Esplorando Ra Montejela

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: E
DURATA: 3,30h (1,30h per giungere in Ra Montejela) – DISTANZA: 7,25km – DSL: 693m+

DATA: 19 ottobre 2020

PREMESSE

Il gruppo della Croda Rossa continua ad esercitare su di me un’attrazione come mai, in precedenza, altre montagne. Comincio ora a cogliere il significato profondo di quelle frasi, pronunciate dai grandi alpinisti del passato, che restarono “stregati” e “catturati” dal fascino della Croda Rossa. Non sono parole proferite a caso. Uno tra tutti, Marino Dall’Oglio, mancato ottantanovenne nel 2013, ha dedicato la sua vita all’esplorazione di tale gruppo montuoso. Quanto a me, il potere attrattivo della Croda Rossa è ascrivibile a molteplici fattori. Sarà che è un gruppo montuoso selvaggio e, tendenzialmente, poco frequentato, complice il fatto che pochi sono i sentieri “ufficiali” che lo traversano. La causa, verosimilmente, sta nel fatto che la Croda Rossa, per via della sua roccia friabile o, come si usa dire, “marcia”, non è meta particolarmente ambita per chi pratica l’arrampicata. Sarà, poi, per via della sua conformazione geologica, che io sono solito definire, informalmente, “dolce”. Spesso, le Dolomiti vedono sorgere le proprie imponenti pareti da ripidi declivi boschivi o ghiaiosi. Nel caso della Croda Rossa, invece, alla base delle pareti rocciose si possono talvolta trovare verdi pascoli e amene radure prative in falsopiano (penso a Lerósa), magari costellate di graziosi laghetti alpini (penso all’Alpe di Fosés). Il tutto condito da una fauna che regna indisturbata, grazie alla rara frequentazione del comune escursionista che non ama – per fortuna – uscire dagli ufficiali sentieri tracciati, e da una flora unica; in merito, non può non suscitare profonda emozione camminare tra pini cembri antichi fino a cinque secoli e più. Infine, ai più sensibili, non potrà sfuggire che proprio in una grotta tra queste recondite pareti la predestinata principessa Moltina dell’epica Saga dei Fanes fu allevata e cresciuta dall’anziana Anguana… Tutto questo è la Croda Rossa: un gruppo montuoso che cela tra le proprie colorate vette ampie e remote valli. Quest’estate, mi sono cimentato nell’esplorazione del Valon de Colfiédo, di Valbónes e Valbónes de Inze, e della Val de Gòtres. Oggi sono andato alla scoperta di una nuova valle: Ra Montejèla, nota anche come Val Montesela, un ampio vallone compreso tra le pareti di Ra Geralbes e la Pala de Ra Fedes. Una curiosità etimologica: nonostante Paul Grohmann la chiamasse nel 1862 “Val Monticello”, interpretandone erroneamente il nome, il termine Montejèla (o Muntejèla, in badiotto) significa, invece, “piccolo pascolo” (nella lingua ladina infatti, “mónt”, sostantivo femminile, significa “pascolo alpestre”).

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Abbandonata l’auto presso il parcheggio del Rifugio Malga Ra Stua, 1695m, si procede per poche decine di metri lungo il sentiero n. 6, fino a superare l’innesto della mulattiera militare che conduce, con sentiero n. 8, a Forcella Lerósa. Si lascia quindi il sentiero n. 6 e si devia sui prati a monte del medesimo, individuando, in direzione NO, una nitida traccia che solca un piccolo dosso erboso, ai margini del bosco. In prossimità della traccia, si individua anche agevolmente un picchetto di legno con segnavia rosso, infisso a terra. Si entra nel bosco e si procede verso NO, mantenendo, per un centinaio di metri, una traiettoria tendenzialmente parallela al sentiero n. 6, più a valle. Prima di incontrare il Ru de re Cuódes (dall’ampezzano: “rio delle cuódes”, le pietre che si utilizzavano per affilare la lama delle falci), il cui suono d’acque già ci accompagna, nei pressi di una piccola radura erbosa, si inizia a salire in direzione E-SE, perdendo ogni riferimento di traccia.

fig. 1 Inoltrandosi nel bosco.

Si prende quindi leggermente quota, procedendo lungo una linea di crinale che, tra antichi pini cembri ed alti abeti, conduce ad un’ampia radura prativa. La si traversa, mirando ora verso N – NE, fino a trovare, dopo i primi passi nel bosco, una chiara traccia che scende fino a intersecare le prime acque sorgive del Ru de re Cuódes.

fig. 2 La traccia che scende verso il Ru de re Cuódes.

Si accede quindi al rio, non senza qualche fatica, superando tronchi d’alberi schiantati, e lo si guada agevolmente procedendo su traccia verso N.

fig. 3 Superando le deboli acque del Ru de re Cuódes.

La traccia diventa ora larga e ben definita, quasi fosse una mulattiera e, superato un antichissimo pino cembro monumentale, piega leggermente verso NE, sino a condurre al Pian de Socroda (dall’ampezzano: “il pianoro sotto la montagna”, dove si allude evidentemente alla Croda Rossa), 1910m.

fig. 4 Una scultura che avrà, verosimilmente, oltre cinquecento anni.
fig. 5 Pian de Socroda e, dietro, la Pala de ra Fedes

Si traversa ora il Pian de Socroda in direzione NE, per giungere alle prime lingue di frana che iniziano ad invaderne il margine superiore. Qui si intravedono alcuni ometti che indicano la via da seguire, camminando sul letto della frana.

fig. 6 Il letto scavato della frana.

Pochi metri e, sulla sinistra, due ometti indicano con precisione chirurgica la “porta” da varcare, abbandonando la frana ed immettendosi in una fitta macchia di pini mughi, in direzione N: è il c.d. sentiero “0”, oggi ufficialmente chiuso, che metteva in comunicazione Lerósa con il sentiero n. 26, nei pressi della Crosc del Grisc.

fig. 7 Il varco entro cui svoltare sulla sinistra.

A questo punto, dopo aver salito per alcune decine di metri l’evidente traccia del sentiero “0”, è necessario abbandonarlo svoltando con decisione a destra, direzione NE, traversando un ripido pendio prativo. A quanto dice la cartografia, dovrebbe pure esserci una traccia che, tuttavia, io non ho trovato. Probabilmente, bisogna salire ancora di qualche metro per incrociare la “vera” traccia.

fig. 8 In rosso, la traiettoria che ho preferito tenere. Sono abbastanza convinto che non sia il percorso più ortodosso né, tantomeno, il più semplice.

Con un po’ di cautela, si traversa quindi il ripido declivio erboso, acquistando altitudine, fino a portarsi alla base di un salto roccioso alto un paio di metri. Invece di superarlo con facilissima arrampicata, io ho preferito procedere alla sua base, salendo gradualmente verso destra sino ad incontrarne la fine e rimontarlo senza fatica alcuna. A questo punto, mi convinco che la corretta via debba effettivamente trovarsi sopra il piccolo salto roccioso. Tanto meglio: un’avventura alpina senza un pizzico di “ravanage” non è un’avventura!

fig. 9 La traiettoria, non proprio comodissima, da me scelta. Ritengo sia più saggio risalire la traccia per qualche decina di metri e tagliare il pendio più a monte…
fig. 10 Io sono salito per questa stretta e piccola conca prativa ma, per raggiungere la Madonna della Solitudine, ci si può portare più sotto alla parete di Ra Geralbes evitando questo passaggio.

Ci si trova ora, ai piedi della parete di Ra Geralbes o Ra Jeràlbes (combinazione dall’ampezzano jèra “ghiaia” e dal latino albus “bianco”, stante a significare “la montagna dalle ghiaie bianche”), in una piccola conca, chiamata “Madonna della Solitudine”, con riferimento ad una statuetta votiva ivi collocata, donde risalire un declivio coperto di sassi instabili per ritrovare, in breve, una nitida traccia che conduce a Ra Montejela.

fig. 11 Le ghiaie di Ra Geralbes, poco dopo la “Madonna della Solitudine”.
fig. 12 La salita tra massi instabili.
fig. 13 L’evidente traccia che conduce a Ra Montejela.

È trascorsa poco meno di un’ora e mezza, con una distanza coperta di 3km, ed eccomi alle porte di Ra Montejela, una magica e remota valle racchiusa tra le colorate pareti S di Ra Geralbes e le innevate pareti N della Pala di Ra Fedes. L’ambiente è magico, il panorama indescrivibile, la giornata meravigliosa. Chi visita questa paradisiaca valle desolata? Nessuno! Una volta, sorgeva un bivacco: il bivacco fisso Pia Helbig Dall’Oglio, moglie del compianto Marino Dall’Oglio, inaugurato il 19 settembre 1965. Doveva servire da ricovero per gli alpinisti desiderosi di raggiungere la vetta della Croda Rossa. Purtroppo, il bivacco divenne meta di qualche screanzato e, negli anni degradò a discarica. Fu quindi smantellato nel 2013, anno della morte del suo fautore, Marino Dall’Oglio. La demolizione del bivacco, combinata con la chiusura ufficiale del sentiero “0”, han certo ridotto drasticamente l’afflusso di escursionisti a Ra Montejela. Inoltre, la valle appare priva di agevoli forcelle che permettano di valicarne le pareti di contorno. Il solo valico ipotizzabile è costituito dalla Forcella Nord, che offre accesso al Cadin del Ghiacciaio. La Forcella Nord, ora innevata, appare tuttavia particolarmente ripida per una salita estiva (soprattutto, temo sia martoriata dalle scariche!!) e, per quanto ne so, ancora più ripido è l’opposto versante, al punto che dovrebbe essere necessario effettuare delle calate per discendere. Diventa sicuramente più appetibile per chi pratica lo sci alpinismo ovvero per chi intende scalare la via Grohmann. Sulla scorta di tali fattori, Ra Montejela è effettivamente un luogo selvaggio e deserto, per chi cerca, come il sottoscritto, una giornata di assoluto silenzio e contemplazione della natura.

fig. 14 L’acceso a Ra Montejela.
fig. 14 La parete S di Ra Geralbes.
fig. 15 Panoramica su Ra Montejela, dalla parete N della Pala de ra Fedes alla parete S de Ra Geralbes.
fig. 16 Vista sulle Tofane.

Addentrandosi nella valle, si procede, dapprima, con continuo saliscendi per piccole conche prative; trattasi delle increspature frontali della colata di un antico rock glacier, probabilmente d’epoca Tardiglaciale (10.000 anni fa), ormai immoto e coperto di uno strato erboso. Superata l’antica fronte del rock glacier estinto, si accede alla sezione centrale della valle, più rocciosa, costellata di tanto in tanto da isolate macchie di pini mughi.

fig. 17 La prima parte della valle, caratterizzata da piccoli dossi erbosi.
fig. 18 Il masarè nella parte centrale della valle.
fig. 18 La ripida Forcella Nord.
fig. 19 Dettaglio della Forcella Nord e antecima della Croda Rossa.
fig. 20 L’elegante camoscio che mi ha cortesemente fatto compagnia per tutta la durata della mia permanenza in Ra Montejela.

Giunto al limite di Ra Montejela, i pendii iniziano a salire. È il momento di tornare; il tiepido sole ottobrino, grazie alla rifrazione del manto nevoso, mi scalda piacevolmente e procedo in maniche corte, con vista panoramica sul Lavinores, 2411m, e sulla Croda de Antruiles, 2405m… una condizione di benessere unica ed esaltante, in perfetta sintonia con la natura, osservato costantemente da un vigile camoscio, padrone della valle, a poche centinaia di metri.

fig. 21 Ripercorrendo la valle, verso il suo imbocco.

Giunto alla soglia di Ra Montejela, vi sono due possibilità di rientro. La prima, chiaramente, è ritornare sui propri passi, scendendo per la “Madonna della Solitudine”. Per mia natura, però, sarei un tipo da giri ad anello. Opto quindi per la seconda possibilità: scendere traversando le ghiaie della Pala de ra Fedes, mirando a Lerósa. Confesso che non era nei piani, memore anche di aver letto sulla guida Camillo Berti del 1991 la seguente considerazione: “non lasciarsi indurre ad abbreviare la prima parte del percorso traversando direttamente verso S dal bivacco Pia Helbig Dall’Oglio: l’attraversamento della colorata frana è inutilmente faticoso e pericoloso“. Di diverso avviso, invece, era Paolo Beltrame che, nella guida “Dolomiti. Croda Rossa D’Ampezzo – 101% vera montagna”, 2008, descrive il sentiero che supera lo spigolo di ingresso a Ra Montejela (nel mio caso, la via di uscita dalla valle) come “evanescente a causa del terreno franoso (disagevole ma per niente pericoloso)” e la traccia che traversa poi il ghiaione come “evidente quando scorre su ghiaie mentre tende a scomparire quando attraversa tratti di sassi più grossi; in questo caso fanno da segnavia gli ometti costruiti sul posto“. Faccio quindi una timida ricognizione ai margini della frana e, non scorgendo passaggi particolarmente ostici, mi sento di sposare l’interpretazione del Beltrame. Inoltre, il pensiero di scendere, là dove sono salito, per il ripido pendio erboso, mi convince senza dubbio a preferire la traversata del ghiaione! Tale convinzione è prontamente consolidata dalla vista di una tenue traccia che incide debolmente la frana.

fig. 22 Il ghiaione da traversare e la meta: i prati di Lerósa.
fig. 23 Sceso un breve tratto erboso, ai margini della frana, si intravede la traccia.
fig. 24 La traccia diventa sempre più nitida.

Si taglia procedendo su cedevoli ghiaie, ma sempre con una pendenza poco sostenuta, tale da permettere un incedere sicuro e mai troppo faticoso, fino addirittura a trovare diversi ometti che indicano la via!

fig. 25 I primi ometti!

Il gioco sembra fatto quando ci si trova di fronte una sorpresina, già visibile dai margini di Ra Montejela: l’acqua ha eroso il ghiaione scavando una tipica V che interrompe bruscamente la traccia! Nessun problema: vorrà dire che scenderò lungo il canale scavato, tenendomi sul bordo orografico destro, fino a che i margini diminuiranno di altezza e sarà semplice attraversarlo. Seguirò poi l’estrema lingua della frana per attraversare i mughi e spuntare in un’amena radura di Tremonti, semipaludosa, che già ho avuto modo di visitare in passato. Alternativamente, volendo seguire l’itinerario proposto da Paolo Beltrame che conduce alla Forcella Lerósa, sarà necessario comunque scendere di parecchi metri per poter superare l’ostacolo naturale e, poi, risalire sul versante orografico sinistro fino a rinvenire nuovamente la traccia.

fig. 26 Il ghiaione eroso interrompe la traccia.
fig. 27 Ecco il percorso che ho scelto!
fig. 28 Ed ecco il percorso completo di discesa da Ra Montejela.

Giunti alla radura, si prosegue in direzione S, traversando un rio (oggi asciutto), fino ad intravedere il Casón di Leròsa, dove mi aspetta una deliziosa fonte di acqua sorgiva.

fig. 29 Poco prima del guado, mirando la Croda de R’Ancona, 2366m.
fig. 30 Prossimi al Casòn di Leròsa.
fig. 31 Il Casòn di Lerósa.
fig. 32 La sorgente di Lerósa.

Dal Casòn di Lerósa, tagliando verso O per dolci prati, si finisce per intersecare la mulattiera sentiero n. 8 e, in una decina di minuti, si giunge al Rifugio Malga Ra Stua.

NOTA FINALE: come anticipato in sede introduttiva, l’itinerario descritto potrebbe essere definito come E. La scelta di attribuirgli la classificazione EE è dovuta alle seguenti valutazioni: 1) nella prima parte, l’itinerario si svolge in mezzo al bosco, senza alcuna traccia. Si richiede, quindi, una certa capacità di orientamento o, comunque, l’utilizzo dell’apposita tecnologia che segni la propria posizione sulla mappa; 2) abbandonando il sentiero “0” per dirigersi verso la “Madonna della Solitudine”, si taglia un ripido pendio erboso, privo di traccia, che richiede pazienza e passo fermo. Probabilmente, la via scelta non è corretta; la valutazione, tuttavia, è svolta sulla traiettoria da me compiuta, non su un’ipotetica soluzione alternativa; 3) l’attraversamento della frana/ghiaione, pur non presentando particolari rischi, richiede in alcuni punti passo fermo ed equilibrio, a causa dell’instabilità del terreno; 4) traversata la frana, per potersi immettere nella radura di Tremonti, è necessario lottare per poche decine di metri dentro una fitta macchia di pini mughi. Nulla di impossibile o difficile ma si richiede una certa “flessibilità mentale” 🙂

Anello di Colfiédo e Ra Sares: traversata del Valon di Colfiédo, Valbònes e Valbònes de Inze per forcella Colfiédo e Val de Gòtres

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE
DURATA: 9 h – DISTANZA: 20 km – DSL: 1457m +

DATA: 13 settembre 2020

PREMESSE

L’anello in questione prevede la traversata in salita del Valon de Colfiédo, fino a forcella Colfìédo, 2721m, ed in discesa di Valbònes e Valbònes de Inze. Il Valon de Colfiédo e Valbònes, in particolare, sono due ampi ghiaioni non solcati da alcun sentiero o traccia. Trattasi, quindi, di una traversata alpinistica che, oltre al rilevante impegno fisico richiesto, prevede una salita ed una discesa su ghiaie sempre instabili, con una pendenza leggermente sostenuta negli ultimi 100m prima della forcella. L’ambiente è selvaggio, severo, assolutamente non frequentato. In inverno, i due versanti diventano meta gradita per chi pratica lo sci alpinismo ma, in estate, sono luoghi veramente remoti. L’accesso alle prime ghiaie del Valon de Colfiédo, sul versante settentrionale dell’omonimo monte, non è per nulla scontato, soprattutto a causa dei continui smottamenti che modificano il greto del torrente da cui diparte la traccia (noi abbiamo sbagliato ben tre volte prima di trovare la traccia nel bosco, e ciò ci è costato sforzi inimmaginabili ed un’oretta e mezza di giri a vuoto tra fitti mughi ed improbabili pendii! Alla fine abbiamo trovato una traccia che eravamo ormai alla base del monte Colfiédo!!! D’altro canto, il fascino delle escursioni proposte su WINDCHILI è proprio questo: avventurarsi e “scoprire”. L’impegno fisico richiesto è in ogni caso appagato dalla maestosità di tali luoghi, spettacolari, poco conosciuti e ricercati (la prima traversata in sci risale solo al 1966 e con le ciaspe al maggio del 1972). Una nota fondamentale: l’itinerario a seguire rappresentato non è sicuramente l’itinerario migliore ma solo l’itinerario che io ed il mio compagno di avventure Paolo abbiamo scelto, a istinto, sul momento. Chi volesse applicarsi potrà di per certo individuare una traiettoria più diretta o agevole. Ciò detto, chi gradisse confrontare il seguente itinerario con una voce certamente più autorevole in materia, potrà trovare una dettagliata relazione del medesimo sull’eccellente guida “Dolomiti. Croda Rossa d’Ampezzo. 101% vera montagna”, 2008, di Paolo Beltrame.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Proveniendo da Cortina, si lascia l’auto, poco prima di Passo Cimabanche, in un piccolo parcheggio sulla sinistra, a 1511m, pochi metri dopo il Lago Negro, sito sull’opposto lato della strada. Si imbocca, quindi, il sentiero n. 8, su ampia mulattiera militare. Dopo il primo curvone, che devia decisamente a SW, si prende una vaga traccia che, subito scomparendo, risale il bosco in direzione NE, verso le pendici del monte Colfiédo. Si traversa il bosco mantenendo sempre la direzione NE, superando diversi alberi schiantati. La traccia si ritrova saltuariamente, specialmente là dove l’erba cede il passo a vecchie frane, dove il minimo segno di un risalente calpestio è rimasto impresso a terra.

fig. 1 Procedendo “a naso” nel bosco di abeti e pini cembri.
fig. 2 Superando i vari tronchi schiantati.
fig. 3 Amanita Muscaria.

Ci si imbatte in diversi bunker militari non segnati sulla carta Tabacco. La traccia da tenere traversa una decina di metri a monte del primo bunker, superando una breve area di antichi tronchi morti di pini cembri (suppongo).

fig. 4
fig. 5

Si giunge pochi metri a monte di una fessurazione in cemento armato che conduce alla bocca di un nuovo bunker. Probabilmente, ospitava un vecchia teleferica per trasportare l’artiglieria pesante da Cimabanche? O forse rappresentava una gola artificiale per sparare proiettili di grosso calibro a breve distanza sul passo? In ogni caso, dovrebbe trattarsi di installazioni militari costruite intorno agli anni ’30, per proteggersi da un eventuale attacco nemico. Da questo punto, è possibile riprendere la traccia e mantenersi nel bosco per ancora poche decine di metri oppure, come noi abbiamo preferito, uscire dal bosco ed immettersi direttamente sul greto del torrente che scende dal Valon de Colfiédo. Si procede, quindi, in direzione del Valon de Colfiédo, guadando agevolmente il torrente di tanto in tanto.

fig. 6 La singolare gola artificiale che termina su una feritoia di un bunker.
fig. 7 Il percorso sul greto del torrente e la traccia alternativa che si immette in esso, proveniente dal bosco, con evidente ometto.
fig. 8 Si inizia ad intravedere la lontana forcella de Colfiédo.

Si procede addentrandosi nella gola. Sporadicamente, si notano degli ometti che ci rincuorano.

fig. 9 Un primo ometto…
fig. 10 Si tiene la sinistra, camminando su comode ghiaie.
fig. 11a … poi sempre meno comode…
fig. 11 All’orizzonte, le Tre Cime di Lavaredo.

Finché si vedono ometti, significa che va tutto bene. Da quando non si vedono più, significa che bisogna porsi qualche domanda… noi ce la siamo posta ma non abbiamo trovato la soluzione corretta, e siamo giunti alla base di un salto roccioso con cascatella, nei cui pressi, dal monte Colfiédo, scende una ruscelletto che si immette nel rio principale. Già a questo punto, abbiamo sbagliato qualcosa. Sulla sinistra (destra orografica del torrente), non abbiamo notato alcuna traccia che risaliva il costone della gola, quasi sempre franato. È in quel tratto, tra l’ultimo ometto visibile ed il salto di roccia dove la gola si restringe, che deve esserci una qualche traccia che sale nel bosco in direzione O. La già citata guida P. Beltrame, 2008, riporta come segue: “intorno alla quota 1745m, la tracce si infilano tra i mughi non intricati e, con incremento di pendenza, continuano allontanandosi di poco dal torrente fino ad incontrare un rigagnolo d’acqua (c. 1780m, presenza di alcuni vecchi tubi per la raccolta d’acqua)“. Non trovando la menzionata traccia, noi abbiamo proceduto a tentativi. Purtroppo, a complicarci la vita, gioca a mio avviso anche un errore cartografico che ci ha tratto in inganno, e che a seguire rappresento dettagliatamente. ATTENZIONE: riporto i tentativi svolti solo affinché qualcuno non ripeta gli errori da noi compiuti. Invito seriamente chi si cimentasse in tale escursione a non ripercorrere i nostri passi ma a trovare la traccia corretta poco più a valle.

fig. 12 In questo tratto deve rinvenirsi, sulla sinistra, la traccia corretta.
fig. 13 Paolo attraversa il ruscelletto che si immette nel rio principale, alla base della piccola cascata con restringimento della gola. Quasi sicuramente, la traccia corretta è ormai già diversi metri a valle di questa confluenza d’acque.
fig. 14 Cartografia Tabacco aggiornata 2020
fig. 15 Immagine satellitare Google Maps aggiornata 2020. Sopra la linea rossa si distingue il corso del ruscello, sormontato dai pini mughi. Nell’area inclusa nell’ovale è invece distinguibile lo smottamento del costone che porta il ruscello a confluire direttamente sul rio principale, coordinate 46.628378, 12.167378.

Ciò detto, il primo tentativo ERRATO mi ha portato a scalare il primo salto di roccia sul restringimento di gola, per verificare l’esistenza a monte di qualche ometto. La prima parete è alta infatti circa tre metri ed è agevolmente superabile sia sul lato orografico destro che sinistro del rio. Peccato che, giunti alla sommità della prima cascata, ci si trovi di fronte ad ulteriori due salti di roccia, di almeno dieci metri l’uno, il cui superamento in sicurezza mi ha lasciato piuttosto perplesso. A confermare l’erroneità della scelta, la totale assenza di ometti. Conclusione: risalendo dentro la ripida gola attraverso la cascata, non si va da nessuna parte!

fig. 16 Il primo salto di roccia, dove si forma la cascatella, la cui scalata si è rivelata totalmente inutile!

Proviamo, quindi, a svolgere un secondo tentativo, ERRATO (e folle): la risalita del ruscello che si immette sulla destra orografica del rio principale. Una vera pazzia che ci prosciuga di ogni energia. Si tratta di strisciare, letteralmente, sotto i robusti rami di mughi alti anche due metri, con immani sforzi per piegare i rami là dove sbarrano completamente l’accesso (ovunque). Sicuramente è più semplice penetrare una giungla tropicale (anche perché lì si usa il machete, mentre qui dobbiamo farci strada a braccia nell’inestricabile bosco pungente, camminando sul greto infido del ruscello). L’idea è di risalire il ruscello fino alla fine per poi deviare a sinistra fino a trovare qualche probabile traccia là dove scendono gli scialpinisti in inverno. Conclusione: non ha senso fare uno sforzo così immane aprendosi un varco tra i fitti mughi dentro il ruscello. Sicuramente, si fa meno fatica risalendo in mezzo al bosco poco più a valle… però sono quelle esperienze che non si dimenticano e colorano la gita d’avventura e spirito WINDCHILI!

fig. 17 Risalendo il ruscello tra la vegetazione impenetrabile.

Infine, dopo sforzi sovrumani, intersechiamo una probabile traccia verso quota 2000m, qualche decina di metri più a monte della sorgente del ruscello (una minuscola radura di muschio e terra impregnata d’acqua). Ci dirigiamo quindi verso sinistra, direzione S, ed intersechiamo delle potenziali tracce, molto vaghe, che risalgono verticalmente il bosco, pur sempre transitando in mezzo a mughi che, però, risultano ora più radi e meno vigorosi!

fig. 18 Finalmente, individuata una debole traccia che risale il bosco.

Si scende ora in una piccola conca prativa per poi risalire leggermente su traccia più nitida che con una curva decisa rimonta il costone boschivo e si dirige verso N-NO, fino ad incontrare nuovamente ometti ed un simpatico nastrino colorato che rincuora dopo tanta fatica.

fig. 19 Discesa nella piccola conca prativa.
fig. 20 Lieti di aver ritrovato la traccia 🙂

La traccia costeggia ora le pendici N del monte Colfiédo, traversando agevolmente brevi lingue franose.

fig. 21 Si procede su agevoli ghiaioni sulle pendici N del monte Colfiédo.
fig. 22

Il panorama inizia a deliziarci con il suo ampio respiro: la Croda Rossa, 3146m, svetta imponente, bilanciata più a E da Punta del Pin, 2682m. La direzione che preferiamo seguire è ora un grande masso sormontato da un audace piccolo cirmolo.

fig. 23 Lo spettacolare profilo della Croda Rossa ed il masso che optiamo di seguire.
fig. 24 Finalmente usciti dal perimetro dei mughi. Alle nostre spalle, le Tre Cime.
fig. 25 Appropinquandosi al masso sormontato dal pino cimbro.

Giunti al masso sormontato dal pino cimbro, ai cui piedi giace una scheggia di granata della prima guerra mondiale, si è ormai prossimi all’entrata nel ghiaione.

fig. 26 La scheggia di granata.
fig. 27 Scheletro di… una volpe?
fig. 28 Il ghiaione da risalire, in tutta la sua lunghezza!

Incomincia ora la parte più faticosa dell’itinerario. Non tanto per il dislivello che bisogna ancora coprire ma per il terreno su cui bisogna affrontarlo. Le ghiaie sono infatti instabili e più si avanza più la pendenza aumenta. Con tutta la delicatezza del caso, ad ogni passo l’appoggio perde comunque stabilità e bisogna lottare con tutte le articolazioni e i muscoli del corpo per incrementare la quota.

fig. 29 Il Valon de Colfiédo
fig. 30 La forcella di Colfiédo si distingue ora chiaramente.
fig. 31 Imboccato il solco alluvionale rossastro nel tratto finale.
fig. 33 Ultimi sforzi.

Arrivati in forcella Colfiédo, 2721m, si apre uno scenario grandioso sul versante O, mozzafiato, che abbraccia Ra Valbònes (tradotto dall’ampezzano: “le valli buone”), sovrastata dalla maestosa Pala de Ra Fedes. Leone Sinigaglia, risalendo il vallone tra il 1893 e il 1895, scriveva: “la parete fa da mirabile sfondo alla valle deserta, con il suo anfiteatro selvaggio, con la sua ripidissima serie di bastioni e l’aguzza punta, coi giganteschi canaloni che la solcano per ogni verso e la sua larga base fasciata da un enorme campo di ghiaioni… di cui pregustiamo fin d’ora la dolcezza” (L. Sinigaglia, Ricordi di arrampicate nelle Dolomiti – 1893-1895, ed. La Cooperativa di Cortina, 2003).

fig. 34 Vabònes e la Pala de Ra Fedes.
fig. 34 In direzione N, la cima della Croda Rossa, 3146m, si tocca con un dito.
fig. 35 Il sole fa capolino dietro la cima di Ra Sares, 2804m, a portata di mano.
fig. 36 Il Valon de Colfiédo, ormai alle spalle.
fig. 37 Foto di rito in forcella con l’amico Paolo.

Ed ora inizia la discesa! Il versante O che scende su Ra Valbònes è, nel tratto apicale, moderatamente più ripido del versante E. Il terreno del ghiaione, chiamato anche Graon de Inpó Castel (tradotto dall’ampezzano: “il ghiaione dietro il castello”), è sufficientemente mobile da abbozzare cautamente una sciata! Il mio consiglio è di scendere in diagonale partendo dalla base della parete di Ra Sares. Si superano così agevolmente i primi ripidi metri e si abbandona il lato più a destra, verso la Croda Rossa, che ha una pendenza molto sostenuta.

fig. 38 Il tratto sommitale del ghiaione di Valbònes, subito sotto la forcella.
fig. 39 Divertente discesa del ghiaione.

Verso N, il panorama spettacolare della Pala de Ra Fedes e della vastità dei suoi ghiaioni.

fig. 40 La Pala de Ra Fedes sovrasta la Valbònes.

Tanto abbiamo impiegato per salire in forcella, quanto bastano pochi minuti di sciata su ghiaione per trovarsi al cospetto del Castel de Ra Valbònes.

fig. 41 Alle spalle, la Valbònes e la forcella Colfiédo.
fig. 42 Il Castel de Ra Valbònes; sul fianco erboso si distingue chiaramente il sentiero da imboccare.
fig. 43 Prossimi al Castel de Ra Valbònes, si aprono ai nostri occhi i famigliari profili del Becco di Mezzodì e del Nuvolau.

Ai piedi del Castel de Ra Valbònes, si imbocca la ben nitida traccia (non segnata sulle carte), con tanto di ometto (da quanto tempo!) e ci si dirige verso S.

fig. 44 La traccia da prendere verso S.

Si aggirano quindi le pendici del Castel de Ra Valbònes, virando verso O, per trovarsi dinnanzi ad un nuovo ghiaione da traversare agevolmente, avendo cura di non perdere quota, per raggiungere la sella prativa che offre accesso alla Valbònes de Inze.

fig. 45 La meta è la sella prativa che permette di accedere alla Valbònes de Inze.
fig. 46 Il ghiaione si supera trasversalmente senza alcuna difficoltà considerata la scarsa pendenza.

Terminato il ghiaione, in breve si raggiunge la sella erbosa, con magnifica vista sull’amena e verde Valbònes de Inze. All’orizzonte, da destra, si distingue il Bechei di Sopra, 2794m; Forcella Ciamin; Cima Dieci, 3026m; Cima Nove, 2968m.

fig. 47 Il panorama sulla Valbònes de Inze.
fig. 48 Il Monte Sorapis incorniciato.

A questo punto, è possibile attraversare interamente la Valbònes de Inze oppure prendere come riferimento un paio di pini cembri che sorgono sul bordo S del catino (si distinguono in fig. 47) e scendere con via più diretta ma sicuramente più ripida tra agevoli salti di roccia ed erba sino al Casón de Leròsa, 2035m

fig. 49 Pini cembri secolari nella tipica zona di gradoni erbosi tra Valbònes de Inze e Leròsa.
fig. 50 Fino ad intravedere il Casón di Leròsa!
fig. 51
fig. 52 Cavalli allo stato brado pascolano sotto la Pala de Ra Fedes.

Rifocillati alla sorgente presso il Casón de Leròsa, si può ora scendere comodamente lungo la mulattiera militare che traversa forcella Leròsa, zona di importanza strategica durante la prima guerra mondiale per la presenza di un importante avamposto militare. Sulla sinistra, si supera ciò che resta del cimitero austriaco che accolse 95 caduti di diverse nazionalità (poi esumati dopo il conflitto e trasferiti presso l’ossario del Passo Pordoi). Si procede quindi la discesa attraversando la Val de Gòtres. Si perde drasticamente quota e, poco sopra i 1600m, si intersecano le tre sorgenti del Rufiédo, di cui la prima impressione per la portata, specie considerando che queste acque provengono dagli alti circhi della Croda Rossa, appena traversati, e confluiscono per via sotterranea, fino a questo luogo. Da lì in breve, si giunge al parcheggio dove si è posteggiata l’auto.

fig. 53 La prima e più impetuosa sorgente del Rufiédo.

Per ulteriori spunti, consiglio la lettura della relazione del mio compagno d’avventura Paolo e la rappresentazione virtuale dell’itinerario su mappa!

Anello Ra Stua – Lerósa – Tremonti – Fósses – Rif. Biella – Ucia de Senes – Rif. Fodara Vedla – Ra Stua… (e le origini della saga del Regno dei Fanes).

DIFFICOLTA’ COMPLESSIVA: E fino alla Crosc del Grisc. T tutto il resto dell’itinerario.
DURATA: 8 h – DISTANZA: 17 km – DSL: 882m +

DATA: 6 settembre 2020

PREMESSE

Con somma gioia, il mio compagno di avventure è oggi mio padre, quasi prossimo ai settant’anni! Ho quindi studiato un itinerario che sia privo di difficoltà tecniche e pericoli oggettivi. Un itinerario che, se non fosse per la lunghezza, potrebbe essere definito turistico (T) ma che definirò per escursionisti (E), anche per la richiesta capacità di orientamento nella prima parte del percorso. Il primo tratto dell’itinerario, infatti, si svolge su un vecchio sentiero, oggi traccia che traversa l’area di Lerósa, Tremonti e Pian de Socrode, con incantevole alternanza di prati e bosco rado, ai piedi della Pala De Ra Fedes, per poi guadagnare quota superando un valico tra Sote Socroda e lo spigolo SO di Ra Geralbes. Superata questa prima parte, la traccia si congiunge poco dopo con la Crosc del Grisc nel sentiero segnato (e ben battuto) n. 26, traversando una delle zone, a mio avviso, più spettacolari e magiche delle Dolomiti. Volendo proprio essere precisi, si potrebbe stabilire che da Casòn de Lerosa alla Crosc del Grisc il percorso è classificabile come E, solo per la necessità di orientarsi (peraltro sempre agevolmente); tutto il resto dell’itinerario è classificabile come T, sempre e comunque tenendo a mente il fattore lunghezza complessiva. Un’ultima nota prima di procedere con la descrizione dell’itinerario: la prima parte del percorso era una volta un sentiero, il sentiero “0”, aperto nel 1964. Questo è stato dismesso negli anni novanta, al fine di disincentivare il turismo che, complice la vicinanza di Malga Ra Stua, comprometteva l’integrità di una zona naturale di elevato interesse naturalistico. Sebbene la montagna dovrebbe sempre oggetto di attenzione e cura da parte di chi vi accede, si invita, a maggior ragione affrontando tale itinerario, a mantenere una condotta rispettosa dell’ambiente che circonda. E l’allusione non ha certo ad oggetto il solo divieto assoluto di abbandonare rifiuti ma, anche, il più semplice obbligo di procedere con passo silenzioso ed attento, al fine di non disturbare i pascoli di camosci e cavalli selvaggi che albergano questo paradiso incontaminato.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

La partenza dell’itinerario è il rifugio malga Ra Stua, 1695m. Pochi metri dopo il rifugio, si incontra una vecchia mulattiera militare che si innesta sulla destra. Questa permetteva durante la prima guerra mondiale di raggiungere un importante avamposto militare austriaco nei pressi di forcella Lerósa ; la si imbocca e si inizia la risalta. Ci si inoltra presto in un bosco che, all’occhio attento, si distingue dai soliti boschi dolomitici. Agli abeti si alternano, infatti, larici e pini cembri. Questi ultimi, in particolare, avvicinandosi a Lerósa, diventano sempre più frequenti: vere e proprie opere d’arte secolari, antichi fino a 500 anni. A quota 1900m circa, là dove il bosco diventa più rado e lascia spazio ai pascoli d’alta quota, poco dopo aver attraversato un ruscello, si abbandona la mulattiera e si inizia la salita sul pendio prativo, direzione E – NE, senza alcuna traccia evidente, mantenendosi sulla sinistra orografica del rio.

fig. 1 Si sale a sinistra abbandonando la mulattiera, senza alcuna evidente traccia.

Si esce quindi dal bosco e ci si trova di fronte ai favolosi pascoli di Lerósa, al cospetto del gruppo della Croda Rossa.

fig. 2 Uscendo dal limitare del bosco.
fig. 3 La Croda Rossa.

Alle spalle, la vista è spettacolare. Da sinistra, si susseguono le Tofane, la Croda del Vallon Bianco, la Croda de Antruiles e il Col Bechei de Sora.

fig. 4

Il Casòn de Lerósa è a pochi metri di distanza ma ancora non si vede; ci si tiene, invece, vicini al ruscello, fino ad incrociare un’evidente traccia che consente di guadare agevolmente.

fig. 5 Il ruscello da guadare.

Ora si traversa l’area superiore di Tremonti, in direzione N.  Il termine “Tremonti” indica, appunto, i tre dossi collinari al limite NO del pascolo di Lerósa. Si procede su prati, spesso acquitrinosi, sino a giungere ad una piccola e pianeggiante radura, dove si trovano le sorgenti che alimentano il Ru de ra Cuódes (dall’ampezzano: “rio delle cuódes”, le pietre utilizzate dai contadini per affilare la lama della falce), che a valle si immette nell’Aga de Ciampo de Crosc, poche centinaia di metri sopra Ra Stua.

fig. 6 La radura con alle spalle la Pala de Ra Fedes.

Entrando nella radura, ai piedi della Pala de Ra Fedes (dall’ampezzano: “cima delle pecore”) si continua, in leggera discesa, verso N, entrando nuovamente nel bosco.

fig. 7 La traccia torna ad essere temporaneamente visibile ed entra nel bosco.

Si scende ora con maggiore decisione fino ad intersecare un ulteriore ruscello, che si supera con semplicissimo guado. Si intravede, da qui con chiarezza, la traccia che sale il ripido pendio. Paul Grohmann, camminando per queste tracce nel 1862, scriveva: “subito dopo Lerosa si passa il Ru dei Tre Monti, poi la località Socroda, ed infine la Val Monticello al suo sbocco”.

fig. 8 Si intravede la traccia che risale il costone.

Qui la traccia, che fino ad ora era solo a tratti visibile, inizia ad essere evidente, ed attraversa una fitta area di pini mughi, fino a giungere al limite di una lingua franosa. Una serie di ometti segnala con chiarezza la direzione da seguire per uscire dalla lingua franosa ed immettersi sulla traccia che risale il costone roccioso. Poco prima dell’inizio della salita, si intuiscono sulla traccia due sbarramenti operati con pietroni posti di traverso. Non è chiaro il perché si trovino in quel punto preciso… ad ogni modo, li si ignorano e si prosegue la salita, senza alcuna difficoltà rilevante, su rocce franate comunque sempre stabili, individuando talvolta degli ometti.

fig. 9 La traccia sale su terreno franoso sempre comunque stabile e sicuro.
fig. 10 Ultimo tratto ripido della traccia.

Alle spalle, il panorama è grandioso. Si vedono con chiarezza le radure poco prima attraversate sopra Tremonti. In direzione S, si staglia la Croda de R’Ancona, 2366m, e, in fondo sulla sinistra, il Sorapis.

fig. 11 Il terreno su cui si è svolto finora il tragitto, con la Croda de R’Ancona di sfondo.

La pendenza della traccia diminuisce quindi drasticamente e si giunge in un’amena area prativa alberata, sotto la parete del costone roccioso, da cui si procede intuitivamente verso una sella erbosa, a quota 2100m circa.

fig. 12

Guadagnata la sella erbosa, il panorama muta radicalmente. Si apre di fronte una conca che alterna grandi blocchi di pietra con mughi. Sulla destra, si erge il versante occidentale della Croda Rossa Pizora.

fig. 13 La conca di pietroni e mughi. Il sentiero passa sulla destra del tronco semi-morto di un pino cembro, apparentemente divelto da un fulmine.
fig. 14 La Croda Rossa Pizora.
fig. 15 Un blocco di pietra segnato da tipici solchi carsici.
fig. 16 La conca presenta un continuo saliscendi tra blocchi di pietra e mughi.
fig. 17 Sulla sinistra, a O, si può ammirare in primo piano il profilo di Cima Nove (Sasso delle Nove), 2968m, e, subito dietro a sinistra, Cima Dieci, 3026m.

La traccia punta ad una sella erbosa leggermente più elevata, che permette di uscire dalla conca, a quota 2200m circa.

fig. 18 Leggera salita della sella. E’ evidente la traccia tra i mughi che attraversa la conca.

Superata la sella, si apre un nuovo immenso panorama mozzafiato: al centro, la Croda del Becco, 2810m, verso la cui direzione ci si dovrà dirigere traversando la magnifica Alpe de Foses o Fosses.

fig. 19

Il sentiero costeggia ora lo sperone occidentale della Croda Rossa Pizora, perdendo leggermente quota. Dalla cresta rocciosa, un camoscio ci sorveglia attentamente.

fig. 20 Notare il camoscio sulla cresta, a sinistra.

Traversando un breve tratto di grandi pietre franate, si continua a perdere quota fino a intravedere, a O, la Crosc del Grisc sita sul battuto sentiero n. 26 che, in breve, si finisce per intersecare. Ed ecco la storia della Crosc del Grisc. Una storia di amore e sangue, accaduta nel 1848. Amore tra Simone Alverà di Cortina, chiamato il Griš, probabilmente a causa dei capelli grigi, pastore di pecore sull’alpe di Foses, e Annamaria De Luca. Sposati nel febbraio del 1848, i due iniziano a convivere. Presto, tuttavia, si resero conto che la loro unione era insostenibile. Litigavano costantemente e, a quanto pare, in linea con gli usi dei tempi andati, Simone alzava spesso le mani sulla moglie. Ad agosto dello stesso anno, Simone era ripartito per i pascoli di Foses e la moglie decise di raggiungerlo. Recò con sé uno zaino che, oltre ai viveri, nascondeva un’ascia. Raggiunto il marito, ubriacatolo con una bottiglia di vino o grappa che aveva portato con sé, la moglie estrasse l’ascia e lo colpì. Era il 3 agosto 1848. La moglie sarà poi imprigionata e sconterà la pena dell’ergastolo nella prigione dei Piombi di Venezia.

fig. 21 In lontananza, la Crosc del Grisc.

Il sentiero n. 26 traversa, a O, un’evidente profonda conca carsica che ospita il Lago di Remeda Rossa o Lago de Remeda da Rosses, caratterizzato dal tipico colore delle rocce della Croda Rossa.

fig. 22 Il lago visto nei pressi dell’intersezione con il sentiero n. 26.
fig. 23

Si supera quindi un’ampia sella prativa, parzialmente acquitrinosa, che conduce all’alpe di Fósses, con incantevole veduta del Lago Pizo (o Lago Piccolo, anticamente anche Lago Morto) e del Lago Gran de Fósses (o lago de Fósses). Purtroppo, non posso esimermi dal criticare l’installazione di orribili grate di plastica, presumibilmente poste per favorire il transito degli escursionisti nell’area acquitrinosa. Sarebbe sufficiente, infatti, salire di pochi metri sul dosso prativo circostante per risolvere serenamente il problema, senza alcuna fatica o rischio per l’escursionista. Le medesime orribili installazioni sono presenti in tutta l’alpe di Fosses. Ciò mi lascia gravemente perplesso e mi porta a riflettere sul senso e l’essenza stessa di un’escursione alpina. Mi conforto rievocando le parole di Giovanni Cenacchi, che ben incarnano lo spirito di questi luoghi

L’escursione al lago di Fosses è forse l’emblema dell’emozione e del particolare tono di spirito suscitato dall’ambiente degli altipiani. Grandi estensioni, una sensazione di vastità che si traduce presto in una quieta vertigine, nel desiderio di vagare in libertà dimenticando la propria origine ed ignorando la propria meta

Giovanni Cenacchi, Escursionista per caso a Cortina d’Ampezzo, Nuove Edizioni Dolomiti, 1991, pag. 61.

fig. 24 Il magico panorama dell’Alpe di Fósses, con il Lago Pizo (piccolo) e, a destra, il Lago de Gran Fosses.
fig. 25 L’abominevole pavimentazione di alcuni tratti del sentiero n. 26, spiega, da sola, perché WINDCHILI preferisce sempre percorrere antiche tracce dimenticate anziché sentieri battuti.

Scesi nell’alpe di Fósses, si supera una piccola baita, sita sulla sponda occidentale del Lago di Gran Fósses.

fig. 26
fig. 27

Il lago di Gran Fósses è un luogo magico: ai piedi della Remeda Rosses, 2605m, è l’unico lago perenne tra i tre laghi di Fósses. Un luogo di solitaria contemplazione, dove il fascino dei paesaggi si combina con la magia della leggenda. Una leggenda, purtroppo, generalmente ignorata dai più che, tuttavia, costituisce la più complessa e antica saga epica italiana. Alludo alla saga del Regno dei Fanes, codificata dall’antropologo Karl Felix Wolff (1879-1966), che per primo ha messo su carta una storia tramandatasi oralmente dalla popolazione ladina per quasi tremila anni. In particolare, gli studiosi ritengono che gli eventi narrati nella saga del Regno dei Fanes possano avere avuto inizio in un periodo compreso tra il 900 e l’800 a.C. Osservando i mutamenti climatici post glaciali, si potrebbe invece ritenere che la saga sia ambientata intorno al 1000 a.C., periodo di lieve rialzo termico. Tali condizioni ambientali favorevoli avrebbero infatti permesso di abitare tutto l’anno i pascoli sopra i 2000 metri. Ciò premesso, per quanto qui interessa, la saga del Regno dei Fanes esordisce verosimilmente proprio nei luoghi attraversati dall’itinerario qui descritto. Segnatamente, si narra che una donna, Molta, in punto di morte, lascia la propria figlia neonata ad una vecchia anguana (una sorta di ninfa alpina) che abita una caverna sulla Croda Rossa. Le marmotte, che osservavano, raccolgono il cadavere di Molta e lo portano via, nascondendolo in un crepaccio. L’anguana si affeziona alla piccola e la adotta, dandole il nome di Moltina. Già questi primi elementi possono farci ipotizzare che la vicenda sia ambientata proprio sull’alpe di Foses. L’anguana è, infatti, una figura mitologica legata all’acqua, e l’alpe di Foses è il luogo circostante la Croda Rossa che abbonda di più acqua, sotto forma di laghi e sorgenti. La leggenda specifica, inoltre, che altre anguane vivevano nei laghetti più a nord e che ogni mattina la vecchia anguana era solita alzarsi al primo albeggiare per ammirare, fuori dalla sua grotta, il sorgere del sole. Ciò farebbe ipotizzare che la caverna leggendaria fosse sita sulla parete S della Rémeda Rosses, a metà via tra il lago de Rémeda Rosses ed i laghi Pizo e Gran de Foses. Da questa angolazione, infatti, è possibile ammirare il sorgere del sole dietro le più alte cime della Croda Rossa Pizora (Croda Rossa piccola). (Una curiosità: esistono attualmente almeno una caverna, una grotta e sette pozzi sulla Rémeda Rossa, tra i 2300 e i 2500m). Ancora, in tutta l’area di Foses sono ad oggi conosciute più di un centinaio di cavità, tra pozzi, inghiottitoi e meandri, alcune di grandi dimensioni e considerevoli sviluppi, che potrebbero coincidere con il crepaccio dove il cadavere di Molta viene nascosto. Ancora, un dato che emerge dalla ricostruzione di Wolff è che la caverna dove viveva la vecchia anguana con Moltina era esposta al vento di ponente; ciò avvalora appunto l’ipotesi che la grotta fosse localizzata sul versante orientale della Croda Rossa, apertamente esposto ai venti di ponente. In ultima, Wolff ci racconta che Moltina “a volte raggiungeva altre Anguane che vivevano presso un lago in un luogo più alto. Questo luogo è un deserto roccioso abitato da molti camosci che si estende dalla Croda Rossa fino al Sas dla Porta (nda: Croda del Beco) ed è formato da una lunga fila di cime frastagliate e in mezzo ad esse bianche pietraie alternate a laghetti e prati fioriti“. Tale area coinciderebbe, anche come descrizione, con le pendici E e O comprese tra forcella Cocodain, la Croda de Foses e Monte Muro, che rappresentano una linea di congiunzione tra la Rémeda Rosses e la Croda del Beco. Oggi il territorio in questione appare brullo, con alternanza d’erba e pietraie, e non vi sono laghetti. Tuttavia, nel 900/1000 a.C., è lecito supporre ve ne fossero in abbondanza, considerata la presenza attualmente documentata di innumerevoli doline, una volta probabilmente colme di acqua. Tutto quanto sopra descritto non ha invero il fine di dimostrare un eventuale fondamento reale dei fatti narrati dalla saga quanto, piuttosto, evidenziare come già tremila anni fa questi luoghi fossero conosciuti e chi li abitava ne fosse affascinato al punto da costruirci attorno una saga epica come quella del Regno dei Fanes.

fig. 28 Lago Gran de Foses e Remeda Rosses.
fig. 29

Riprendiamo ora la descrizione dell’itinerario. Tenendo il lago sulla destra, il sentiero risale una tipica zona di campi carreggiati o campi solcati, prima di deviare con decisione verso NE, in direzione della Croda del Becco.

fig. 30
fig. 31

Il sentiero si inoltra ora in un continuo saliscendi, attraversando un paesaggio brullo e lunare, fino a giungere al rifugio Biella, 2327m.

fig. 32

Dal rif. Biella, si continua su ampia mulattiera, sent. 6, costeggiando il versante S della Croda del Beco, 2810m.

fig. 33 La ripida parete S della Croda del Beco.

Si procede fino ad incontrare un crocevia di sentieri che si innestano sulla mulattiera e si imbocca il sentiero 6a, che, offrendo una magnifica vista del Monte Sella di Sennes, 2787m, conduce brevemente all’Ucia de Senes, 2126m.

fig. 34 Il tragitto svolto dalla Croda del Beco.
fig. 35 Monte Sella di Sennes.

Costeggiando una curiosa pista erbosa d’atterraggio dismessa, costruita nel 1968 dagli alpini della Tridentina in periodo di guerra fredda, si inizia a perdere quota seguendo il sentiero 7, fino a giungere al rifugio Fodara Vedla.

fig. 36 La pista d’atterraggio costruita nel ’68. E’ lunga circa 450 metri e, probabilmente, era già stata sfruttata nella prima guerra mondiale.
fig. 37 La chiesetta costruita dalla famiglia proprietaria del rif. Fodara Vedla.

Si segue ora il sentiero n. 9, antica mulattiera militare utilizzata durante la prima guerra mondiale. Il sentiero traversa le rive del lago de Rudo, a 2000m, per poi scendere con ripide serpentine fino a Cianpo de Crosc, a circa 1700m.

fig. 38 Vacche al pascolo nei prati antistanti il rif. Fodara Vedla.
fig. 39 Lago de Rudo e, dietro, i Lavinores, 2462m.

Si segue, quindi, la mulattiera sentiero n. 6 che conduce a valle e, in breve, al rif. Malga Ra Stua. Una curiosità storica sul nome Ra Stua. “Stuar“, in dialetto veneto, significa chiudere. Ra Stua, letteralmente, significa “la chiusa” ed il nome trae appunto origine da una chiusa costruita nel ‘600 da Giovan Maria de Zanna al fine di agevolare la fluitazione del legname lungo l’alveo dell’Aga de Cianpo de Crosc.