cui si immerge anche il ghiaccio».
GFDQ, vol. 19, 1996
Nell’agosto del 1996, il glaciologo constatava la diminuzione dello spessore del ghiacciaio, rilevando che «dal confronto fotografico con foto di 15 anni fa, impressionante è ora la notevole riduzione di spessore del ghiaccio, che è di parecchi metri» (GFDQ, vol. 20, 1997). Con la fine degli anni ’90, le misurazioni del ghiacciaio da parte dei glaciologi venivano interrotte, come anticipava il Perini in sede di visita nell’agosto del 1997:
«il detrito galleggiante ricopre ormai gran parte della superficie glaciale e una profonda bédière incide il ghiaccio dal settore centrale sino a quasi alla fronte. (…) Se la situazione di copertura detritica e di infossamento del corpo glaciale si accentueranno nei prossimi anni, sempre più difficilmente si potranno eseguire dei controlli significativi».
GFDQ, vol. 21, 1998
fig. 30 Effettivamente, alla vista, la foto aerea del 2007 non mostra alcuna traccia del ghiacciaio di Popéna, probabilmente interamente coperto dalle ghiaie (foto Regione Veneto-ARPAV, 2007).
Veniamo quindi alle osservazioni svolte in sede di sopralluogo, in data 18 luglio 2021. Avvicinandoci alla presunta fronte del ghiacciaio di Popena, rileviamo, innanzitutto, un considerevole arretramento della fronte rispetto alle misurazioni svolte nel 1933. In particolare, abbiamo identificato quel “grosso masso” individuato dal glaciologo Celli quale limite della fronte… masso che, sicuramente, non si è mosso di un centimetro in novant’anni! Si è invece sicuramente mossa la fronte del ghiacciaio di Popena, che risulta drasticamente arretrata. Difficile stabilire a che quota sia la fronte, considerato l’importante innevamento residuo e l’abbondante copertura di detrito. In merito, si segnala una recente e significativa frana dalle pareti del Popena, che ricopre la neve dell’ultima stagione invernale. (fig. 31).
fig. 31 La foto è scattata a quota 2370m, dal “grosso masso” individuato dal glaciologo Celli quale fronte del ghiacciaio di Popena nel 1933.
Si rileva, inoltre, l’estinzione del laghetto di sbarramento morenico riscontrato dal glaciologo Perini nell’agosto del 1995. Lo stesso laghetto, veniva ancora riportato nella carta Tabacco, edizione 2017. Non è invece più rilevato nelle ultime edizioni. Ritengo di poterne individuare la collocazione corretta, a quota 2300m circa, dove sorge una modesta depressione colma di neve velata di detrito finissimo. È probabile che, in occasione di importanti precipitazioni, questo avvallamento raccolga le acque di confluenza dell’intera conca glaciale del ghiacciaio di Popena (fig. 32). Inoltre, transitando presso i margini del laghetto estinto, si ode nitidamente il gorgoglio delle acque di fusione del ghiacciaio di Popena, che scorrono sotto la neve e si perdono nelle rocce per poi riemergere in Val Fonda. In questo avvallamento, dovrebbe anche confluire un ruscelletto che sorge intorno ai 2600m, sulle pareti poco sottoPunta Michele. Di sicuro, tuttavia, è scomparso il ghiaccio che si immergeva nel laghetto, come da rilevazione del glaciologo Perini nell’estate del 1994.
fig. 32 Là, dove fino a pochi anni fa sorgeva il laghetto di sbarramento morenico…
Considerato lo stato di persistente innevamento residuo, risulta impossibile svolgere ulteriori osservazioni sullo stato del ghiacciaio di Popena. Ciò che si può ipotizzare, anche sulla scorta delle osservazioni svolte dai glaciologi fino agli anni ’90, è che il ghiacciaio di Popena sia tutt’altro che estinto. Se è indubitabile, infatti, che lo spessore del ghiaccio sia drasticamente diminuito negli anni, comportando una significativa regressione della fronte, è altrettanto vero che le continue scariche dalle pareti circostanti hanno agito quale copertura della superficie glaciale. È infatti verosimile che il ghiacciaio di Popena sia ormai rivestito da un’alternanza di strati di detriti franosi, sui quali si deposita la neve stagionale, che a sua volta è stata coperta da detriti franosi nelle stagioni calde, per poi essere nuovamente sommersi dalla neve invernale, e così via. Non potendo svolgere ulteriori osservazioni, decidiamo, muovendo dal crinale più esterno della morena (fig. 33), di aggirare lo sperone di Popena, il più strettamente possibile (fig. 34), e recarci presso la fronte del ghiacciaio del Cristallo, per valutarne lo stato.
fig. 33 Sul margine più esterno della morena del ghiacciaio di Popena.fig. 34 La traiettoria tenuta per scendere il più possibile a ridosso dello sperone di Popena.
Dopo una faticosa risalita dei ripidi e antichi depositi morenici del ghiacciaio del Cristallo, giungiamo finalmente ai suoi piedi (fig. 35). Come per il ghiacciaio di Popena, siamo impossibilitati dallo svolgere le opportune osservazioni sullo stato del ghiacciaio del Cristallo, a causa del persistente innevamento residuo. Per mera curiosità, si osservi il confronto tra l’attuale innevamento, in data 19 luglio 2021, e la situazione riscontrata nell’agosto 2020 (fig. 36). La speranza è che le considerevoli precipitazioni nevose registrate nella stagione invernale 2021 siano tali da aver contribuito a preservare quanto è rimasto dei ghiacciai dolomitici (se non, addirittura, ad incrementarne leggermente la massa!).
fig. 35 il ghiacciaio del Cristallo.fig. 36 Il ghiacciaio del Cristallo nell’agosto 2020.
IL SUPERAMENTO DEL GRADONE ROCCIOSODELLA VAL FONDA
A questo punto, non ci resta che proseguire per l’ultimo obiettivo: trovare quell’antico sentiero (attrezzato?) che permette di superare il salto di roccia della Val Fonda, senza entrare nella gola con la cascata. A fine ottocento, Theodor Wundt scriveva che, risalendo la Val Fonda, il gradone
«è formato da pareti rocciose verticali, non facili da superare. Anche qui Michel (nda: Innerkofler) aveva raccomandato cautela. ‘Assicurati di trovare la via giusta, altrimenti puoi arrampicarti lì dentro tutto il giorno e non andare oltre».
Questo era il monito del grande alpinista Innerkofler all’epoca. Più recentemente, Camillo Berti scrive che «il passaggio si trova sulla sinistra idrografica ed è caratterizzato da un vecchio piolo di ferro contorto» (C. Berti, Id.). Fabio Cammelli, nella guida “Dolomiti – Monte Cristallo”, scrive che un tempo
«i salti di roccia sotto il circo glaciale superiore della Val Fonda venivano superati salendo a lato delle cascate con le quali l’acqua di fusione del ghiacciaio precipitava verso valle: si trattava di una breve ma non facile arrampicata su rocce sovente ricoperte da un sottile strato di ghiaccio».
Aggiunge Cammelli che nella primavera del 1885, il CAI Alpino Austro Tedesco
«fece sistemare un buon sentiero che dai pressi dell’imboccatura della Val Fonda s’innalzava lungo il fianco sinistro della valle (destra orografica) per poi proseguire a mezzacosta tenendosi alto sopra l’alveo del torrente. Giunti sotto il gradone roccioso (…), il sentiero si portava sull’opposta sponda grazie a una passerella formata da due tronchi, per poi salire alla base del salto roccioso soprastante, che a sua volta veniva superato grazie all’aiuto di una scala a pioli incastrata ad arte nella roccia».
F. Cammelli, Dolomiti – Monte Cristallo, 101% Vera Montagna, Ed. Paolo Beltrame, 2010, p. 92.
Prima dell’allestimento di simile struttura, nel 1862, Paul Grohmann scriveva
«per arrivare al passo (ndr: del Cristallo) bisogna attraversare il ghiacciaio, il cui accesso è all’estremità della Val Fonda lungo l’acqua che proviene dai nevai. Un tempo questo accesso era abbastanza curioso perché occorreva passare carponi attraverso un foro sotto la roccia; ma adesso, a quanto mi è stato detto, il foro è crollato e non esiste più».
Quanto sopra è confermato dallo stesso Eckerth, che nel 1891 scriveva
«Questi salti si superano con l’aiuto di una scala a pioli di legno incastrata con arte nella roccia. Prima che la scala fosse costituita, i salti di roccia si superavano salendo a lato delle cascatelle, un’arrampicata di più di un quarto d’ora a breve distanza dall’acqua spumeggiante, il che, nelle mattinate fredde, non era tra le cose più gradevoli».
Ciò premesso, Cammelli scrive che (perlomeno fino al 2010)
«presso l’imboccatura di un largo e ripido canale, si scorgono tre tronchi di legno posizionati orizzontalmente su piani sovrapposti (…). Il primo tronco di legno è situato circa tre metri più in alto rispetto alla base del canale: lo si raggiunge risalendo un corto ma ripido salto di rocce friabili (talora bagnate; I e II grado). Oltrepassato un secondo tronco, posto poco sopra il primo, si sale più facilmente sino a portarsi all’altezza di un terzo tronco incastrato: da qui non si prosegue più all’interno del canale bensì si continua a sinistra, verso l’esterno, per poi rientrare nella spaccatura lungo una breve e comoda cengetta rocciosa, che corre obliquamente da sinistra verso destra. Seguono due corti gradoni un po’ più ripidi e impegnativi (ma sempre ben appigliati; I e II grado; alcuni spit su cui eventualmente far sicurezza) che consentono di uscire dal canale e di raggiungere, alla propria sinistra, un piccolo pulpito roccioso. In breve, grazie anche all’aiuto di alcuni vecchi fittoni metallici, si superano le soprastanti facili roccette e si perviene al bordo superiore del gradone roccioso di sbarramento della Val Fonda».
F. Cammelli, Id., p. 198
Noi, nell’estate del 2020, non abbiamo trovato alla base del gradone roccioso alcuna traccia del presunto sentiero attrezzato, così come descritto dai sopra menzionati autori, né tantomeno alcuna evidenza dei tronchi citati dal Cammelli. Provenendo dalla conca glaciale superiore della Val Fonda, invece, riscontriamo effettivamente l’esistenza di una traccia di sentiero e qualche ometto, una ventina di metri a sinistra dell’intaglio con la cascata. La traccia interseca presto un non insignificante canale di sfogo di acqua e ghiaia che, nel tempo, hanno completamente eroso il margine superiore del salto di roccia, il quale appare come roccia viva levigata e coperta di detrito (fig. 37).
fig. 37 Le due possibili soluzioni per superare il salto di roccia.
Si superano un paio di gradoni e ci si trova sullo strapiombo. Da qui, in discesa verticale, si distinguono subito i tre/quattro grossi e vetusti fittoni con anello citati da Fabio Cammelli (un paio abbastanza mobili), entro i quali verosimilmente era assicurata una corda nei tempi che furono (forse installati proprio dal CAI Alpino Austro-Tedesco nell’intervento del 1885) (fig. 38). Organizziamo quindi una prima calata verticale, che ci permette di superare i due primi salti di roccia (fig. 39).
fig. 38 I chiodi della prima guerra mondiale.fig. 39 Paolo nella prima calata.
Completata la prima calata, si apre sotto di noi il profondo canale che fende la roccia in diagonale, entro cui, tuttavia, non rinveniamo alcuna traccia dei famosi tronchi descritti da Cammelli nella sua guida. Svolgiamo quindi la seconda calata. L’arrampicata si rivela abbastanza difficile poiché ogni appiglio trasuda acqua e si stacca. Tanto vale calarci di peso, anche per agevolare Giacomo che ci sta facendo sicura presso la sosta allestita sull’ultimo gradone di roccia prima dello strapiombo. Scendo io, poi Paolo (fig. 40) ed infine Giacomo (fig. 41).
fig. 40 Paolo si appresta ad iniziare l’ultima calata.fig. 41 Giacomo si cala in corda doppia.
A posteriori, resto nel dubbio se sia più conveniente percorrere la via appena svolta oppure la gola con la cascata, come fatto l’anno precedente in agosto. Probabilmente, in salita sceglierei la traccia odierna mentre in discesa ritengo più comodo e diretto scendere per la cascata, calandosi in doppia assicurati al robusto anello infisso nella roccia poco dopo l’ingresso nella gola. Da segnalare, inoltre, l’assenza di ometti o altro tipo di segnalazione volto a indicare l’imbocco del canale di risalita; o lo si conosce, oppure non lo si trova. Ad ogni modo, il salto della Val Fonda resta un ostacolo da affrontare sempre con le dovute cautele, poiché la roccia marcia ed il terreno bagnato riservano sempre qualche imprevisto. La foto scattata dall’amico Riccardo nei pressi di forcella Rauhfofel rappresenta esaustivamente le due possibili soluzioni di salita/discesa. In corrispondenza del cerchio rosso, è infisso il grosso e robusto anello nella roccia per assicurarsi (fig. 41a).
fig. 41a Le due possibili soluzioni di superamento del salto roccioso, viste da forcella Rauhkofel.
Ciò detto, abbandonata la frana ai piedi del salto roccioso, si ritrova il sentiero che traversa l’intera Val Fonda (fig. 42, 42a e 43).
fig. 42 Usciti dal canale nel gradone roccioso.fig. 42a La via seguita per calarci dal salto roccioso.fig. 43 La Val Fonda e, in fondo, il Lago di Landro.
Inizia ora una lunga discesa, camminando su terreno sempre instabile, lasciando alle spalle la cascata della Val Fonda (fig. 44) e guadando di volta in volta i vari rami del rio, scegliendo la strada che sembra più diretta e con il fondo di sassi meno grossi :-). Si procede fino a che, in corrispondenza del restringimento della gola della Val Fonda, si trova una vecchia traccia, che risale leggermente il costone tra frane e pini mughi, sul versante orografico destro del rio. Trattasi del già menzionato sentiero allestito dal CAI Alpino Austro-Tedesco nella primavera del 1885, che permette un incedere più rilassato e, soprattutto, consente un transito più sicuro in caso di pioggia, evitando di trovarsi nel bel mezzo del restringimento della gola sul greto del rio che ingrossa ricevendo le acque delle pareti circostanti e dell’intero circo glaciale del Cristallo/Popena.
fig. 44 La tipica cascata della Val Fonda.fig. 45 Sulla vecchia traccia che permette di superare il restringimento della gola della Val Fonda.fig. 46 Il tipico canyon all’imbocco della Val Fonda.fig. 47 L’imbocco della traccia “alta” per evitare di incedere all’interno del restringimento della gola. Se non lo si conosce, non lo si trova!fig. 48 Ultimi guadi del rio Fonda.
Si arriva, infine, al parcheggio di Ponte de la Marogna, 1470m, dove abbiamo la seconda macchina per rientrare al parcheggio presso il Ponte di Val Popena Alta.
Ecco il video completo dell’itinerario montato ad arte da Paolo!
Per ulteriori informazioni circa il descritto itinerario, e soprattutto per apprezzarne adeguatamente l’intensità e le emozioni, rimando alla lettura dell’affascinante relazione scritta dall’amico Paolo.
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA (a seconda dello stato di innevamento del ghiacciaio, possono essere necessari i ramponi) DURATA: 8/10h – DSL: 960m+
DATA: 18 aprile 2012
PREMESSE
Il c.d. “trekking dei tre passi” è una soluzione un po’ più avventurosa, lunga ed impegnativa rispetto al classico trekking che conduce da Lukla all’Everest Base Camp. Di fatto, il trekking implica un’importante deviazione, a partire da Namche Bazar e fino a ricongiungersi sulla via “principale” a Lobuche. Tale deviazione prevede l’attraversamento di due passi: il Renjo La (5360m) ed il Cho La (5420m). Il primo passo è relativamente facile. Il Cho La, invece, richiede un minimo di esperienza, atteso che prevede l’attraversamento di un ghiacciaio e che la salita da Tagnag si svolge su massi spesso instabili e ghiacciati. Si consideri, inoltre, che abbandonata Namche Bazar e presa la “deviazione” verso NO, fino a ricongiungersi a Lobuche, il numero di trekker si riduce esponenzialmente, fatta salva l’elevata frequentazione di Gokyo. Non è quindi scontato camminare più ore senza incontrare anima viva, specialmente nel tratto compreso tra Gokyo e Dzongla. In ultima, pare che negli ultimi anni l’attraverso del Cho La sia diventato leggermente più impegnativo per due ragioni: la prima, tecnica, poiché sembrerebbe che il ghiacciaio sia diventato di più difficile percorrenza (ma è risaputo che la situazione è di anno in anno estremamente mutevole, come per ogni ghiacciaio, a causa dello stato di innevamento); la seconda, psicologica, poiché aumentano le voci di persone disperse o morte nell’attraversamento del Cho La. Ciò premesso, a mio modesto parere, un alpinista mediamente esperto non dovrebbe riscontrare alcuna difficoltà tecnica nell’attraversamento del Cho La. Ritengo a proposito che la temibile aurea che il Cho La si è guadagnato negli anni sia prevalentemente dovuta alla sua frequentazione da parte di trekker non allenati o, comunque, privi della minima esperienza alpinistica. Trekker che, nel percorrere la via principale che conduce all’Everest Base Camp, si sono fatti tentare dal deviare, all’altezza di Khumjung, verso Gokyo e, lì giunti, piuttosto che scendere nuovamente a Khumjung, hanno ritenuto più agevole “tagliare” per il Cho La, fino a Lobuche.
DESCRIZIONE DELL’ITINERARIO
Dragnag (o Tagnag o Thagnak o Tarnak) è un minuscolo villaggio di quattro/cinque case, che sorge sul margine orientale del ghiacciaio Ngozumpa, a 4700m. Da qui, procedendo in direzione NE, si sale al Cho La. Per la prima (e fino ad oggi unica) volta nella mia vita, mi avvalgo fino al raggiungimento del Cho La di una guida/portatore. Tutti mi hanno consigliato in tal senso. “La via è difficile”, mi si dice. Inoltre, sono solo, ed il percorso è descritto come il più pericoloso del trekking dei tre passi. Ammetto che mi sento un po’ in colpa; ho sempre pensato che, ad eccezione delle spedizioni di mesi in autosufficienza, chi come me prevede di mangiare ogni sera presso un lodge debba portarsi il suo zaino sulle spalle fino alla fine. Tuttavia, sono intimorito. Non so cosa mi aspetta e preferisco seguire il consiglio del padrone della guest house dove alloggio a Tagnag. Il portatore è un ragazzino, avrà indicativamente 15/16 anni, e si presenta alle 5 di mattina, puntuale, al lodge. Insiste nel volere indossare subito il mio zaino, che supera i 18kg. Il mio senso di colpa, vista la sua giovane età, si acuisce, e decido di dargli solo il mio zainetto da trail running con 2/3kg di materiale, tenendomi in groppa il pesante zaino. Leggo nei suoi occhi il disappunto ma rifiuto fermamente i suoi ripetuti gesti per prendersi lo zaino, spiegandogli che mi serve una guida, non un portatore. Ci incamminiamo che è ancora buio ed il suolo è gelato ma, in breve, spunta dalle vette in fronte a noi un sole spettacolare. La giornata sembra ideale per la missione che ci attende.
fig. 1. Il magnifico cielo terso alle nostre spalle e le vette di sfondo: la più alta, sulla destra, è il Kyajori, 6153m.fig. 2. Il valico del Cho La, 5420m, appare ora ben visibile.fig. 3. La mia guida, ed il panorama verso N, con vista sul Kangchung, 6067m ed in lontananza (più a destra) l’Hungchi, 7036m, al confine tra Nepal e Cina.
Traversata una breve vallata con modesti saliscendi, chiamata Nimagurogoth, si giunge ai piedi della ripida salita che conduce al Cho La. La progressione non è semplice: i massi sono infatti spesso mobili e coperti da una sottile spolverata di neve caduta durante la notte. Verso i 5200m, il mio giovane amico vede il mio fiatone ed insiste nuovamente per prendere lo zaino. Questa volta cedo alla tentazione e facciamo scambio: io mi prendo il minuscolo zaino da trail running e lui indossa il pesante zainone da trekking.
fig. 4. Si sale a fatica tra grandi massi instabili. fig. 5. Verso N, le nuvole si modellano, velocissime, alle spalle del Kangchung, 6067m. Verso O (a sinistra), si erge il Cholo, 6040m.fig. 6. Guardando a valle, si intuisce la difficoltà della salita a causa del terreno continuamente cedevole.fig. 7. A quota 5400, il passo Cho La è ormai a portata di mano.
Finalmente, dopo non poca fatica e con il cuore a mille, il passo è conquistato! Il mio giovane amico non sembra provato dalla salita. Si toglie lo zaino, lo pago, ci salutiamo cordialmente e torna subito a valle, dove un nuovo gruppo di escursionisti probabilmente lo sta attendendo per affrontare la medesima salita. Ammetto che il suo aiuto è stato determinante. Sia per l’orientamento (scegliere la migliore via nella salita al Cho La non è proprio così scontato) sia per avermi tolto quei 18 fastidiosi kg dalle spalle.
fig. 8. Cho La, 5420m. Sullo sfondo, da sinistra a destra: Kathang, 6776m; Numbur, 6858m; Thyangmoch, 6446m; Panyio Tapa, 6604m; Kyajori, 6153m; Macchermo Peak, 6042m.Fig. 9. Autoscatto sul passo!
Riposato, riprendo il cammino. La via è abbastanza evidente: si tratta di attraversare il ghiacciaio del Cho La in direzione E, in leggera discesa. La traccia sul ghiacciaio è percorsa già da alcuni portatori. Alcune guide parlano di crepacci ma non dovrebbero esserci ostacoli di sorta lungo la traccia ripetutamente calpestata dagli sherpa.
fig. 10. Il ghiacciaio che si estende a E del Cho La.fig. 11. Portatori sul ghiacciaio del Cho La.fig. 12. Particolare della maestosa seraccata a N del ghiacciaio del Cho La. Sullo sfondo, la bianca vetta del Nirekha, 6153m.fig. 13. Si distingue chiaramente lo spessore del ghiaccio vivo del margine S del ghiacciaio.
L’attraversamento del ghiacciaio è agevole. La neve caduta la notte è un po’ marcia ma, sotto, la traccia è ben compatta. Incrocio alcuni sherpa e non posso non sentirmi insignificante rispetto allo sforzo che questi compiono. Alcuni non portano gli occhiali, e si riparano gli occhi dal riverbero accecante con le mani. Alcuni indossano scarpe da ginnastica. Quanto al peso che portano in spalla, non saprei quantificarlo, ma sicuramente arriva ad essere almeno il triplo dei miei miseri 18kg. Questi sono i veri protagonisti dell’Himalaya.
fig. 14. Sherpa sul ghiacciaio Cho La.
Superata agevolmente la fronte del ghiacciaio, il sentiero devia ora verso SE, costeggiando ripidamente la parete rocciosa. Il panorama che si apre è magnifico: l’Ama Dablam, 6812m, domina il paesaggio in fronte a me, svettando tra le vette himalayane.
fig. 15. Ama Dablam, 6812m.fig. 16. In direzione S, il maestoso Arakam Tse, 6372.
Di lì a breve si giunge al minuscolo villaggio di Dzongla camminando su terreno prativo, da cui è poi possibile proseguire poi fino a Lobuche.
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: E (con un paio di tratti leggermente esposti dove procedere con cautela). DURATA: 4h – DISTANZA: 11,5km – DSL: 963m+
DATA: 30 novembre 2020
PREMESSE
Le alture che sovrastano l’abitato di Cison di Valmarino offrono originali spunti per allenarsi e mettersi alla prova su terreni selvaggi e impervi, allorquando le Dolomiti risultano troppo distanti o, come in questi giorni, inagibili per neve. L’ispirazione, nel caso di specie, viene dallo scrittore e divulgatore Giovanni Carraro, che ha descritto il percorso in esame nel libro “I sentieri nascosti delle Prealpi trevigiane”, 2013. Il compagno di avventure, per un’escursione simile, non può che essere il forte e fidato amico Paolo.
RELAZIONE DELL’ITINERARIO
Parcheggiata l’auto nell’ampio prato subito a N del frutteto retrostante la Chiesa di Cison di Valmarino, si imbocca la strada sterrata che costeggia un vecchio casolare, color rosso mattone, che reca la scritta “Casa Frozza”. La strada devia leggermente a destra e, nei pressi di un campo da calcio, inizia il sentiero, che costeggia la recinzione dell’impianto sportivo. Il sentiero sale quindi leggermente, fino ad incrociare la strada asfaltata che conduce a Castelbrando. Qui è necessario scendere sulla strada per una ventina di metri, fino alla sbarra, dove il sentiero ricomincia, sotto forma di strada bianca, sulla sinistra. Giunti ad intravedere un’abitazione, in località Pra de Favero, si abbandona la sterrata principale e si compie un curva a gomito, in direzione SO. Si entra quindi nel bosco e si procede per breve tratto, sino ad incrociare il cartello segnavia, a quota 460m, per “Mezza Luna e Bombarde”, che risale in direzione NO sino al crinale collinare, dove si incontrano i resti in pietra ad uso di un probabile focolare.
fig. 1 I resti in pietra sulla selletta.
Si procede ora in direzione N, risalendo continuamente il crinale e traversando un’area chiamata “Le Bombarde”, intravedendo di tanto in tanto le mura perimetrali di antiche fortificazioni, probabilmente riutilizzate nel corso della prima guerra mondiale. Giunti ad un bivio indicato da un cartello “Prese Deserte Cima Farega – Villa Mary”, teniamo la sinistra, verso le Prese Deserte. La traccia si svolge ora in ambiente aperto e panoramico, dapprima sul versante occidentale della collina, poi camminando in cresta e superando sporadiche facili roccette, fino a giungere in cima al Monte Castelàz (Crodon de Corradin), 705m.
fig. 2 Risalendo il versante occidentale del crinale.fig. 3 Facili passaggi tra roccette.fig. 4
Si cammina ora in cresta, sempre agevolmente, con ripetuti saliscendi, traversando le c.d. Prese Deserte.
fig. 5 Il saliscendi sulle Prese Deserte.
La traccia, quindi, giunge ai piedi del Crodon de Farega, dove si inerpica con ripida salita sul versante occidentale del pendio, fino a guadagnarne la cima, a 905m, dove troviamo un piccolo boschetto di betulle.
fig. 6 Salita del Crodon de Farega. fig. 7 Vista panoramica dal Crodon de Farega su Cison di Valmarino.fig. 8 Utilizzando il magico bastone telescopico invisibile da selfie di Paolo.
Dalla cima del Crodon de Farega, la traccia procede verso N, fino a trovare un cartello che segna la direzione della Val del Diavol.
fig. 9
Un passaggio che richiede un minimo di cautela, aiutandosi con le mani, ci permette di affrontare una brevissima e ripida diagonale in discesa. Il passaggio è peraltro privo di insidie o pericoli, essendo assistito da una corda fissa.
fig. 10 L’inizio della ripida diagonale erbosa.fig. 11 Paolo si accinge a superare il piccolo salto sulla diagonale.
Seguono un paio di passaggi in cresta su facili roccette.
fig. 11 Superamento con facile arrampicata di un saliscendi in cresta.
A questo punto, è opportuno prestare attenzione: la traccia corretta non prosegue con linea diritta sulla cresta (nonostante vi siano deboli tracce che seguono questa traiettoria), ma scende di pochi metri di altitudine tagliando il versante occidentale della cresta, traversando il bosco. Un paio di bolli rossi sono visibili sui tronchi degli alberi. Al diradarsi del bosco, la traccia procede traversando un ripido pendio parzialmente roccioso, con leggera esposizione, fino a scendere, con un minimo di cautela, alla forcella del Diavol.
fig. 12 Poco prima della forcella del Diavol.fig. 13 Procedendo con un minimo di cautela.fig. 13 Ultimo tratto esposto prima della forcella del Diavol.fig. 14 Paolo in discesa alla forcella del Diavol.
La forcella del Diavol è una piccola forcella erbosa che separa la Val Farega, a O, dalla Val del Diavol a E, e sul cui margine N si erge ripido il Monte Schiaffet. Noi scegliamo di scendere attraverso l’impervia Val del Diavol, lungo una traccia che, dapprima ripidamente, poi più dolcemente, finisce per intersecare il sentiero segnato del Pissol.
fig. 14 Lungo la traccia che scende attraverso la Val del Diavol.fig. 15
La discesa non presenta difficoltà rilevanti. Il terreno è tuttavia poco compatto e cedevole, ragion per cui è opportuno prestare in alcuni tratti attenzione. Poco sopra l’innesto con il sentiero del Pissol, inoltre, il sentiero traversa l’apice di uno strapiombo verticale; è qui opportuno muoversi con cautela poiché un eventuale inciampo sarebbe fatale.
fig. 16 Pochi metri a valle dello strapiombo sul cui apice passa la traccia in discesa. Sullo sfondo, la forcella del Diavol.
Intersecato il sentiero del Pissol, si giunge in breve all’omonima cascatella.
fig. 17 Cascata del Pissol.
Dalla cascata del Pissol, anziché scendere a valle sino al parcheggio, che già si intravede, si devia a destra, direzione S, seguendo le indicazioni per San Gaetano. Il sentiero procede, ben evidente, con leggeri saliscendi, fino a giungere al capitello di San Gaetano.
fig. 18 Il capitello di San Gaetano.
Dopo una breve sosta, si riparte ripercorrendo per poche decine di metri i propri passi, sino a giungere al bivio dove si mantiene la destra. Ora il sentiero si svolge con leggera salita lungo il costone della collina, traversando il c.d. Agron di Ciae. Cautela lungo un’ampia cengia con strapiombo.
fig. 19 Percorrendo l’ampia cengia.fig. 20 Al termine dell’ampia cengia nell’Agron de Ciae.
Si giunge infine ad un bivio che conduce allo stesso luogo, nei pressi di un rudere sopra i prati di località Al Maso. Noi abbiamo scelto la via di destra, che pare essere leggermente più breve. Si tagliano quindi i prati e si giunge in località Ortesei e, seguendo la strada asfaltata, si arriva in pochi minuti al parcheggio dove si è lasciata l’auto.
Per avere qualche ulteriore spunto, ecco la relazione dell’itinerario scritta da Paolo e la rappresentazione virtuale dell’itinerario su mappa!
DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: E DURATA: 3,30h (1,30h per giungere in Ra Montejela) – DISTANZA: 7,25km – DSL: 693m+
DATA: 19 ottobre 2020
PREMESSE
Il gruppo della Croda Rossa continua ad esercitare su di me un’attrazione come mai, in precedenza, altre montagne. Comincio ora a cogliere il significato profondo di quelle frasi, pronunciate dai grandi alpinisti del passato, che restarono “stregati” e “catturati” dal fascino della Croda Rossa. Non sono parole proferite a caso. Uno tra tutti, Marino Dall’Oglio, mancato ottantanovenne nel 2013, ha dedicato la sua vita all’esplorazione di tale gruppo montuoso. Quanto a me, il potere attrattivo della Croda Rossa è ascrivibile a molteplici fattori. Sarà che è un gruppo montuoso selvaggio e, tendenzialmente, poco frequentato, complice il fatto che pochi sono i sentieri “ufficiali” che lo traversano. La causa, verosimilmente, sta nel fatto che la Croda Rossa, per via della sua roccia friabile o, come si usa dire, “marcia”, non è meta particolarmente ambita per chi pratica l’arrampicata. Sarà, poi, per via della sua conformazione geologica, che io sono solito definire, informalmente, “dolce”. Spesso, le Dolomiti vedono sorgere le proprie imponenti pareti da ripidi declivi boschivi o ghiaiosi. Nel caso della Croda Rossa, invece, alla base delle pareti rocciose si possono talvolta trovare verdi pascoli e amene radure prative in falsopiano (penso a Lerósa), magari costellate di graziosi laghetti alpini (penso all’Alpe di Fosés). Il tutto condito da una fauna che regna indisturbata, grazie alla rara frequentazione del comune escursionista che non ama – per fortuna – uscire dagli ufficiali sentieri tracciati, e da una flora unica; in merito, non può non suscitare profonda emozione camminare tra pini cembri antichi fino a cinque secoli e più. Infine, ai più sensibili, non potrà sfuggire che proprio in una grotta tra queste recondite pareti la predestinata principessa Moltina dell’epica Saga dei Fanes fu allevata e cresciuta dall’anziana Anguana… Tutto questo è la Croda Rossa: un gruppo montuoso che cela tra le proprie colorate vette ampie e remote valli. Quest’estate, mi sono cimentato nell’esplorazione del Valon de Colfiédo, di Valbónes e Valbónes de Inze, e della Val de Gòtres. Oggi sono andato alla scoperta di una nuova valle: Ra Montejèla, nota anche come Val Montesela, un ampio vallone compreso tra le pareti di Ra Geralbes e la Pala de Ra Fedes. Una curiosità etimologica: nonostante Paul Grohmann la chiamasse nel 1862 “Val Monticello”, interpretandone erroneamente il nome, il termine Montejèla (o Muntejèla, in badiotto) significa, invece, “piccolo pascolo” (nella lingua ladina infatti, “mónt”, sostantivo femminile, significa “pascolo alpestre”).
RELAZIONEDELL’ITINERARIO
Abbandonata l’auto presso il parcheggio del Rifugio Malga Ra Stua, 1695m, si procede per poche decine di metri lungo il sentiero n. 6, fino a superare l’innesto della mulattiera militare che conduce, con sentiero n. 8, a Forcella Lerósa. Si lascia quindi il sentiero n. 6 e si devia sui prati a monte del medesimo, individuando, in direzione NO, una nitida traccia che solca un piccolo dosso erboso, ai margini del bosco. In prossimità della traccia, si individua anche agevolmente un picchetto di legno con segnavia rosso, infisso a terra. Si entra nel bosco e si procede verso NO, mantenendo, per un centinaio di metri, una traiettoria tendenzialmente parallela al sentiero n. 6, più a valle. Prima di incontrare il Ru de re Cuódes (dall’ampezzano: “rio delle cuódes”, le pietre che si utilizzavano per affilare la lama delle falci), il cui suono d’acque già ci accompagna, nei pressi di una piccola radura erbosa, si inizia a salire in direzione E-SE, perdendo ogni riferimento di traccia.
fig. 1 Inoltrandosi nel bosco.
Si prende quindi leggermente quota, procedendo lungo una linea di crinale che, tra antichi pini cembri ed alti abeti, conduce ad un’ampia radura prativa. La si traversa, mirando ora verso N – NE, fino a trovare, dopo i primi passi nel bosco, una chiara traccia che scende fino a intersecare le prime acque sorgive del Ru de re Cuódes.
fig. 2 La traccia che scende verso il Ru de re Cuódes.
Si accede quindi al rio, non senza qualche fatica, superando tronchi d’alberi schiantati, e lo si guada agevolmente procedendo su traccia verso N.
fig. 3 Superando le deboli acque del Ru de re Cuódes.
La traccia diventa ora larga e ben definita, quasi fosse una mulattiera e, superato un antichissimo pino cembro monumentale, piega leggermente verso NE, sino a condurre al Pian de Socroda (dall’ampezzano: “il pianoro sotto la montagna”, dove si allude evidentemente alla Croda Rossa), 1910m.
fig. 4 Una scultura che avrà, verosimilmente, oltre cinquecento anni.fig. 5 Pian de Socroda e, dietro, la Pala de ra Fedes
Si traversa ora il Pian de Socroda in direzione NE, per giungere alle prime lingue di frana che iniziano ad invaderne il margine superiore. Qui si intravedono alcuni ometti che indicano la via da seguire, camminando sul letto della frana.
fig. 6 Il letto scavato della frana.
Pochi metri e, sulla sinistra, due ometti indicano con precisione chirurgica la “porta” da varcare, abbandonando la frana ed immettendosi in una fitta macchia di pini mughi, in direzione N: è il c.d. sentiero “0”, oggi ufficialmente chiuso, che metteva in comunicazione Lerósa con il sentiero n. 26, nei pressi della Crosc del Grisc.
fig. 7 Il varco entro cui svoltare sulla sinistra.
A questo punto, dopo aver salito per alcune decine di metri l’evidente traccia del sentiero “0”, è necessario abbandonarlo svoltando con decisione a destra, direzione NE. Il punto di svolta non è indicato e la traccia non è visibile. La soluzione più “comoda” implica di arrivare pressoché ai piedi di Ra Geralbes o Ra Jeràlbes (combinazione dall’ampezzano jèra “ghiaia” e dal latino albus “bianco”, stante a significare “la montagna dalle ghiaie bianche”), per poi deviare sulla destra costeggiando la parete. In alternativa e con via un pochino più audace, è possibile traversare direttamente il ripido pendio prativo più a valle della parete di Ra Geralbes.
fig. 8 In rosso, la traiettoria che ho preferito tenere. Non è il percorso più ortodosso né, tantomeno, il più semplice ma è stato divertente 🙂
Con un po’ di cautela, si traversa quindi il ripido declivio erboso, acquistando altitudine, fino a portarsi alla base di un salto roccioso alto un paio di metri. Invece di superarlo con facilissima arrampicata, ho preferito procedere alla sua base, salendo gradualmente verso destra sino ad incontrarne la fine e rimontarlo senza fatica alcuna. A questo punto, mi convinco che la corretta via debba effettivamente trovarsi sopra il piccolo salto roccioso. Tanto meglio: un’avventura alpina senza un pizzico di “ravanage” non è un’avventura!
fig. 9 La traiettoria, non proprio comodissima, da me scelta. Ritengo sia più saggio risalire la traccia per qualche decina di metri e tagliare il pendio più a monte…fig. 10 Io sono salito per questa stretta e piccola conca prativa ma, per raggiungere la Madonna della Solitudine, ci si può portare più sotto alla parete di Ra Geralbes evitando questo passaggio.
Ci si trova ora, ai piedi della parete di Ra Geralbes, in una piccola conca, chiamata “Madonna della Solitudine”, con riferimento ad una statuetta votiva ivi collocata. Esplorando la piccola conca, sulla parete più interna di Ra Geralbes, è possibile individuare la vecchia scritta con freccia “Stua”, segno che, nei tempi che furono, ci doveva essere una qualche traccia che scendeva dal crinale prativo sovrastante la conca (ed infatti, salendolo in ricognizione, si notano i segni di un vecchio sentiero sull’erba). Dalla Madonna della Solitudine si risale il declivio coperto di sassi instabili per ritrovare una nitida traccia che conduce a Ra Montejela.
fig. 11 Le ghiaie di Ra Geralbes, poco dopo la “Madonna della Solitudine”.fig. 12 La salita tra massi instabili.fig. 13 L’evidente traccia che conduce a Ra Montejela.
È trascorsa poco meno di un’ora e mezza, con una distanza coperta di 3km, ed eccomi alle porte di Ra Montejela, una magica e remota valle racchiusa tra le colorate pareti S di Ra Geralbes e le innevate pareti N della Pala di Ra Fedes. L’ambiente è magico, il panorama indescrivibile, la giornata meravigliosa. Chi visita questa paradisiaca valle desolata? Nessuno! Una volta, sorgeva un bivacco: il bivacco fisso Pia Helbig Dall’Oglio, moglie del compianto Marino Dall’Oglio, inaugurato il 19 settembre 1965. Doveva servire da ricovero per gli alpinisti desiderosi di raggiungere la vetta della Croda Rossa. Purtroppo, il bivacco divenne meta di qualche screanzato e, negli anni degradò a discarica. Fu quindi smantellato nel 2013, anno della morte del suo fautore, Marino Dall’Oglio. La demolizione del bivacco, combinata con la chiusura ufficiale del sentiero “0”, han certo ridotto drasticamente l’afflusso di escursionisti a Ra Montejela. Inoltre, la valle appare priva di agevoli forcelle che permettano di valicarne le pareti di contorno. Il solo valico ipotizzabile è costituito dalla Forcella Nord, che offre accesso al Cadin del Ghiacciaio. La Forcella Nord, ora innevata, appare tuttavia particolarmente ripida per una salita estiva (soprattutto, temo sia martoriata dalle scariche!!) e, per quanto ne so, ancora più ripido è l’opposto versante, al punto che dovrebbe essere necessario effettuare delle calate per discendere. Diventa sicuramente più appetibile per chi pratica lo sci alpinismo ovvero per chi intende scalare la via Grohmann. Sulla scorta di tali fattori, Ra Montejela è effettivamente un luogo selvaggio e deserto, per chi cerca, come il sottoscritto, una giornata di assoluto silenzio e contemplazione della natura.
fig. 14 L’acceso a Ra Montejela.fig. 14 La parete S di Ra Geralbes.fig. 15 Panoramica su Ra Montejela, dalla parete N della Pala de ra Fedes alla parete S de Ra Geralbes.fig. 16 Vista sulle Tofane.
Addentrandosi nella valle, si procede, dapprima, con continuo saliscendi per piccole conche prative; trattasi delle increspature frontali della colata di un antico rock glacier, probabilmente d’epoca Tardiglaciale (10.000 anni fa), ormai immoto e coperto di uno strato erboso. Superata l’antica fronte del rock glacier estinto, si accede alla sezione centrale della valle, più rocciosa, costellata di tanto in tanto da isolate macchie di pini mughi.
fig. 17 La prima parte della valle, caratterizzata da piccoli dossi erbosi.fig. 18 Il masarè nella parte centrale della valle. fig. 18 La ripida Forcella Nord.fig. 19 Dettaglio della Forcella Nord e antecima della Croda Rossa.fig. 20 L’elegante camoscio che mi ha cortesemente fatto compagnia per tutta la durata della mia permanenza in Ra Montejela.
Giunto al limite di Ra Montejela, i pendii iniziano a salire. È il momento di tornare; il tiepido sole ottobrino, grazie alla rifrazione del manto nevoso, mi scalda piacevolmente e procedo in maniche corte, con vista panoramica sul Lavinores, 2411m, e sulla Croda de Antruiles, 2405m… una condizione di benessere unica ed esaltante, in perfetta sintonia con la natura, osservato costantemente da un vigile camoscio, padrone della valle, a poche centinaia di metri.
fig. 21 Ripercorrendo la valle, verso il suo imbocco.
Giunto alla soglia di Ra Montejela, vi sono due possibilità di rientro. La prima, chiaramente, è ritornare sui propri passi, scendendo per la “Madonna della Solitudine”. Per mia natura, però, sarei un tipo da giri ad anello. Opto quindi per la seconda possibilità: scendere traversando le ghiaie della Pala de ra Fedes, mirando a Lerósa. Confesso che non era nei piani, memore anche di aver letto sulla guida Camillo Berti del 1991 la seguente considerazione: “non lasciarsi indurre ad abbreviare la prima parte del percorso traversando direttamente verso S dal bivacco Pia Helbig Dall’Oglio: l’attraversamento della colorata frana è inutilmente faticoso e pericoloso“. Di diverso avviso, invece, era Paolo Beltrame che, nella guida “Dolomiti. Croda Rossa D’Ampezzo – 101% vera montagna”, 2008, descrive il sentiero che supera lo spigolo di ingresso a Ra Montejela (nel mio caso, la via di uscita dalla valle) come “evanescente a causa del terreno franoso (disagevole ma per niente pericoloso)” e la traccia che traversa poi il ghiaione come “evidente quando scorre su ghiaie mentre tende a scomparire quando attraversa tratti di sassi più grossi; in questo caso fanno da segnavia gli ometti costruiti sul posto“. Faccio quindi una timida ricognizione ai margini della frana e, non scorgendo passaggi particolarmente ostici, mi sento di sposare l’interpretazione del Beltrame. Inoltre, il pensiero di scendere, là dove sono salito, per il ripido pendio erboso, mi convince senza dubbio a preferire la traversata del ghiaione! Tale convinzione è prontamente consolidata dalla vista di una tenue traccia che incide debolmente la frana.
fig. 22 Il ghiaione da traversare e la meta: i prati di Lerósa.fig. 23 Sceso un breve tratto erboso, ai margini della frana, si intravede la traccia.fig. 24 La traccia diventa sempre più nitida.
Si taglia procedendo su cedevoli ghiaie, ma sempre con una pendenza poco sostenuta, tale da permettere un incedere sicuro e mai troppo faticoso, fino addirittura a trovare diversi ometti che indicano la via!
fig. 25 I primi ometti!
Il gioco sembra fatto quando ci si trova di fronte una sorpresina, già visibile dai margini di Ra Montejela: l’acqua ha eroso il ghiaione scavando una tipica V che interrompe bruscamente la traccia! Nessun problema: vorrà dire che scenderò lungo il canale scavato, tenendomi sul bordo orografico destro, fino a che i margini diminuiranno di altezza e sarà semplice attraversarlo. Seguirò poi l’estrema lingua della frana per attraversare i mughi e spuntare in un’amena radura di Tremonti, semipaludosa, che già ho avuto modo di visitare in passato. Alternativamente, volendo scegliere una soluzione più comoda, è possibile abbandonare la discesa sulla lingua franosa spostandosi più a sinistra, individuando nella linea di baranci un varco, su evidente traccia.
fig. 26 Il ghiaione eroso interrompe la traccia.fig. 27 Ecco il percorso che ho scelto!fig. 28 Ed ecco il percorso completo di discesa da Ra Montejela.
Giunti alla radura, si prosegue in direzione S, traversando un rio (oggi asciutto), fino ad intravedere il Casón di Leròsa, dove mi aspetta una deliziosa fonte di acqua sorgiva.
fig. 29 Poco prima del guado, mirando la Croda de R’Ancona, 2366m.fig. 30 Prossimi al Casòn di Leròsa.