Esplorando i Campanili di Val Popena Alta… sulle orme di Ugo di Vallepiana

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE (le difficoltà “EE” sono limitate allo scavallamento della forcellina ed alla discesa nel tratto apicale della Val de le Barache. Il resto dell’itinerario può essere considerato “E”).

DISTANZA: 11 km – DURATA: 4,30 h – DSL: 1020 m D+

DATA: 16 ottobre 2022

PREMESSE

Siamo a metà ottobre. A Cortina, ieri notte, la temperatura è scesa a 4°C. È quindi finita la stagione delle esplorazioni in alta quota; pur non essendoci che pochi centimetri di neve, le cenge esposte a nord rischiano di essere coperte da lastre di ghiaccio ed il fondo ghiaioso dei pendii inclinati può risultare compatto come il cemento. È tuttavia un autunno straordinariamente mite – come il precedente – e, sotto i 2500m, il terreno si presenta ancora tipicamente estivo. È questo il momento migliore per dedicarsi a veloci esplorazioni non troppo impegnative. La prima che mi viene in mente è l’esplorazione dei Campanili di Val Popena Alta. Chi, salendo il Cristallino di Misurina per la val de le Barache, non è stato attratto da quella singolare formazione rocciosa a forma di cuore, collocata su una cresta che si diparte da Punta Michele? Io e Paolo sicuramente, in occasione dell’esplorazione di Forcella Michele (vedi l’itinerario). Ora, il cuore roccioso che, osservato dalle pendici del Cristallino, sembra poggiare in bilico sul fil di cresta, ha in verità un nome… è il Campanile Dibona, così nominato in quanto l’ardito Maestro Angelo Dibona lo scalò per la prima volta nel 1906. Al suo fianco, un dente roccioso isolato separa il Campanile Dibona da un massiccio sperone roccioso che conchiude la val de le Barache, meglio noto come “Guglia di Val Popena Alta”. Sono queste guglie la nostra meta odierna. Non, però, accedendo dalla val de le Barache ma dal versante sud, alla testata della val Popena Alta, da un circo di ghiaie alle pendici della massiccia dei Campanili di Popena e delle pareti del Piz Popena. Tale soluzione era stata già descritta nel 1925 da Ugo di Vallepiana, nel suo “Dolomiti di Cortina d’Ampezzo dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago”. Non abbiamo tuttavia rinvenuto alcuna traccia di passaggio umano, probabilmente anche a dimostrazione del fatto che l’avvicinamento al Campanile Dibona, nota meta di scalata, si svolge prevalentemente dalla val de le Barache.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto poco dopo il Passo Tre Croci, nei pressi di una vecchia casa cantoniera, là dove il Rio de Pòusa Marza incrocia la strada statale, si imbocca il sentiero n. 224, che inizia come comoda mulattiera, a tratti asfaltata. Si guadagna quota e, nei pressi di una curva della mulattiera, la si abbandona, piegando verso O ed entrando tra i mughi su distinta traccia di sentiero. Il sentiero prosegue sino alle pendici della Pòusa Marza, sempre verso O, fino a che, a quota 1936m, una traccia si stacca puntando diritta verso le rocce; tale traccia consente di montare sul sentiero n. 222, pochi metri più a monte. Ora, il sentiero si inerpica verso NNE sui c.d. Tàche (tacchi), una serie di prominenze che costituiscono un costone prativo degradante su ripide pareti rocciose affacciate sulla Pòusa Marza. Si giunge quindi ai piedi della parete rocciosa del Corno d’Angolo e, di lì a breve, si incontra il profondo impluvio detritico proveniente da Forcella Popena. Le pareti del canale sono tuttavia ben solcate da una traccia e l’attraversamento risulta agevole (fig. 1).

fig. 1 L’impluvio che scende da Forcella Popena

Superato l’impluvio, il sentiero sale fino alle rocce sovrastanti, dove un recente intervento ha permesso di posare un sistema di scalette e passerelle di legno che consentono di giungere agevolmente in Forcella Popena, 2214m.

fig. 2 Il primo tratto del sistema di passerelle che conduce in Forcella Popena

In forcella, ci accolgono i ruderi del Rifugio Popena, costruito da Lino Conti ed aperto nel 1937 (fig. 3), purtroppo destinato ad un drammatico epilogo. Se già, infatti, la seconda guerra mondiale mise a dura prova l’attività ricettiva del rifugio, nel 1948 alcuni delinquenti vi entrarono nella stagione invernale e, dopo averlo saccheggiato, lo misero a fuoco. Rimangono oggi poche macerie (fig. 4).

fig. 3 Il Rifugio Popena negli anni ’40
fig. 4 Le poche macerie che restano del rifugio Popena

Si segue ora il sentiero n. 222, scendendo verso la testata della Val Popena Alta, abbandonandolo dopo pochi metri per imboccare una nitidissima traccia che costeggia le pendici dei Campanili di Popena. Il punto d’arrivo, indicativamente, è un enorme blocco roccioso fessurato, che prende le sembianze di una “V”. Da qui, si risale faticosamente per pendii prativi, obliquando senza traccia obbligata verso i Campanili di Val Popena Alta (fig. 5 e 6).

fig. 5 Salendo sui pendii prativi senza via obbligata
fig. 6 Alle nostre spalle, il Corno d’Angolo

Si traversa quindi agevolmente un largo impluvio detritico e si risale su ancor più ripido pendio, mirando ad un evidente canalone detritico e preferendo ai tratti rocciosi le ultime chiazze erbose (fig. 8).

fig. 8 Gli ultimi tratti erbosi prima di accedere al canalone detritico, ora evidentemente visibile alle mie spalle

Terminate le chiazze erbose, si entra nel canalone (fig. 9), tenendosi sulla sinistra (destra orografica) del medesimo (fig. 10), e lo si risale senza particolari difficoltà, sino a giungere su una sella (fig. 11) che congiunge la parte apicale dei due affioramenti rocciosi entro cui si apre il canalone.

fig. 9 L’entrata nel canalone
fig. 9 Paolo sale gli ultimi metri del canalone
fig. 10 Paolo giunto nella sella

Si segue ora il crinale della sella, puntando verso O, imboccando un nuovo canale che conduce sulla sinistra del Campanile Dibona (fig. 11). Ora, le Guglie di Val Popena Alta si affermano, imponenti, sul versante meridionale (fig. 12). Caratteristico appare il dente isolato che separa il Campanile Dibona dal Campanile di Val Popena Alta.

fig. 11 La traiettoria da seguire per giungere in forcella
fig. 12 I Campanili sul versante meridionale

Praticando un po’ di divertente scrambling (fig. 13 e 14), si supera il canale e si giunge su una strettissima forcellina che separa il Campanile Dibona dagli affioramenti rocciosi di Punta Michele. Ai piedi del Campanile Dibona, un minuscolo terrazzino con muretto a secco si affaccia sull’ombroso versante N. La discesa dalla forcellina sulle ghiaie apicali è breve in termini di distanze ma non mi pare troppo agevole; consiste in tre piccoli salti di roccia caratterizzati però da fondo friabilissimo e marcio. Ugo di Vallepiana, nel 1925, la semplificava nei seguenti termini: “traversare un colletto aprentesi fra il Campanile di Dibona e la Punta Michele e scendere sul versante N. per la friabile gola e contornare il Campanile Dibona”. Con più cauto approccio, preferisco salire ulteriormente lungo la dorsale che si dirama da punta Michele, alla ricerca di un più comodo e sicuro passaggio. Si percorre, pertanto, un’agibile e breve cengetta che aggira uno sperone roccioso e si sale di circa una decina di metri, su facili roccette, fino ad incontrare un’ulteriore forcellina (fig. 15). Ora la discesa appare decisamente più facile e sicura, priva di alcun salto di roccia.

fig. 13 Paolo nei primi metri del canale
fig. 14 Lo scrambling nel tratto centrale dell’ultimo canale
fig. 15 la seconda forcellina dove è preferibile scavallare

La seconda forcellina è collocata a 2455m. La giornata è incantevole, il cielo è blu ed il sole in quota scotta ancora come in una giornata estiva. Non possiamo che esitare, contemplando il panorama circostante e crogiolandoci in questo remoto angolo del gruppo del Cristallo.

fig. 16 Il passaggio nella seconda forcella più alta è decisamente più agevole e privo di salti di roccia
fig. 17 Sotto di noi, il Campanile di Popena, contornato dal Corno d’Angolo

Un ultimo saluto al sole, che per un po’ non vedremo più, e giù sul versante N del Campanile Dibona! La discesa lungo il canalino detritico non presenta particolari difficoltà ma è pur sempre una discesa su terreno totalmente marcio e fuori traccia; pertanto, richiede un minimo di cautela (fig. 18).

fig. 18 Paolo affronta i primi ripidi metri del canale sul versante N del Capanile Dibona

Superati i primi metri a valle del canalino, ci si deve mantenere pressoché a ridosso della parete del Campanile Dibona (fig. 19), traversandone le pendici e tenendo nettamente la destra, entrando a stretto giro in un’area di grandi massi e sfasciumi (fig. 20). Superata quest’ultima sezione, continuando in diagonale verso destra, si entra dentro il ghiaione alle pendici del Campanile di Val Popena Alta. Qui il terreno diventa molto più morbido e, stringendo un po’ i denti, è possibile correrlo sciando fino a quasi intersecare il sentiero che taglia la Val de le Barache (fig. 21 e 22).

fig. 19 ai piedi della parete del Campanile Dibona
fig. 20 La sezione di grandi massi e sfasciumi, mirando al ghiaione che scende dal Campanile di Val Popena Alta
fig. 21 La traiettoria di discesa in Val de le Barache
fig. 22 Scendendo allegramente nel morbido ghiaione

Giunti alla base della Val de le Barache, il gioco è fatto! Un ultimo sguardo all’immensa valle appena traversata, immaginandola esattamente un secolo fa, a soli quattro anni dalla fine della guerra. Doveva apparire colma di rifugi e baraccamenti, scatolame e teleferiche, essendo stata un’importante base logistica dell’esercito italiano per l’intera durata del conflitto. Scendiamo quindi per il sentiero n. 222a, fino a trovare il bivio per il sentiero n. 224 che ci fa rimontare il costone boschivo occidentale delle Pale di Misurina. Giunti sulla dorsale, un magnifico panorama si apre sulla vallata sottostante, e subito riconosciamo il lago di Misurina, nostra meta. Da qui a malga Misurina il percorso è breve e piacevole, sempre in discesa.

fig. 23 Sulla dorsale delle Pale di Misurina.

La lettura della relazione di Paolo, non potrà che arricchire di dettagli e particolari quanto finora esposto! Grazie mille inoltre a Paolo, come sempre, per aver montato il video dell’avventura!

Dal Troi dei Milezinque al Cadin di Crodaccia per il Cadin del Ghiacciaio

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: E

DISTANZA: 18 km – DURATA: 6 h – DSL: 1200 m D+

DATA: 12 agosto 2022

PREMESSE

Esplorare non significa necessariamente sempre affrontare ripidi e dirupati pendii. Ci sono giornate in cui, o per ragioni meteorologiche o, banalmente, per rilassarsi, è possibile esplorare semplicemente camminando. È questo il caso presentato nell’odierno itinerario. Il meteo non promette bene e con Paolo si decide per una tranquilla passeggiata esplorativa senza caschi e imbraghi. L’obiettivo è una valle innominata, mai esplorata, conchiusa tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia. Per arrivarci, eviteremo i sentieri numerati ma saliremo fino a Pratopiazza percorrendo una traccia singolare, spesso segnata con bolli blu, meglio nota come Troi dei Milezinque.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Il Troi dei Milezinque pare così chiamarsi per l’altitudine dal quale parte. Lungo la strada statale che conduce a Carbonin, qualche tornante dopo il passo di Cimabanche, ecco una traccia che rimonta il costone erboso, inoltrandosi nel bosco (fig. 1). Superfluo sarebbe specificare a che quota ci troviamo 😉

fig. 1 L’attacco del Troi dei Milezinque

Il Troi prende subito quota (fig. 2) ed in breve conduce al facile guado del Rio di Specie. Traversato il rio, si giunge ad un’amena radura. Qui potrebbero nascere i primi problemi d’orientamento: qualche bollo blu, infatti, è presente, ma è posizionato sul lato a monte dei tronchi e non su quello a valle. In ogni caso, giunti alla radura, è necessario deviare a destra, direzione NE (fig. 3). Tale soluzione permette di raggiungere in breve il sentiero CAI n. 37 o la mulattiera, indicativamente nei pressi del quarto tornante.

fig. 2 Il Troi dei Milezinque nel primo tratto in salita
fig. 3 Paolo indica saggiamente la via da percorrere giunti alla radura

Montati sul sentiero n. 37, ci si potrebbe accontentare di procedere comodamente su nitida traccia fino al rifugio Vallandro… ma che gusto ci sarebbe… non sarebbe più un’esplorazione in stile Windchili! L’idea di base è che il Troi dei Milezinque sia invero la prima traccia storicamente aperta per arrivare a Prato Piazza. Una traiettoria diretta e veloce in mezzo al bosco, solo successivamente soppiantata dalla carrareccia e, ancora successivamente, dal sentiero CAI 37 (che di fatto si modella sulle linee della carrareccia). Pertanto, nei pressi del quinto tornante della carrareccia, ci addentriamo nuovamente nel bosco alla ricerca di una traccia e, dopo vario ravanage sul ripido versante orografico sinistro del Rio di Specie, ci imbattiamo finalmente in una morbida dorsale solcata da piuttosto evidente traccia (fig. 4).

fig. 4 Finalmente ritroviamo la traccia nel bosco

In breve, la traccia ci conduce fuori dal bosco, in una vasta radura prativa a valle della carrareccia (fig. 5). Procediamo quindi in direzione NW su comodi prati fino a che, in prossimità della curva a gomito a destra della carrareccia, si innesta una nitida traccia proveniente da un rilievo barancioso. La imbocchiamo e, facendoci strada tra i mughi, ci troviamo presto ad una quota di un cinquantina di metri a valle rispetto al Rifugio Vallandro, sopra una profonda ed angusta forra rocciosa che accoglie i primi salti del Rio di Specie (fig. 6).

fig. 5 La radura prativa dove spunta il Troi dei Milezinque
fig. 6 I primi salti di roccia del Rio Specie, prima di entrare nella profonda forra

Lasciata alle spalle la ripida forra, ci si apre di fronte un panorama delizioso: i noti verdi prati di Prato Piazza ci abbracciano e l’occhio non può che rilassarsi e godere di questo bucolico panorama (fig. 7 e 8).

fig. 7 Le sorgenti del Rio di Specie
fig. 8 I verdi prati di Prato Piazza

Traversando i prati senza via obbligata, ci teniamo leggermente a sinistra, puntando l’ora ben visibile Croda Rossa, fino a giungere ad uno steccato di legno. Lo saltiamo e scendiamo attraversando nuovi prati, fino a montare sul sentiero CAI n. 18. Procediamo per poche decine di metri sul sentiero n. 18, superando sulla sinistra il ponticello di legno che conduce alla Val dei Chenòpe e giungendo in breve ad una radura prativa dove sorgono alcuni casoni di legno. Superiamo un nuovo steccato di legno e, con deviazione sulla sinistra poco dopo una magnifica veduta da cartolina (fig. 9), giungiamo alla confluenza di ruscelli poco sopra Malga Stolla. Incredibile pensare che, solo tre settimane prima, questa confluenza era popolata di artistici ometti creati da qualche esperto e paziente artista dello stone balancing (vedasi fig. 6); qualche giorno fa, un violento acquazzone deve aver riempito d’acqua questa confluenza, spazzando via tutte le creative opere.

fig. 9 Poco dopo questa visione idilliaca, sulla sinistra, lasciamo il sentiero e deviamo nel bosco per una scorciatoia

Una volta attraversato il torrente, seguiamo il sentiero CAI n. 3 fino ad imbatterci in un evidente bivio (fig. 10). Sulla destra, indicato con tanto di freccia su masso, prosegue il sentiero n. 3. Sulla sinistra, invece, si sale sino a sbucare in una nuova radura prativa, ai piedi della brulla collina che dà accesso al Cadin di Croda Rossa. Teniamo quindi la sinistra al bivio ed iniziamo ad inerpicarci faticosamente tra roccette e zolle erbose (fig. 11), puntando leggermente verso destra, in direzione dello sperone orientale delle Cime Campale. La brulla collina ai piedi del Cadin di Croda Rossa è letteralmente cosparsa di residuati bellici; sappiamo, infatti, che venne utilizzata durante la II guerra mondiale come poligono di tiro e, a quanto pare, mai adeguatamente bonificata!

fig. 10 Il bivio: tenendo la sinistra si abbandona il sentiero CAI n. 3 e ci si accede al Cadin di Croda Rossa
fig. 11 Paolo affronta la faticosa salita della brulla collinetta

Giunti ai piedi dello sperone orientale delle Cime Campale, ci dirigiamo verso O, fino a trovarci al cospetto dell’imponente fronte del rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio (fig. 12). Da questo punto, già si intravede il Cadin di Crodaccia, meta dell’odierna escursione, ma una breve divagazione all’interno del Cadin del Ghiacciaio è d’obbligo. Ci portiamo quindi nei pressi della metà del Cadin del Ghiacciaio, dove la fronte diminuisce di altezza, ed attacchiamo il ripido piano detritico (fig. 13).

fig. 12 Di fronte alla fronte del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio
fig. 13 Attaccando la fronte del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio nel punto apparentemente più agevole

Ed eccoci sopra il rock glacier! L’ambiente è suggestivo, affascinante, selvaggio. Sono lieto di vedere che Paolo nutre lo stesso entusiasmo e percepisce le stesse emozioni che questo luogo, già esplorato tre settimana fa, suscita in me. L’ultima volta che ho esplorato il rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio mi sono trattenuto nella sezione apicale, ai piedi di Forcella Campale, per poi scendere direttamente nel lobo settentrionale. Il rock glacier, infatti, è suddiviso in due lobi: un lobo settentrionale ai piedi della Crodaccia Alta ed un lobo meridionale ai piedi delle Cime Campale. Maggiori approfondimenti sulle caratteristiche di questo rock glacier e sulla storia delle ricognizioni ad opera dei glaciologi possono essere trovati leggendo la relazione della traversata di Forcella Campale, compiuta tre settimane or sono. Nella giornata odierna, visto che il tempo sembra reggere, mi preme esplorare la linea di separazione tra i due lobi per verificare la presenza di affioramenti di ghiaccio, solo minimamente rilevati in sede di precedente ricognizione. Ci addentriamo quindi nel Cadin del Ghiacciaio, cercando di individuare la linea di demarcazione tra i due lobi… e presto la troviamo, distinguendo chiaramente una depressione lineare che solca longitudinalmente il Cadin del Ghiacciaio, coperta da ghiaie più “fresche”, segno di recente e costante movimento (fig. 14). Seguiamo dunque questa linea per poche decine di metri ed ecco i primi affioramenti di ghiaccio: il margine sinistro del lobo meridionale del rock glacier è completamente esposto, mettendo in luce piani inclinati, alti diversi metri, di puro ghiaccio compatto (fig. 15, 16 e 17). Altro che ghiaccio interstiziale!!! Questo rock glacier è al contrario un vero e proprio ghiacciaio coperto, solo in superficie, da un mantello detritico!

fig. 14 Trovata la linea di demarcazione tra i due lobi
fig. 15 Alla base delle pareti di ghiaccio defluisce l’acqua di fusione, creando probabilmente un rio sottoterraneo che confluisce nel laghetto termocarsico
fig. 16 Il margine sinistro del lobo meridionale svela compatte pareti di ghiaccio
fig. 17 Si distingue chiaramente la linea di separazione tra i due lobi, soggetta evidentemente a continui movimenti

Conclusa la ricognizione lunga linea centrale di suddivisione in due lobi, torniamo indietro, camminando ora sul lobo settentrionale del rock glacier. In breve, il nostro orecchio è catturato da sinistri suoni di crolli. Fortunatamente, io conosco già la causa di questi inquietanti rumori e tranquillizzo Paolo, che già sta scrutando con occhio vigile le vicine pareti: siamo ormai nei pressi del laghetto termocarsico ed i rumori che s’odono sono invero causati dal materiale detritico che dai margini estremi della riva crolla in acqua rotolando lungo le pareti ghiacciate. Nonostante abbia da poco visitato questo luogo, la meraviglia resta tale quale durante la prima esplorazione (fig. 18 e 19). Osservando le alte e compatte pareti di ghiaccio del laghetto, si ha ulteriore conferma che il rock glacier ospitato nel Cadin del Ghiacciaio altro non è che un vero e proprio ghiacciaio coperto da un sottile strato di detriti.

fig. 18 Il laghetto termocarsico svela la presenza di un vero e proprio ghiacciaio sotto il superficiale strato di detriti
fig. 19 I continui crolli lungo i bordi del laghetto termocarsico

Una curiosità: a quanto pare, nel 2015 il nostro laghetto termocarsico aveva un fratellino! Evidentemente, il tappo di ghiaccio sul fondo del laghetto si dev’essere sciolto, facendo così defluire l’acqua nei meandri del ghiacciaio!

fonte BING, immagine scattata il 27 agosto 2015

Terminata la contemplazione del laghetto termocarsico, ritorniamo ora all’obiettivo della nostra missione: l’esplorazione della valle conchiusa tra la Crodaccia Alta e la Crodaccia. Dal laghetto, fronte a valle, ci teniamo sulla sinistra fino ai piedi dello sperone orientale della Crodaccia Alta ed intravediamo pure un ometto! Costeggiamo quindi la parete rocciosa e, girato l’angolo, eccoci entrati nella valle innominata, d’ora in poi battezzata Cadin di Crodaccia (considerata la sua collocazione, dubito qualcuno possa sollevare obiezione di sorta!) (fig. 20 e 21).

fig. 20 Il Cadin di Crodaccia
fig. 21 Le colate detritiche dalla Crodaccia

Il Cadin di Crodaccia si presenta come una piccola valle celata, sul versante meridionale, dalle alte pareti rocciose della Crodaccia Alta e, sul versante settentrionale, dalle ghiaiose pendici della Crodaccia. Nel versante occidentale del Cadin di Crodaccia, là dove le compatte rocce della Crodaccia Alta si intersecano con le friabili colleghe della Crodaccia, si profila una forcella, non segnata sulla cartografia Tabacco. Non è da escludere che, percorrendo tale forcella (fig. 22), si riesca a trovare una nuova via per giungere in cima alla Crodaccia Alta oppure, più semplicemente, per compiere una traversata dal Cadin di Crodaccia al Cadin conchiuso tra la Croda Rossa Piccola e La Crodetta. Oggi, tuttavia, il meteo non ci permette ulteriori divagazioni e ci rimettiamo presto sulla via del ritorno. Scendiamo quindi lungo la ripida collinetta che confina con l’ancor più ripida fronte del rock glacier e ci immettiamo presto nel sentiero CAI n. 3. Di lì a breve, giungiamo a Malga Stolla per un pranzo ristoratore!

fig. 22 La possibile via per un’esplorazione futura
fig. 23 La discesa dal Cadin di Crodaccia, ai margini della dirupata fronte del rock glacier

Giusto il tempo di assaporare un delizioso tagliere di affettati ed il cielo inizia a coprirsi minacciosamente… finiamo in fretta e via di gran carriera traversando i prati di Prato Piazza sferzati da un piacevole vento fresco (fig. 24 e 25)! Scendiamo alternando tratti di sentiero n. 37 con pezzi del Troi dei Milezinque, ormai sotto una debole pioggia e contemplando un temibile temporale sul circo glaciale del Cristallo le cui pareti, in pochi minuti, diventano completamente innevate (fig. 26 e 27)! Tempo di arrivare alla macchina ed esplode il diluvio universale 😉 Anche questa volta ci è andata bene!

fig. 24 Il tempo sta cambiando quando siamo in Prato Piazza
fig. 25 Una nuvola minacciosa sta covando sulla cima del Monte Cristallo, ora nascosta dietro il Col Rotondo dei Canopi
fig. 26 Ed ecco il temporalone in Val Fonda
fig. 27 e le pendici settentrionali del Cristallo e del Piz Popena innevate!

Ringrazio Paolo per la sempre magistrale regia nel montare il video, sintesi perfetta dell’avventura trascorsa!

Per ulteriori approfondimenti, infine, non può mancare la lettura del report scritto da Paolo nel blog My Best Time Hiking!

Traversata di Forcella del Rauhkofel: dalla Val della Fontana di Sigismondo alla Val Fonda

(con apertura di nuova via in discesa!)

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA. Discesa dalla Forcella del Rauhkofel alla Val Fonda: PD+. Traversata alpinistica di media lunghezza ed impegno fisico, con diversi passaggi di I grado, tendenzialmente sempre poco esposti, ed un paio di passaggi di II grado su roccia friabile. Necessità di allestire una sosta per una calata ripida di ca 10m (in salita, V grado).

DISTANZA: 15 km – DURATA: 7.30 h – DSL: 800 m D+

DATA: 14 agosto 2022

PREMESSE

Come ormai molte delle avventure Windchili, anche questa scaturisce da un precedente tentativo incompiuto dell’amico Riccardo di congiungere, in discesa, la Val della Fontana di Sigismondo con la Val Fonda transitando per Forcella del Rauhkofel. Siamo nel gruppo del Cristallo, versante orografico sinistro del rio Val Fonda, ambiente inviolato ed estremamente selvaggio, già in più di un’occasione meta d’esplorazione (vedi l’esplorazione del ghiacciaio del Cristallo e la discesa in Val Fonda da Forcella Michele). Informazioni su questo itinerario sono davvero scarne, come di consueto d’altro canto. La seguente è la terza relazione mai pubblicata della discesa in Val Fonda dal Monte Rauhkofel. La prima fu pubblicata da Theodor Wundt nel 1893, primo uomo a compiere la discesa sul versante est dalla cima del Rauhkofel ma non primo, invece, a compierne la salita. La prima ascensione del Rauhkofel, infatti, è datata 1883 e porta la firma W. Eckerth. Questi, tuttavia, non s’azzardò a scendere in Val Fonda, ritenendo che “dovunque avessimo tentato la discesa, saremmo sempre finiti sulle pareti compatte e verticali della Val Fonda, per le quali è assolutamente impossibile scendere.” (W. Eckerth, Il gruppo del monte Cristallo – 1891, La Cooperativa di Cortina, 1989, pag. 102). Così impossibile non dev’essere sembrato a Wundt dodici anni dopo! Wundt, peraltro, scelse una traiettoria differente rispetto alla linea da noi studiata per quest’avventura, più diretta e più a N, calandosi direttamente dalla cima del monte Rauhkofel. Ecco le sue parole, corredate dalla celebre fotografia (fig. 1): “Arrivando dall’alto su roccia molto friabile, avevamo raggiunto una cengia le cui rocce scivolose non potevano essere superate direttamente. Qui è stato necessario scendere in corda doppia. La fune è stata fatta girare intorno a un masso a questo scopo, e uno alla volta ci siamo imbragati ad essa e ci siamo tirati giù. (…) Il resto della discesa è stato facile, ma la passeggiata attraverso la Val Fonda è stata ancora più confortevole.” (Vanderungen in den Ampezzaner Dolomiten, Deutsche Verlags-Anstalt, 1895, pag. 66).

fig. 1 La calata in corda doppia di Theodor Wundt

Successivamente a Wundt, si deve pazientemente attendere la penna di Marco di Tommaso, Cristina Bacci e Angelo Zangrando che, a distanza di 110 anni, descrivono la discesa del Rauhkofel nel libro “Avventure nelle Dolomiti Orientali” (Tamari Montagna Edizioni, 2005, pag. 74). In merito, gli autori scrivevano che l’itinerario è “quasi totalmente non segnalato su terreno impervio, destinato ad escursionisti esperti“. Noi oggi abbiamo preferito una traiettoria più meridionale di quella identificata da Wundt, e solo per il primo tratto aderente a quella scelta da Di Tommaso e dai suoi compagni; il nostro percorso pertanto, parrebbe risultare assolutamente inedito. Non possiamo tuttavia dare per certo che l’odierna spedizione sia stata la prima a calcare tale traiettoria. Fin dai primi mesi di ostilità della prima guerra mondiale, infatti, il Monte Rauhkofel era “saldamente presidiato dagli austriaci, che occupavano con notevoli forze il rovescio delle forcellette di cresta.” (A. Berti, 1915-1917, Guerra in Cadore e in Ampezzo, Mursia, pag. 104). Non minore importanza strategica, peraltro, rivestivano tali postazioni per gli italiani; dal Rauhkofel, infatti, il comando italiano temeva potessero essere sferrati fatali attacchi alle truppe che dal Ponte della Marogna avessero dovuto spingersi a Carbonin. Per tale ragione, “violenti attacchi italiani, sferrati nell’autunno 1915 (11-12 settembre; 21-2 ottobre), nel corso di azioni di più ampio raggio, si erano infranti come ondate contro uno scoglio alla base del monte” (A. Berti, Id.). Non è quindi da escludere che qualche ardimentoso soldato, italiano o austriaco, abbia già faticosamente percorso la nostre odierna traiettoria! Un’ultima nota storica: le carte riportano spesso la dicitura “Rauchkofel – Monte del Fumo”. La cima, invero, si chiama “Rauhkofel – Monte Scabro”. La trasformazione toponomastica è ascrivibile ad un errore degli interpreti italiani che mutarono il tedesco “rau” (ruvido, scabro) con “rauch” (fumo).

La squadra per l’avventura esplorativa di oggi è composta da Paolo, Riccardo ed Edoardo (oltre, ovviamente, al sottoscritto!).

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto nei pressi di Carbonin, una mulattiera si innesta, a quota 1457, sulla passeggiata della ferrovia. La si imbocca e, dopo un breve tratto nel bosco, ci si addentra sulle ghiaie della Val della Fontana di Sigismondo, risalendo la valle su chiara traccia, dapprima sul versante orografico sinistro e, poi, su quello destro (fig. 2 e 3).

fig. 2 Le prime ghiaie della Val della Fontana di Sigismondo
fig. 3 Già si intravede la Forcella del Rauhkofel

L’incedere è agevole fino all’attraversamento di un ripido impluvio che segna il termine della traccia (fig. 4). Ci si porta quindi sul greto e, senza via obbligata, si raggiunge in breve la parte apicale della Val della Fontana di Sigismondo, là dove i baranci lasciano il passo alle scomode ghiaie franate dal Rauhkofel e dalla Costabella (fig. 5).

fig. 4 L’impluvio che segna il termine della traccia e presso il quale è necessario scendere nel greto
fig. 5 La parte apicale della Val della Fontana di Sigismondo

La Forcella del Rauhkofel è ormai sempre più vicina; un ultimo ripido tratto di ghiaie (fig. 6) ed iniziamo ad avvistare i resti dei baraccamenti austriaci della prima guerra mondiale (fig. 7). L’imponente quantità di scatolame arrugginito ed ossa di ungulati (probabilmente cervi, viste le dimensioni!!!) (fig. 8) ci fanno intuire quanto tempo i soldati austriaci abbiano “soggiornato” presso questa linea.

fig. 6 L’ultimo ripido tratto di ghiaione prima della Forcella del Rauhkofel
fig. 7 I resti dei baraccamenti austriaci.
fig. 8 Una mascellona, verosimilmente di cervo, probabile cena di un secolo fa dei soldati austriaci

Giunti in Forcella del Rauhkofel, 2250m, la vista è spettacolare. Da una forcelletta pochi metri prima della Forcella, sulla cresta rocciosa, si può ammirare verso N la cima del Rauhkofel, 2358m (fig. 9). Dalla Forcella del Rauhkofel, verso S, si profila maestoso il ghiacciaio del Cristallo, sovrastato dalle cime del Cristallo e del Piz Popena (fig. 10 e 11).

fig. 9 Riccardo e, alle sue spalle, la cima del Rauhkofel
fig. 10 Le cime del Piz Popena e del Cristallo sorvegliano il sottostante ghiacciaio del Cristallo
fig. 11 In forcella!

Inizia ora la parte più esplorativa e delicata dell’itinerario. Si valica la Forcella del Rauhkofel verso S e si scende, piuttosto agevolmente, tra innumerevoli resti di filo spinato, fino al verde pendio prativo; un vero e proprio giardino pensile rigoglioso, aereo, contornato da profondi precipizi (fig. 12 e 13).

fig. 12 Il versante S di Forcella del Rauhkofel
fig. 13 Sul pulpito prativo; alle spalle, il ghiacciaio del Cristallo!

Si scende quindi fino ai margini più bassi del prato, tenendo la sinistra, fino ad imboccare un ripido canale che scende verso E (fig. 14). Si inizia ora la discesa su terreno abbastanza solido (fig. 15); la roccia, infatti, è spesso levigata dall’acqua e la progressione in disarrampicata risulta gradevole e semplice (fig. 16) sino a che, nei pressi di una strettoia, ci troviamo di fronte ad un bel salto di circa una decina di metri (fig. 17). L’itinerario sino a qui svolto parrebbe ricalcare la linea scelta da Marco Di Tommaso e dai suoi compagni: “Valicata verso sud la Forcella Rauhkofel, si scende nel versante opposto, seguendo una traccia di sentiero che, con numerosi zig-zag, solca il pendio erboso sotto il suddetto intaglio. Presso l’imbocco di un canale erboso, il sentiero scompare. Si scende per questo e, quando non è più possibile proseguire, si traversa verso destra su cengette (I) e si entra in uno parallelo“. A differenza di Di Tommaso, però, noi preferiamo una discesa più diretta e scegliamo di continuare nel canale.

fig. 14 Il passaggio dal pendio prativo al canale
fig. 15 La sezione apicale del canale
fig. 16 La discesa nel canale è piacevole, su roccia piuttosto compatta e levigata
fig. 17 Presso la strettoia, un salto di roccia di circa una decina di metri ci impone di calarci

Iniziamo quindi ad allestire una sosta con cordino dentro una rientranza della parete e friend di supporto su compattissima roccia (fig. 18) e ci caliamo, superando il ripido salto. Apro io, segue Riccardo e chiude Edoardo (fig. 19 e 20). Da notare che, nei pressi della base del salto, fuoriesce dalla roccia una timido rigolo d’acqua sufficiente, con estrema pazienza, a riempire una borraccia!

fig. 18 Edoardo allestisce la sosta prima del salto
fig. 19 Inizio a calarmi per superare il salto di roccia
fig. 20 Riccardo in calata

Giunti alla base del salto di roccia, assecondando il pendio che degrada verso sinistra, troviamo un nuovo salto, meno marcato ma comunque esposto, e lo aggiriamo sulla destra, scendendo per ripidi mughi. Si entra ora in un curioso antro (fig. 21), particolarmente marcio, dove si effettuano un paio di passaggi delicati: un primo traverso su roccia sporca (II+ grado) (fig. 22), prestando particolare attenzione al fondo viscido, conduce in uno stretto canale di mobili sfasciumi e, dopo pochi metri, un secondo passaggio su terreno e roccia ancor più sporca e marcia (II grado) permette di superare un piccolo salto (fig. 23). L’ambiente è favoloso: siamo dentro un stretta gola inclinata con impagabile panorama sul Piz Popena.

fig. 21 Il curioso antro dentro il quale progrediamo
fig. 22 Il sottoscritto compie il traverso su fondo sdrucciolevole
fig. 23 Riccardo affronta il secondo passaggio delicato dentro la gola

Usciti dalla stretta gola, si può procedere entrando simpaticamente dentro un cunicolo, cui tetto è un enorme masso incastrato nel canale oppure, in alternativa, scendere sulla sinistra del canale su facili roccette. Ovviamente, noi non potevamo non godere di questi trenta secondi da speleologi durante la nostra esplorazione! (fig. 24 e 25)

fig. 24 Entrato nel pertugio!
fig. 25 Riccardo esce dal cunicolo!

Si scende ora per poche decine di metri, fino a che il canale si apre: sulla sinistra, un alto affioramento roccioso, riconoscibile da un masso quadrato incastrato alla sua base (fig. 26); frontalmente, le ghiaie finisco tra baranci oltre i quali s’apre il baratro; a destra, una debole traccia di camosci entra tra i mughi. Si imbocca quest’ultima traccia e si perdono circa 20/30 metri di quota a zig-zag tra il costone di mughi ed il canalino detritico che solca la sinistra del costone (fig. 27 e 28).

fig. 26 L’affioramento roccioso sulla sinistra (Riccardo è andato in perlustrazione sulla cima!)
fig. 27 Scendendo a zig zag tra i ripidi baranci
fig. 28 Edoardo scende nel canale a sinistra del costone barancioso

Si giunge quindi alla medesima quota dove, a S, un impluvio taglia il costone barancioso. Si supera verso S l’impluvio, badando di traversarlo nella sezione apicale, per evitarne i ripidi margini franosi (fig. 29). Di lì, si continua a traversare le pendici rocciose di Costabella, tenendosi sempre piuttosto in quota per accedere più agevolmente al profondo impluvio di ghiaie che separa le pendici settentrionali del Monte Cristallo dalle pareti della Costabella, fino ad individuare una sorta di “scivolo” ghiaioso che consente di entrare nell’impluvio. È fondamentale individuare questo preciso punto di accesso in quanto il solo che permette di scendere più o meno agevolmente; come si evince dall’immagine di cui all fig. 30, infatti, ogni altra traiettoria comporterebbe una calata lungo ripidi margini rocciosi.

fig. 29 L’attraversamento a monte dell’impluvio
fig. 30 La traiettoria scelta dall’uscita della gola

Una volta dentro il profondo impluvio che separa le pendici del Monte Cristallo dalla Costabella, si rimonta il ripido bordo e si individua facilmente il sentiero che conduce ai piedi del salto roccioso che separa la Val Fonda dal circo glaciale del Cristallo. Una capatina alla magica cascatella è d’obbligo (fig. 31 e 32)!

fig. 31 La cascatella ai piedi del salto roccioso che separa la Val Fonda dal circo glaciale del Cristallo
fig. 32 La cascatella alla testata di Val Fonda

Senza via obbligata, individuando qualche ometto che di volta in volta, sul versante idrografico destro della Val Fonda, indica la traccia, si scende a valle, verso il Ponte della Marogna (fig. 33 e 34), per rimontare poi l’argine artificiale sulla sinistra, in corrispondenza della casetta di legno. Di qui si scende l’argine sulla sinistra, abbandonando la Val Fonda e dirigendosi, su comoda mulattiera, verso Carbonin in mezzo al bosco.

fig. 33 Riccardo in Val Fonda
fig. 34 La strettoia della Val Fonda

NOTE CONCLUSIVE

L’itinerario è divertente e non presenta particolari difficoltà tecniche, salvo la necessità di allestire una singola sosta per calata di 10 m. Il panorama, per l’intero svolgimento, è mozzafiato: Piz Popena, ghiacciaio del Cristallo e Monte Cristallo sono la cartolina che ci accompagna dalla Forcella del Rauhkofel alla Val Fonda. Unica sorpresa: ad eccezione del filo spinato in Forcella Rauhkofel, non abbiamo rinvenuto alcun reperto bellico. Ciò è davvero singolare, considerate le premesse storiche. Evidentemente, il versante meridionale del Rauhkofel doveva apparire ai soldati italiani veramente inaccessibile, al punto da concentrare tutti i tentavi di conquista sul versante settentrionale. Salvo prova contraria, possiamo quindi fieramente affermare di essere stati i primi, oggi, ad aprire questa nuova traiettoria di discesa!

Anello del Monte Rudo

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA/PD. Lunga traversata alpinistica in ambiente severo, di per sé priva di difficoltà tecniche ma con diversi passaggi esposti e su terreno spesso incerto a causa della massiccia erosione.

DISTANZA: 15,5 km – DURATA: 9 h – DSL: 1400 m D+

DATA: 31 luglio 2022

PREMESSE

Già l’estate scorsa, l’amico Paolo aveva portato alla mia attenzione il giro ad anello del Monte Rudo (Rautkofel), con discesa per la Val Bulla. Su questo itinerario, alcune relazioni sono già state pubblicate. Ve ne sono talune, peraltro, che recano date piuttosto risalenti (addirittura 2009) e, in quanto tali, non possono essere considerate attendibili. Eventi atmosferici particolarmente intensi, infatti, si sono abbattuti nel corso degli anni successivi sulle Dolomiti; uno tra tutti, nell’agosto del 2017, ha di fatto sconvolto la topografia locale, cancellando letteralmente alcuni sentieri. È questo il caso della traccia che raggiunge la forcella del Rondoi percorrendo il versante meridionale del Monte Rudo, per poi immettersi in Val Bulla. Nel 2021, contattammo una guida alpina che, addirittura, rifiutò di accompagnarci nella discesa per la Val Bulla, memore della crisi di nervi di un povero cliente nell’attraversamento dei numerosi profondi impluvi che solcano la valle. E questa storia fu per noi il seme della curiosità. Abituati ad esplorare impervie valli selvagge, avvezzi all’impluvio quanto al barancio, non potevamo non esplorare anche la famigerata Val Bulla! Oltre ovviamente a Paolo, accettano di buon grado di unirsi all’avventura Edoardo, ormai compagno immancabile di ogni esplorazione Windchili, e Marco, alla prima uscita con il nostro gruppetto!

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto nei pressi della ex fortificazione austriaca del Forte di Landro (Werk Landro), 1400m, si imbocca una mulattiera erbosa che, in breve, conduce alla traccia che risale a serpentine le pendici occidentali del Teston di Rudo. Si apre tra i mughi, di tanto in tanto, uno splendido panorama sul lago di Landro, sovrastato dal monte Cristallo e dal Popena. La Val Fonda, nella parte apicale, svela la fronte del ghiacciaio del Cristallo… e constatiamo che questo non è ormai più diviso in due lobi, come da rilevamenti svolti nelle esplorazioni degli ultimi due anni, ma è retrocesso ben sopra il grande affioramento roccioso che lo divideva (fig. 1).

fig. 1 Il panorama sulla Val di Landro e, all’orizzonte, il monte Cristallo ed il Piz Popena

Il sentiero, in costante salita, porta subito a guadagnare ca 700 m D+, fino a giungere ai ruderi di un insediamento austriaco della prima guerra mondiale, a quota 2175m (fig. 2 e 3).

fig. 2 Appropinquandoci all’insediamento militare austriaco di quota 2175m
fig. 3 Curiosando dentro una fortificazione, con vista sul monte Piana e, all’orizzonte, su monte Cristallo, Piz Popena e Cristallino di Misurina

Il sentiero risale ora con decisione una dorsale rocciosa (fig. 4 e 5) puntando allo sperone occidentale del Teston di Rudo (fig. 6).

fig. 4 Il sentiero rimonta decisamente una dorsale rocciosa
fig. 5 Paolo affronta la dorsale rocciosa nella parte superiore rispetto alle fortificazioni militari austriache, ben visibili in basso a destra
fig. 6 Edoardo ai piedi dello sperone occidentale del Teston di Rudo

Si prosegue ora ai piedi della parete, alternando passaggi su brevi cenge esposte (fig, 7 e 8) e franosi impluvi detritici (fig. 9).

fig. 7 La traccia si sviluppa ora in leggera inclinazione, su cengia esposta
fig. 8 La progressione in cengia non presenta, comunque, alcuna difficoltà
fig. 9 Attraversando i vari impluvi che solcano i pendii della montagna

Questa prima sezione dell’itinerario non presenta particolari difficoltà, se non un paio di passaggi da affrontare con cautela: rispettivamente un brevissimo tratto di arrampicata per superare un salto roccioso di un paio di metri (fig. 10 e 11) ed una stretta cengia esposta (fig. 13 e 14). I due passaggi delicati sono separati da una tranquilla progressione in cengia (fig. 12).

fig. 10 Edoardo supera con agile classe il breve salto roccioso
fig. 11 Paolo si appresta a superare il salto di roccia
fig. 12 Paolo ed io che procediamo in cengia
fig. 13 Paolo affronta l’esile traccia che taglia la parete
fig. 14 Il sottoscritto per percorre la cengia

Ora la traccia prosegue ai piedi della parete (fig. 15), senza alcun passaggio esposto o pericoloso, fino a giungere nei pressi dello sperone meridionale del Teston di Rudo, intorno a quota 2500m, in prossimità di una serie di fortificazioni militari dalle quali gli austriaci bombardavano il Monte Piana nel 1915 (fig. 16 e 17).

fig. 15 La traccia prosegue ai piedi della parete
fig. 16 Marco visita i ruderi dell’avamposto militare austriaco
fig. 17 Sull’opposto versante dello sperone meridionale del Teston, si rinvengono altre fortificazioni

Imponente, di fronte a noi, la parete meridionale del Monte Rudo ovest (fig. 18), separata dallo sperone su cui ci troviamo da una valle ghiaiosa che conduce direttamente in Val Rienza. Intravediamo la traccia che risale esposte balze rocciose alle pendici del Monte Rudo ovest e, per sicurezza e comodità, scegliamo fin d’ora di imbragarci. Una coppia, che ci precedeva, abbandona la traccia e scende lungo il ghiaione verso la Val Rienza: è l’ultima “via di fuga” prima di affrontare la sezione più delicata del versante meridionale del Monte Rudo.

fig. 18 Il Monte Rudo ovest e, in rosso, la traccia da seguire.

Seguiamo la traccia, che perde quota, superando prima uno sperone roccioso (fig. 19) per poi raggiungere il fondo del vallone ghiaioso e, quindi, rimontare le ghiaie fino alle pendici della parete del Monte Rudo ovest (fig. 20). Un primo passaggio delicato su terreno cedevole ci conduce al vertice dello spigolo meridionale del Monte Rudo ovest (fig. 21). Di lì, la traccia supera una serie di impluvi friabili (fig. 22 e 23) che separano il Monte Rudo ovest dal Monte Rudo di mezzo.

fig. 19 Al vertice dello sperone roccioso che separa il vallone che scende in Val Rienza
fig. 20 Edoardo raggiunge la base della parete del Monte Rudo ovest
fig. 21 Paolo risale su terreno cedevole lo spigolo roccioso meridionale del Monte Rudo ovest
fig. 22 Paolo supera gli impluvi che separano il Monte Rudo ovest dal Monte Rudo di mezzo
fig. 23 Edoardo supera uno dei vari impluvi che cancellano il sentiero

Si giunge ora su una comoda sella, nei pressi di una caverna nella roccia. La traccia, che fino ad ora puntava verso E, devia bruscamente verso N/NE, aggirando lo spigolo meridionale del Monte Rudo di mezzo. Qui inizia la parte più “seria” della traccia sul versante meridionale del Monte Rudo. La “serietà” non è tanto dovuta alla difficoltà dei passaggi quanto all’aumentare dell’esposizione. Il versante meridionale del Monte Rudo di mezzo, infatti, si biforca in due ripidi speroni rocciosi e la traccia traversa le verticali e friabili pareti su un terreno sempre più dilavato ed incerto. Il primo assaggio di quanto ci aspetta lo troviamo nei primi metri dopo la selletta. Il costone orientale della sella è completamente smottato, cancellando il sentiero. Ci troviamo quindi costretti a progredire con estrema cautela, dapprima su zolle erbose e poi sulla più solida (solida???) roccia (fig. 24). Esemplare è il confronto con quanto fotografato da una comitiva nel 2017 (fig. 25) (fonte).

fig. 24 Superato il primo tratto critico. È evidente il collasso del costone che ha spazzato via il sentiero
fig. 25 Immagine scattata nel 2017, quando ancora esisteva il sentiero

Ed ora la parte più caratteristica e delicata del sentiero. Una stretta ed esposta cengia inclinata e gradinata conduce al bordo di un salto di roccia di circa tre metri. Una scaletta in alluminio, fissata alla base con due cordini non propriamente “stabili” legati ad un chiodo da roccia, permette di superare il salto (fig. 26). Pericolosissimo, invece, è il cordino che lega la scala, nella parte apicale, al fittone di guerra. Fortunatamente, ho saggiato la solidità del fittone prima di scendere la scala e… un po’ come il giovane Artù nella spada nella roccia, ho letteralmente estratto il pesante fittone dalla parete!!! Ho quindi abbandonato il fittone a terra poiché, se qualcuno dovesse reggersi sul cordino mentre scende la scala, si tirerebbe addosso l’intero fittone… scenario non proprio auspicabile, considerato che la scala poggia su una selletta che degrada nel vuoto. Una volta, la scala di alluminio era affiancata da una scala di legno… ora la vecchia scala di legno giace, in pensione, sul roccione di fronte alla selletta (fig. 27). Come anticipato, per giungere alla scala di alluminio è necessario percorrere un’esile cengia che, per pochi passi, si affaccia sul baratro sottostante. Provvidenziale è un ulteriore fittone, ben infisso pochi metri prima dell’imbocco dell’esposta cengia (fig. 28). È su questo fittone che Edoardo allestisce un punto di manovra per assicurarci mentre ci appropinquiamo alla scaletta. Apro io e scendo tranquillamente. Appena giunto sulla selletta, è mia premura tenere ferma la scaletta per i miei compagni d’avventura che si apprestano alla discesa (fig. 29 e 30).

fig. 26 In basso a sinistra si distingue il cordino che lega la parte apicale della scala di alluminio al fittone. Ora il fittone è riposto a terra, onde evitare tragici incidenti. In rosso, la prosecuzione della traccia rimontando il secondo sperone roccioso del Monte Rudo di mezzo
fig. 27 Il riposo della vecchia scala di legno, dopo chissà quanti anni di onorato servizio
fig. 28 Il fittone (questa volta ben fisso!) su cui faremo sicura
fig. 29 Marco procede assicurato verso la scaletta
fig. 30 Pronto a tenere ferma la scaletta prima del passaggio dei miei compagni d’avventura

Scesi tutti dalla “scaletta mobile”, realizziamo che i successivi metri sono altrettanto complicati. Non tanto per la difficoltà tecnica (di fatto assente) quanto per la combinazione di esposizione e terreno friabile. Si potrebbe certamente procedere slegati ma perché rischiare la vita, visto che abbiamo tutto l’occorrente per una progressione sicura? Cerchiamo quindi di allestire una sosta per assicurarci ma la roccia è completamente marcia. Per ben quattro volte Edoardo prova a piantare un chiodo ma la roccia si sgretola intorno non appena il chiodo entra (fig. 31). Alla fine rinunciamo e decidiamo di usare il chiodo che regge la scala per assicurarci. Mi cimento per primo in questo tratto di traversata all’interno dell’anfratto roccioso e senza alcun problema giungo in un punto più sicuro, superando il tratto esposto (fig. 32 e 33). Tocca ora a Marco e Paolo traversare (fig. 34 e 35).

fig. 31 La roccia non vuole accogliere i nostri chiodi ;-(
fig. 32 Inizio la traversata del tratto esposto
fig. 33 Una panoramica rende l’idea dell’ambiente dove si sviluppa la traccia
fig. 34 Paolo traversa la cengia insidiosa
fig. 35 Marco e Paolo hanno superato il tratto più esposto. L’immagine rende l’idea dell’esposizione

Giunti nel punto più “sicuro” per slegarsi, ancora le difficoltà non sono terminate. Si tratta ora di rimontare un ripido spigolo coperto di friabili ghiaie (fig. 36). Finalmente, in sella allo spigolo, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Riguardiamo indietro e solo ora realizziamo quanto la traccia che abbiamo percorso sia aerea e friabile (fig. 37).

fig. 36 Marco e Paolo superano il ripido e friabile pendio
fig. 37 Uno sguardo retrospettivo ci fa apprezzare appieno l’esposizione del tratto percorso.

Nei pressi della selletta erbosa, intorno a quota 2520m, troviamo anche una curiosa trincea contenente un libro di sentiero. Peccato che il contenitore sia vuoto e non avremo mai modo di lasciar traccia in loco del nostro passaggio. Ora, è fondamentale badare a non perdere la traccia: dalla trincea, proseguendo verso NE, il costone della montagna collassa (fig. 38). La traccia, tuttavia, non segue tale direzione ma si inerpica a monte, in direzione NO, su facili e stabili roccette, per circa una cinquantina di metri, esattamente nell’intaglio tra il Monte Rudo di mezzo ed il Monte Rudo Grande.

fig. 38 Il costone della montagna collassato; all’orizzonte, il Monte Mattina (Morgenkopf), 2493m
fig. 39 La traccia devia bruscamente rimontando verso NO su facili roccette

Più prendiamo quota più aumenta l’intaglio tra il Monte Rudo di Mezzo ed il Grande. Un ultimo tratto in arrampicata e giungiamo ad una comodissimo crinale erboso da cui si domina tutto ciò che di bello c’è da vedere nei dintorni! Una sosta ristoratrice è ora d’obbligo… e mentre ci rifocilliamo, spunta pure fuori il sole!!!

fig. 40 Finalmente una sosta!
fig. 41 E le nuvole, alla fine, si diradarono.

La traccia si sviluppa ora su terreno più dolce, traversando un enorme cengia erbosa sul versante meridionale del Monte Rudo Grande. Si traversa ancora un piccolo ghiaione (fig. 42), per poi rimontare l’ennesimo spigolo friabile, con attenzione e cautela, su terreno cedevole e ripido (fig. 43 e 44).

fig. 42 Traversando il ghiaione che taglia il versante meridionale del Monte Rudo Grande
fig. 43 Edoardo ed io sulle pendici del Monte Rudo Grande
fig. 44 Ancora una volta superiamo friabili e ripidi costoni ai piedi delle pareti del Monte Rudo

Ed ecco che finalmente avvistiamo la forcella che conduce al Passo Grande del Rondoi, incorniciata da due ometti (fig. 45)!! Sono passate poco meno di sei ore e siamo al punto di svolta; giunti nel ghiaione che separa il Monte Rudo Grande dallo sperone meridionale della Croda del Rondoi, non si deve proseguire verso E ma deviare verso N, su modestamente ripide ma agevoli ghiaie fino a guadagnare la Forcelletta del Rondoi (Schwalbenjöchl), 2672m (fig. 46, 47 e 48).

fig. 45 In alto, sul profilo di cresta, si intravedono i due ometti che indicano l’accesso per scendere al Passo Grande del Rondoi. Sopra il mio caschetto, invece, le bianche ghiaie sulle quali ci si deve inerpicare, verso N
fig. 46 Edoardo attacca il ghiaione fino alla Forcelletta del Rondoi che conduce alla Val Bulla.
fig. 47 Paolo risale gli ultimi metri di ghiaione fino alla Forcelletta del Rondoi
fig. 48 In forcella!

Ed eccoci a scendere in Val Bulla! La pendenza è contenuta e le ghiaie sono belle morbide; l’ideale per una veloce sciata in discesa!

fig. 49 Si scende come treni su un fondo bello cedevole!
fig. 50 Cala l’adrenalina, il peggio è passato!

Là dove il ghiaione perde pendenza, si individua una debole traccia tra chiazze d’erba (fig. 51), con ometto, e la si imbocca, badando però di abbandonarla per deviare verso la sinistra orografica della Val Bulla, non appena ci si avvicina ai baranci (fig. 52) (proseguendo sulla destra orografica si seguirebbe il vecchio sentiero, che tuttavia risulta ripetutamente interrotto da profondi e ripidi impluvi). A quota 2080m, in prossimità del termine del letto ghiaioso, ci si addentra tra i baranci e si iniziano a traversare semplici impluvi (fig. 53). Si prosegue, in leggera discesa, tenendosi sempre sulla sinistra orografica del Val Bulla, sino a che un muro di baranci rende più difficoltoso il passaggio. A questo punto, è alternativamente possibile scendere su ripide ma facili ghiaie sino al greto del torrente, oppure entrare nei fitti baranci fino ad un profondo e largo impluvio. Noi optiamo per la seconda soluzione e, giunti sul bordo del costone franato, allestiamo una manovra su un solido ramo di mugo per calarci in sicurezza sul fondo dell’impluvio. Ci attendono circa 20/25m di ripida calata, su un fondo estremamente friabile. Il consiglio, per chi giunge nel fondo dell’impluvio, è di abbandonare immediatamente la posizione, scendendo più a valle, poiché chi scende a monte muove inevitabile un’importante quantità di detriti (fig. 54 e 55).

fig. 51 Si individua la vecchia traccia che scendeva sul versante orografico destro della Val Bulla e la si imbocca fino a che si immette nei baranci
fig. 52 Sulla sinistra orografica della valle, intorno a quota 2080m, tra gli ultimi macigni del ghiaione, ci si immette tra i mughi
fig. 53 Si traversano alcuni semplici impluvi che hanno spazzato via il costone di baranci
fig. 54 Un enorme e profondo impluvio taglia il versante orografico sinistro della Val Bulla. Per procedere in sicurezza è opportuno assicurarsi e calarsi.
fig. 55 Mentre mi calo sul fondo dell’impluvio

Il canale dell’impluvio non è proprio morbido come il ghiaione che scendeva da Forcella di Val Bulla ma ci si diverte comunque, con qualche acrobazia, a sciarlo (fig. 56)! Usciti dal ghiaione dell’impluvio, si entra nel greto asciutto del torrente della Val Bulla e si scende tra enormi macigni e tronchi levigati dalle acque (fig. 57). A quota 1700m, un debole rigagnolo d’acqua fuoriesce in un paio di punti dalle ghiaie che hanno coperto il greto del torrente. Continuiamo a perdere quota, progredendo sul greto del torrente circondati da ripide pareti di terra compatta, solcata dall’erosione delle acque, fino a giungere ad un terrapieno di ghiaia che funge da argine (fig. 58). È proprio sull’argine che si deve rimontare, per poi ridiscenderlo nei pressi di un forte militare dal quale un obice da 105 mm bombardava massicciamente Forcella Lavaredo nel maggio 1915. Aggirato il forte, si trova la vecchia mulattiera erbosa che, in breve, riporta al parcheggio del Forte di Landro.

fig. 56 Non è proprio morbido ma comunque in qualche modo sciabile!
fig. 57 Entrati finalmente nel greto del torrente
fig. 58 Le ultime centinaia di metri nel greto, prima di salire sull’argine di ghiaia sul versante orografico sinistro

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Nonostante l’itinerario non presenti particolari difficoltà tecniche (solo qualche passaggio massimo di I/II°), l’intera traccia sul versante meridionale del Monte Rudo, in particolare la sezione del Monte Rudo di Mezzo, si sviluppa su cenge esposte e dilavate. Passo fermo e condizioni meteo stabili sono fondamentali per affrontare tale percorso, che non può assolutamente essere considerato banale e sottovalutato per l’assenza di difficoltà alpinistiche. Una riflessione finale: alcuni sentieri dolomitici, tra questi sicuramente l’anello del Monte Rudo, non saranno percorribili in eterno. Ogni anno, gli eventi atmosferici erodono le pareti, spazzando via interi costoni e dilavando le cenge, che diventano sempre più esili. In assenza di adeguata manutenzione, un sentiero come la traccia che traversa il versante meridionale del Monte Rudo è destinato a breve a scomparire e, in ogni caso, richiederà all’escursionista sempre maggior ardimento. Un’occasione in più per percorrerlo quanto prima!!!

Chi gradisse cimentarsi in questo itinerario, non potrà mancare di leggere anche la relazione del fortissimo compagno d’avventura Paolo e guardare il video da lui montato!

Traversata di forcella Campale: dal Cadin di Croda Rossa al Cadin del Ghiacciaio

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Calata di Forcella Campale: AD+. (Dovendo, come accaduto, risalire in arrampicata il tetto strapiombante, corrispondente al 4° tiro: D+).

Traversata alpinistica mediamente lunga e fisicamente non troppo impegnativa. La calata da forcella Campale al Cadin del Ghiacciaio si sviluppa su ca 150m, 100m D-, con necessità di effettuare almeno 6 calate (4 appoggiate, 1 strapiombante, 1 ripida). Nella sezione centrale, in disarrampicata, si raggiungono difficoltà di V grado. Da non sottovalutare la condizione della roccia, spesso marcia, che rende più difficoltosa la disarrampicata.

DISTANZA: 14 km – DURATA: 8,30 h – DSL: 1200m D+

DATA: 17 luglio 2022

PREMESSE

Una forcella è un valico che separa due valli. È quindi, idealmente, il punto di transito per passare da una valle all’altra… idealmente… vi sono infatti forcelle che, se da un versante si raggiungono più o meno agevolmente, dall’altro terminano nel vuoto. Io le chiamo ironicamente “forcelle terra-aria” 🙂 La Croda Rossa pare essere generosa quanto a forcelle terra-aria. La più nota è sicuramente Forcella Nord, la forcella più alta sciabile sulle Dolomiti. Si accede faticosamente su due piedi dalla Val Montejela ma si scende a quattro zampe dal lato di Forcella Nord. È un percorso di sci alpinismo piuttosto estremo ma risulta fattibile e se ne trova recensione. Altro esempio è poi Forcella Campale (Gumpalscharte). Vi si accede salendo un ripido ghiaione dal Cadin di Croda Rossa ma, giunti in forcella, si potrà scendere fino al Cadin del Ghiacciaio? È questo il quesito che Edoardo ed io ci siamo posti prima di intraprendere l’avventura. Descrizioni dell’itinerario non se ne trovano; questa è la prima relazione ad essere pubblicata. Prima di cimentarmi nell’avventura, ho ovviamente cercato di raccogliere tutte le informazioni del caso (pochissime). Un ringraziamento particolare al Maestro d’avventura dolomitica Paolo Beltrame e a Suo figlio che, disponibilissimi, hanno puntualmente riscontrato la mia richiesta di approfondimento sull’itinerario, confermando che la discesa di Forcella Campale ha carattere puramente alpinistico. Un ringraziamento speciale anche a Riccardo, che mi ha fornito i primi spunti di studio condividendo le foto del Cadin del Ghiacciaio e di Forcella Campale scattate dalla Crodaccia. Obiettivo della presente esplorazione non è, infine, esclusivamente appurare la fattibilità della calata da Forcella Campale al Cadin del Ghiacciaio ma anche verificare le condizioni dei due rock glacier collocati rispettivamente nel Cadin di Croda Rossa e nel Cadin del Ghiacciaio. Non si deve infatti dimenticare che l’Elenco dei Ghiacciai Italiani del 1925 rilevava l’esistenza del “Ghiacciaio di Croda Rossa”, cui emissario era il Rio di Stolla. Nel 1957, tale ghiacciaio risultava estinto.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto nei pressi della casa abbandonata poco dopo il passo di Cimabanche, sulla sinistra, (1523m), si imbocca il sentiero CAI n. 18 e si risale la Val di Chenópe (Knappenfusstal) (dall’ampezzano chenòpo “minatore”, in tedesco knappe) sempre costeggiando il greto del torrente (fig. 1 e 2).

fig. 1 Seguendo il sentiero n. 18 che risale la Val di Chenópe
fig. 2 Edoardo sul sentiero n. 18, nel tratto che risale le pendici più settentrionali del Knollkopf

Dopo circa 45 minuti, si supera un piccolo ponte di legno e, nell’intersezione evidente con una mulattiera, si tiene la sinistra, raggiungendo in pochi minuti un’amena radura prativa, la cui vista si apre sul Cadin di Croda Rossa (fig. 3).

fig. 3 La radura prativa a valle del Cadin di Croda Rossa

Si procede quindi lungo l’evidente mulattiera sino ad uno steccato di legno che delimita l’area di pascolo. Entrati nella recinzione, è possibile alternativamente tenere la destra, seguendo il sentiero, oppure, senza via obbligata, risalire nel bosco rado, seguendo le umide zolle che indicano la presenza di una sorgente, sino a giungere ai ruderi di una casera (fig. 4).

fig. 4 Edoardo giunto nei pressi dei ruderi della casera

Superato il rudere, si continua in direzione NO sino a montare sul sentiero n. 3. Si guada là dove più rii confluiscono, non potendo non ammirare i giochi di stone balancing realizzati da qualche mano ferma e paziente (fig. 5 e 6).

fig. 5 La confluenza dei rii provenienti dalle valli superiori
fig. 6 L’arte dello stone balancing, sempre più frequente nei torrenti di montagna

Si tiene ancora il sentiero n. 3, per poche decine di metri, fino a giungere ai piedi di uno sperone roccioso; da qui, una debole traccia devia a sinistra, in direzione SO, fino a giungere ad una radura prativa particolarmente amata dalle vacche al pascolo. Si traversa la radura e ci si inerpica, senza via obbligata, su per una collinetta pressoché spoglia, in direzione SO (fig. 7). Impressionante il numero di residuati bellici, alcuni apparentemente piuttosto recenti, al punto da nutrire qualche perplessità sul fatto che risalgano alla prima guerra mondiale. Un bossolo reca la data del 1945… dovremo approfondire quale evento bellico ha coinvolto questo versante della Croda Rossa durante la seconda guerra mondiale…

fig. 7 La radura prativa vista dalla sommità della collinetta sulla quale si deve salire
fig. 8 Il resto di un razzo, oggi colonizzato da un ragnetto
fig. 9 Decine di resti di razzo costellano la via di salita. Il numero è tale che, in questo tratto, per la prima volta mi viene in mente il concetto di “inquinamento da residuati”.

Guadagnata la sommità della collinetta, si entra ora nel Cadin di Croda Rossa, tenendo la destra, ai piedi delle Cime Campale, su levigatissima roccia talvolta solcata dai tipici karren, parimenti molto comuni sul versante occidentale della Croda Rossa, in zona Fosses. È evidente il lavoro di erosione della roccia svolto dall’estinto ghiacciaio che, una volta, occupava il Cadin di Croda Rossa (fig. 10). Sorprende, inoltre, la qualità della roccia di Cima del Pin e delle Cime Campale, sul versante del Cadin di Croda Rossa; contrariamente alle aspettative, la roccia si presenta estremamente compatta e levigata, per nulla marcia; terreno ideale per gli amanti dell’arrampicata (fig. 11).

fig. 10 Entrando nel Cadin di Croda Rossa
fig. 12 Punta del Pin, 2682m, dal Cadin di Croda Rossa

IL ROCK GLACIER NEL CADIN DI CRODA ROSSA (già “Ghiacciaio del Pin”)

Pochi metri ancora e giungiamo ai piedi della fronte del rock glacier del Cadin di Croda Rossa (fig. 13). Il Catasto dei Rock Glaciers delle Alpi Italiane del 1997 stabilisce che il Cadin di Croda Rossa ospita un rock glacier la cui fronte si attesta intorno ai 2285m e la parte sommitale intorno ai 2385m, occupando una superficie di circa 130mila mq. Tale rock glacier, definito nel 1974 “Ghiacciaio del Pin” (Pin Ferner) dal glaciologo Corrado Lesca (C. Lesca, Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, 22, 1974, pag. 121), presenta solchi e creste trasversali, una fronte marcata ed un lobo ben sviluppato. Tuttavia questo rock glacier presentava nel 1997 una “uncertain activity“. Una decina d’anni più tardi, i ricercatori, a seguito di rilevamenti svolti tra il 2005 e il 2007, rilevavano che “Il rock glacier di Cadin di Croda Rossa non mostra affioramenti di ghiaccio e presenta strutture interne differenti indicando che probabilmente si tratta di un rock glacier con ghiaccio interstiziale (ice-cemented rock glacier).” (K. Krainer, K. Lang, H. Hausmann, Active rock glaciers at Croda Rossa/Hohe Gaisl, Eastern Dolomites (Alto Adige/South Tyrol, Northern Italy), in Geogr. Fis. Dinam. Quat., 33 (2010), 25-36).

fig. 13 La fronte del rock glacier del Cadin di Croda Rossa

Confermando le osservazioni svolte dai ricercatori, ad oggi possiamo confermare che la fronte del rock glacier è di per certo ben marcata (fig. 13), con una pendenza di 35-40° ed un’altezza di 50m, e si attesta a circa metà della strettoia tra la Punta del Pin e le Cime Campale nel Cadin di Croda Rossa. Non è stata pervenuta alcuna acqua di fusione nell’area ai piedi della fronte né alcun ghiaccio esposto una volta rimontata la fronte ed esplorata la superficie del rock glacier. Si conferma, invece, che il rock glacier è traversato longitudinalmente da evidenti solchi e le rocce sui cui progrediamo sono particolarmente mobili (fig. 14). Nei pressi della sezione sommitale del rock glacier, infine, è presente un’area innevata che, tuttavia, non sembra appartenere al ghiacciaio quanto, piuttosto, pare essere il lobo di un canale valanghivo proveniente dalla Croda Rossa, le cui nevi evidentemente sono perenni (fig. 15).

fig. 14 Il materiale instabile sulla superficie del rock glacier del Cadin di Croda Rossa
fig. 15 Il nevaio alimentato dalle valanghe provenienti da un ripido canale sulla parete orientale della Croda Rossa. Sullo sfondo, da destra a sinistra, le creste della Croda Rossa degradano fino alla ben visibile Forcella del Pin, per poi riprendere quota sino a Punta del Pin.

LA TRAVERSATA DI FORCELLA CAMPALE

Sebbene la salita a Forcella Campale appaia dal rock glacier piuttosto ripida (fig. 16), si rivela in realtà meno faticosa di quanto previsto. E pensare che Ugo di Vallepiana, nel 1925, scriveva che Forcella Campale si risaliva faticosamente “attraverso pendii di detriti della peggior specie“!!! (Ugo di Vallepiana, Dolomiti di Cortina d’Ampezzo, dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago, Guide del Club Alpino Italiano, sezione unversitaria, 1925). Noi scegliamo di attaccare il ghiaione che scende dalla forcella sulla destra, cercando di poggiare i piedi sulle rocce più grandi e stabili (fig. 17).

fig. 16 Forcella Campale dal rock glacier del Cadin di Croda Rossa
fig. 17 L’inizio della salita alla forcella Campale

L’obiettivo è abbandonare quanto prima le mobili ghiaie e giungere ad una successione di speroni rocciosi che, nei pressi della sezione centrale della salita, ci forniranno più solido appiglio. Guadagnata la roccia, saliamo piacevolmente facendo scrambling (fig. 18, 19 e 20).

fig. 18 Guadagnate finalmente le solide rocce che ci garantiscono un più agevole incedere
fig. 19 Edoardo procede con lo scrambling
fig. 20 Ormai pochi metri e siamo in forcella Campale

Giunti in forcella Campale, emblematica è l’espressione di Edoardo 😉

fig. 21 “Edoardo, com’è la discesa???”

Sotto di noi, si sviluppa un canale bello marcio intorno a poco più di 50° di inclinazione (fig. 22). Ma, sorpresa delle sorprese, ci rendiamo subito conto che il nostro intento di aprire una nuova via non potrà essere coronato: troviamo infatti uno splendido e lucido spit sulla roccia a sinistra della forcella!!! Facciamo quindi una foto di rito in forcella ed iniziamo ad imbragarci (fig. 23). Sul versante opposto a noi, la Forcella Nord scende ripidissima e scariche di sassi che rotolano come proiettili nel Cadin del Ghiacciaio echeggiano minacciosi sulle pareti (fig. 24).

fig. 22 La calata inizia dentro un canalino di roccia marcia con pendenze intorno ai 70° che permette di raggiungere un ampio balcone ghiaioso.
fig. 23 La foto di rito in forcella!
fig. 24 La forcella Nord, la più alta forcella delle Dolomiti coi suoi 3000m, mette in comunicazione il Cadin del Ghiacciaio con la Val Montejela (Montesela).

Ci appropinquiamo quindi allo spit, aggirando con forte esposizione un enorme masso pericolante. Lo spit si trova a circa 2 metri di altezza, subito dopo il masso (fig. 25).

fig. 25 Edoardo aggira l’instabile masso per allestire la manovra di calata

“Longiato” sullo spit, lascio ad Edoardo l’onore di aprire la calata! Il fondo del canale si presenta quasi terroso, totalmente friabile. Edoardo si cala per circa una ventina di metri fino a che, sul bordo di destra del canale, individua un secondo spit (fig. 26 e 27). Tocca ora al sottoscritto: infilo il secchiello, mi faccio un machard ed inizio la calata che concludo in un paio di minuti.

fig. 26 Edoardo inizia la calata su fondo quasi terroso
fig. 27 Gli ultimi metri del primo tiro di calata

Ogni recupero di corda deve essere effettuato con la massima cautela poiché smuoviamo terreno che ci rotola addosso (fig. 28).

fig. 28 Recuperando la corda e, con essa, un po’ di sassolini 🙂

Con ulteriori due “calate appoggiate”, di circa 20 e 35 metri, approdiamo ora su un grande cengione ghiaioso, che segna il termine del canale, i cui bordi degradano nel vuoto (fig. 29 e 30). Al centro di questa grande cengia, sulla parete, troviamo un chiodo cui ci leghiamo per scendere fino al bordo della cengia (fig. 31); si tratta ora di scendere di circa un metro sulla parete, in totale esposizione ma su comodo gradino e beneficiando di un appiglio su stretta fessura trasversale, fino a trovare un piccolo pulpito dove ci attende una sosta già allestita con spit + chiodo (fig. 32).

fig. 29 La terza calata
fig. 30 Edoardo si avvicina alla larga cengia che segna il termine del canale
fig. 31 Nei pressi del cerchio rosso si trova il chiodo per assicurarsi e scendere fino alla sosta successiva
fig. 32 Con un po’ di entusiasmo e coraggio ci si deve affacciare sul bordo della cengia e scendere di circa un metro, con esposizione molto elevata, fino a trovare un piccolo balconcino con la sosta già allestita

Giunto alla sosta, attacco il moschettone della longe allo spit e tiro un sospiro di sollievo! Ora Edoardo ha recuperato la corda mi raggiunge sul piccolo pulpito (fig. 33).

fig. 33 Edoardo si appresta a raggiungere il pulpito aereo dove abbiamo trovato la sosta

Ci prepariamo per le manovre di calata e lanciamo la corda nel vuoto. Questa volta, però, non vediamo dove la corda atterra! La roccia sotto di noi, infatti, precipita con un probabile tetto (a breve scopriremo che l’ipotesi era ben fondata!) (fig. 34). Non c’è altro da fare che andare in perlustrazione. Edoardo aumenta le spire del machard e si cala fino a scomparire nel vuoto. E qui inizia un’interminabile e stremante attesa. Sono immobile su un pulpito che non mi concede grande libertà di movimento. Siamo all’ombra (ad occhio non batte mai il sole in questo tratto di parete) e tira un bel venticello che dalla valle si incanala nella Forcella Campale. Maniche corte e smanicatino non si rivelano la scelta più azzeccata in questo tratto di calata; tuttavia, sono così esposto che non mi fido di togliere lo zaino e cercare il goretex (che sicuramente sarà sotto di tutto)… quindi inizio a soffiare aria calda sulle mani, badando di non smuovere qualche sassolino su quel mezzo metro di balconcino. Finalmente, arriva il via libera di Edoardo che, nel frattempo, è riuscito ad atterrare e trovare un punto sicuro una decina di metri sotto il tetto. Controllo ripetutamente che le ghiere dei moschettoni siano ben serrate intorno al secchiello e al machard e… via, calata nel vuoto, per circa venticinque metri.

fig. 34 La corda scompare nel vuoto…

Ed eccoci al termine della calata strapiombante, superata una grotta dalle cui fessure scendono gocce che si trasformano in un rigolo d’acqua (fig. 35). L’atterraggio avviene su un comodo e sicuro balconcino, che mi permette di togliere lo zaino e mettermi una maglia tecnica per recuperare un po’ di calore! Ci attendono però ora due sorprese: la prima, non troviamo altri spit e, sotto di noi, v’è un bel secondo ripido salto. Inoltre, in fase di recupero della corda con il sagolino, qualcosa non funziona e le corde restano bloccate! Quest’ultima è davvero una bella rogna ed Edoardo è costretto a risalire la parete strapiombante su roccia marcia con passaggi di V grado, liberare le corde e ridiscendere (fig. 36).

fig. 35. Giunto al termine della calata strapiombante, indossando finalmente qualcosa di caldo!
fig. 36 Edoardo scende per la seconda volta dopo aver liberato la corda a monte. Si nota distintamente la grotta dalle cui fessure promana acqua

Liberate le corde, dobbiamo ora pensare a come calarci poiché, nonostante le esplorazioni della parete nei dintorni, non troviamo davvero alcun chiodo infisso (fig. 37) Tale circostanza fa riflettere: evidentemente, la via è stata chiodata con gli spit da qualche sciatore nel periodo invernale. Terminata la parete strapiombante, infatti, è verosimile pensare che lo sci-alpinista abbia affrontato il pendio rimanente, fino al Cadin del Ghiacciaio, sciando. L’accumulo di neve, infatti, tenderà sicuramente a smorzare quei primi metri al 90/100% di pendenza che ci attendono; poi, dopo una decina di metri di dislivello, la parete inizia a gradonarsi, diminuendo così drasticamente l’inclinazione e rendendo ben appetibile la discesa. Noi, però, non abbiamo la neve, e quella decina di metri totalmente aerei ci obbligano a trovare una soluzione sicura per essere superati. È quindi il momento di tirare fuori i chiodi ed allestire una sosta (fig. 38).

fig. 37 Edoardo alla ricerca (infruttuosa) di qualche spit o chiodo
fig. 38 Edoardo conficca due chiodi per allestire la penultima sosta

Nel mentre Edoardo martella, la Crodaccia Alta ci osserva, con le sue tipiche “tasche paleocarsiche” che quasi le conferiscono grottesche sembianze umane (fig. 39). Nel sottofondo, scariche di sassi dalla Forcella Nord si alternano a sinistri crolli nei pressi del lago del Cadin del Ghiacciaio (fig. 40).

fig. 39 La singolare parete meridionale della Crodaccia Alta
fig. 40 Il Cadin del Ghiacciaio, con il tipico lago in prossimità della fronte

Una volta allestita la sosta, Edoardo si cala per l’ultima ripida parete. Io controllo attentamente i chiodi, verificando che non si muovano di un millimetro (fig. 41).

fig. 41 La sosta allestita prima dell’ultima calata

Tocca quindi a me scendere e supero abbastanza agevolmente gli ultimi venti metri di parete verticale approdando su un comodo gradone di ghiaia (fig. 42).

fig. 42 L’ultimo tratto di parete verticale prima di giungere sui più comodi gradoni

Ora il gioco è fatto e tiriamo un sospiro di sollievo!!! (fig. 43 e 44). Per affrontare gli ultimi trenta metri di gradoni friabili, scendo io per primo ed Edoardo mi fa sicura piantando un ultimo chiodo, giusto perché ogni appiglio che tocco mi resta in mano 😉

fig. 43 Espressione soddisfatta nr. 1!
fig. 44 Espressione soddisfatta nr. 2!!!

Giungo quindi a fine corda e mi slego, procedendo sugli ultimi gradoni friabili prima di saltare sulle ghiaie del Cadin del Ghiacciaio e portarmi fuori tiro dalle eventuali scariche che Edoardo dovesse smuovere discendendo.

fig. 45 Edoardo si appresta a scendere l’ultimo tiro. In rosso, i tiri di calata una volta usciti dal canale detritico

IL ROCK GLACIER NEL CADIN DEL GHIACCIAIO

Appena messo piede sul Cadin del Ghiacciaio, mi rendo conto che la parte apicale è effettivamente un enorme nevaio su cui le sovrastanti cime scaricano continuamente materiale (fig. 46). La parete della Cima Campale a ridosso della via di calata, in particolare, appare marcissima e devastata dai crolli (fig. 47). Sul versante opposto, la Forcella Nord scarica costantemente materiale. Ci allontaniamo quindi velocemente da questa area tormentata dalle frane e, con divertente sciata sul nevaio inclinato, ci dirigiamo verso il centro del Cadin del Ghiacciaio (fig. 48).

fig. 46 Il nevaio coperto dalle scariche delle cime sovrastanti
fig. 47 Sulla sinistra rispetto alla via di calata (guardando dal Cadin), la parete di Cima Campale è soggetta a continui crolli. Non proprio quello che si definerebbe “the best place to be”, sicché leviamo i tacchi e ci portiamo velocemente al centro del Cadin del Ghiacciaio
fig. 48 Sciando sulla parte apicale del Cadin del Ghiacciaio

Il sopra citato studio di Krainer, datato 2010, conferma le nostre osservazioni, concludendo che “le strutture interne (piani di scorrimento) e particolarmente gli affioramenti di ghiaccio nella parte superiore del rock glacier di Cadin del Ghiacciaio indicano chiaramente che questo rock glacier si è sviluppato da un ghiacciaio di circo coperto da detrito che si trova in condizioni di permafrost ancora oggi. Presumiamo che questo rock glacier si sia sviluppato da un piccolo ghiacciaio di circo alimentato da valanghe in una fase di ritiro a causa del mancato trasferimento alle acque di fusione dei sedimenti trasportati dal ghiacciaio.” (K. Krainer et alia, Id.). Ciò che sorprende, peraltro, è che questo rock glacier presenta caratteristiche morfologiche differenti rispetto al rock glacier ospitato nel Cadin di Croda Rossa. Innanzitutto, si trovano di tanto in tanto delle piccole depressioni, quasi delle doline; come se il ghiaccio sottostante le rocce fosse ceduto e/o si fosse formato un imbuto naturale/inghiottitoio (fig. 48 e 49).

fig. 48 Depressioni che lasciano presagire la presenza di un inghiottitoio nel sottostante ghiacciaio
fig. 49 Ancora improvvise depressioni sulla superficie del rock glacier

Sorprendono, inoltre, le dimensioni di questo rock glacier. Krainer stabiliva che “the rock glacier is 850 m long, 300-550 m wide and covers an area of 0.3 km2. The rock glacier extends from an altitude of 2340 m at the front to about 2500 m. The average gradient of the surface is 5°”. Tali misurazioni, confrontate con i primi rilievi svolti da Rictcher nel 1888, mostrano una regressione dell’apparato glaciale di una decina di metri. Nella parte centrale del rock glacier, si percepisce una divisione in due lobi; notiamo infatti ghiaie più “fresche”, risultato di un certo dinamismo sulla superficie… tale linea segna la demarcazione tra i due lobi e, nella parte apicale del rock glacier, emerge chiaramente il ghiaccio esposto, corrispondente con il margine sinistro del lobo meridionale (fig. 50).

fig. 50 Ghiaccio esposto poco sotto la superficie del rock glacier, in prossimità della suddivisione in due lobi

Incredibile pensare che, in alcune zone del rock glacier, il sedimento che ricopre il ghiacciaio è davvero poco spesso; secondo Krainer, “in the upper part massive ice is exposed during the summer months at several places below a less than 1 m thick debris layer. Locally the debris layer is only about 10 cm thick“. Tant’è che, a parere dello scrivente, la definizione di rock glacier non sembra propriamente calzare al caso di specie… più che rock glacier, questo apparato sembra un vero e proprio ghiacciaio sormontato da una copertina di detrito. Un mantello che preserva il ghiaccio sottostante sicuramente da oltre un secolo; già nel 1907, infatti, il glaciologo Marinelli descriveva il ghiacciaio come quasi completamente coperto di detrito superficiale. Lo stesso asseriva il glaciologo Lesca nel 1974, rilevando che il ghiacciaio era “per gran parte ricoperto da morena superficiale” (Lesca, Id.). Ciò è confermato dalla visita all’incantevole e tipico laghetto termocarsico, collocato sul lobo settentrionale, poco più a valle. Il lago presenta inclinate pareti di ghiaccio esposto e compatto, alte fino a venti metri sul versante idrografico sinistro della valle, che “letteralmente” si sciolgono al sole riversando acqua dentro il bacino. Sottolineo il concetto di “ghiaccio compatto”, per nulla mescolato al detrito, confinato al solo margine superiore delle pareti. Man mano che il ghiaccio si scioglie, precipitano dentro il laghetto le rocce che costituiscono lo strato superficiale del rock glacier, quasi vi fosse un preciso equilibro tale per cui la profondità del laghetto non può incrementarsi, perché la quantità di acqua di fusione riversatavi è in rapporto perfetto con la quantità di rocce che vi crollano dentro (fig. 51, 52, 53). Affascinante pensare che il ghiaccio che vediamo e tocchiamo risale alla Piccola Era Glaciale, più precisamente al 1500 (ISPRA, Note Illustrative della Carta Geologica d’Italia – Foglio 016 Dobbiaco, pag. 175).

fig. 51 Il laghetto termocarsico nel rock glacier del Cadin del Ghiacciaio
fig. 51 Le pareti di compatto ghiaccio, fino a venti metri d’altezza, sono ricoperte da un relativamente sottile strato di sedimento roccioso
fig. 53 Man mano che il ghiaccio esposto si scioglie, viene meno il supporto delle rocce superficiali che rotolano dentro il laghetto termocarsico

Una curiosità: studiando le immagini satellitari messe a disposizione dal servizio BING, scopriamo che, nell’agosto del 2015, il laghetto termocarsico aveva pure un fratellino!!! Evidentemente, il tappo di ghiaccio sul fondo si è poi sciolto, facendo defluire l’acqua nei meandri sotterranei del ghiacciaio.

fonte BING, immagine scattata il 27 agosto 2015

Dopo aver contemplato con meraviglia il laghetto, ci dirigiamo verso la fronte del rock glacier. Questa è alta almeno 30 metri e ben ripida (35°/40°), al punto che dobbiamo procedere lungo il perimetro della fronte, sul lobo meridionale, la cui fronte è meno ripida di quello settentrionale, fino a raggiungere un pendio di altezza più contenuta per poter scendere, non a fatica (fig. 54).

fig. 54 L’imponente fronte del rock glacier del Cadin del Ghiacciaio

Abbandonata definitivamente l’area del ghiacciaio, ci teniamo ora sulla destra, a ridosso dello sperone orientale delle Cime Campale (fig. 55), scendendo comodamente lo scosceso pendio tra radi mughi, fino ad incrociare nuovamente la radura popolata da vacche al pascolo. Di lì, per la via dell’andata, è d’obbligo una sosta ristoratrice a Malga Stolla. Nel giro di un’oretta, sempre per la stessa via dell’andata, si rientra al parcheggio presso Cimabanche.

fig. 55 L’inedita vista che si apre ai piedi dello sperone meridionale delle Cime Campale, verso le Tre Cime di Lavaredo
fig. 56 La discesa, senza via obbligata, fino alla radura adibita a pascolo

Traversata della cengia nord del Cristallino di Misurina: la “cengia Raule”

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA. Cengia “Raule”: PD-, con unico passaggio esposto di II grado, che richiede assicurazione e passo sicuro.

DISTANZA: 17,8km – DURATA: 8.20 h – DSL: 1300 m D+

DATA: 18 giugno 2022

PREMESSE

Con questa traversata andiamo a completare tutte le possibili interpretazioni di itinerario (note) nel massiccio centrale del Cristallino di Misurina. Lo spunto viene dall’amico Riccardo, anch’egli appassionato esploratore di nuove vie e di antiche tracce dimenticate. A sua volta, Riccardo ha seguito le orme di Vittorino Mason che, in memoria di un amico perito in montagna, ha nominato tale cengia “Raule”, descrivendone per la prima volta l’itinerario nel “Libro delle Cenge, 56 vie orizzontali nelle Dolomiti”, datato 2013. Successivamente, la cengia Raule è stata percorsa e descritta da Fabio Cammelli, nel numero di Le Alpi Venete, primavera/estate 2020. Hanno raccolto l’invito ad esplorare questa cengia sconosciuta gli amici Paolo ed Edoardo.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto nei pressi del Ponte de la Marogna, si traversa il greto verso SE fino a risalirne la sponda ed imboccare una debole traccia parzialmente coperta dalla florida vegetazione. Si cammina pochi minuti nel bosco per poi entrare in una radura costituita da una lingua franosa (bolli su alberi e rocce); la si traversa in diagonale e si rimonta per una nitida traccia nel bosco che subito prende quota. In pochi minuti si giunge alla postazione militare con lapide commemorativa della prima guerra mondiale (fig. 1) (per questo primo tratto, vedasi anche la relazione della salita alla forcella Cristallino).

fig. 1 La lapide commemorativa

Si aggira sulla sinistra la lapide e si segue la traccia, badando di non farsi tentare dal proseguire nel corso delle innumerevoli trincee che tagliano il bosco. In questo tratto, la traccia si snoda all’incirca presso la sponda orografica destra del rio che proviene dalla Val Cristallino; si ode il gentile fragore delle cascatelle, senza però mai vederne il corso. Nel giro di pochi minuti si giunge ad un punto chiave: la traccia entra perpendicolare nel solco di una trincea, ai piedi di una ripida collinetta. L’intuito suggerirebbe di procedere a destra, ove la trincea appare più aperta e di facile percorribilità; al contrario, la traccia prosegue a sinistra: un grosso masso sul sentiero reca un bollo scolorito che indica e conferma la via. Di lì a breve il sentiero diventa sempre più evidente ed aperto, fino a procedere in falsopiano. Si procede quindi in direzione del ponte di Val Popena Alta. Secondo la cartografia Tabacco, si tratterebbe ora di imboccare un traccia che si innesta perpendicolarmente, a monte, in corrispondenza di un rio che taglia la traccia principale. Il rio appare asciutto e consiste in una lingua franosa che si appoggia timidamente al sentiero. Noi abbiamo scelto di risalire nel bosco ma la traccia riportata dalla Tabacco non la abbiamo mai incrociata. Dopo una ventina di minuti di salita, invece, ci troviamo finalmente su un sentiero che sembra un’autostrada, con tanto di ometti, proveniente da SE… dovrebbe trattarsi della traccia più alta che collega l’imbocco della Val Popena Alta, nei pressi del sentiero 222, con la Val de le Bance… resta fermo il fatto che in pochi minuti questo nuovo sentierone ci porta sul versante orografico destro della deserta Val de le Bance (fig. 2).

fig. 2 Il sentierone che ci porta all’imbocco della Val de le Bance

Entrati in val de le Bance, si comincia a risalire il ghiaione, dapprima tenendosi sul versante orografico destro, per poi tagliare nettamente in diagonale la valle portandosi sull’opposto versante orografico (fig. 3), ai piedi della strozzatura tra la Croda de le Bance e lo sperone settentrionale della Croda Mosca, ove idealmente dovrebbe scorrere il rio che solca la valle (fig. 4)… pensare che esattamente 143 anni fa W. Eckerth saliva questa valle insieme a Michel Innerkofler, descrivendo il rumoreggiare della cascata all’interno della forra. Giunti alla base della strozzatura, si consiglia di non imboccare direttamente il greto del rio ma di salire con facile arrampicata sulle rocce alla base della parete sul versante orografico destro. Ciò permette di superare un paio di non agevoli piccoli salti di roccia.

fig. 3 La vista insolita delle Tre Cime di Lavaredo dal bacino inferiore della val de le Bance. Evidenziata in rosso la traccia che traversa dal versante orografico destro al versante orografico sinistro.
fig. 4 La via per entrare nella parte centrale della val de le Bance.

Si sale quindi lungo i gradoni rocciosi sulla sponda orografica destra del rio (fig. 5), fino ad intravedere un ometto sul versante opposto, che ci indica l’obbligo di traversare il rio e risalire ai piedi della Croda Mosca (fig. 6). Scrivo “obbligo”, non a caso; procedendo, infatti, lungo il solco del rio, ci si imbatte in un salto di roccia alto poco più di un paio di metri il cui superamento in salita richiede abilità d’arrampicatore non scontate (vedasi il superamento di tale salto in discesa in fig. 33, 34 e 35 in occasione della discesa di val de le Bance il 30 ottobre 2021).

fig. 5 La salita dei gradoni nell’inizio della parte centrale della val de le Bance
fig. 6 Un ometto ai piedi della Croda Mosca indica la necessità di traversare sul versante orografico opposto e risalire ai piedi della parete dell’omonima croda.

Più si sale più la val de le Bance assume le sembianze di una brulla gola il cui fondo instabile rallenta la salita (fig. 7). Scriveva W. Eckerth nel 1879 sulla valle de le Bance che, “chiusa ai lati dalle ripide pareti delle dorsali del Cristallino, essa si restringe in forma di gola nella parte superiore restando illuminata dal sole per breve tempo soltanto intorno a mezzogiorno“. La salita si svolge ora a ridosso della parete della Croda Mosca (fig. 8), fino a quando risulta più saggio spostarsi sul versante orografico opposto con facile arrampicata, per approdare su una comoda cengia che permette di proseguire evitando le mobili ghiaie del centro valle (fig. 9). Percorrendo la cengia, superando agevolmente qualche semplice salto di roccia e sempre tenendosi sul versante orografico sinistro della valle, si supera finalmente l’impervia strozzatura e si entra nella parte apicale della Val de le Bance, decisamente più amena e gradevole (fig. 10).

fig. 7 Edoardo, nella parte centrale della val de le Bance
fig. 8 Paolo avanza ai piedi della Croda Mosca
fig. 9 Per raggiungere la strozzatura apicale della val de le Bance è consigliabile spostarsi sul versante orografico sinistro dove una cengia permette di salire più comodamente.
fig. 10 La parte apicale della Val de le Bance.

La tentazione di risalire questo magnifico nuovo ambiente è forte ma non è questa la via da seguire oggi; si devono salire, invece, le facili roccette che si ergono sulla destra (sinistra orografica), fino ad approdare ad un largo e pianeggiante crinale che separa la val de le Bance da un’ampia conca che poi degrada per ripidi pendii in val Cristallino (fig. 11). Tale postazione ci offre a settentrione un panorama senza pari, con insolita prospettiva delle Tre Cime di Lavaredo (fig. 12). Si scorge nitidamente, inoltre, la cengia Raule che taglia la parete giallastra del Cristallino di Misurina (fig. 13).

fig. 11 L’ampio crinale che separa la val de le Bance dalla val Cristallino
fig. 12 Le Tre Cime di Lavaredo
fig. 13 La cengia Raule sul versante orientale del Cristallino di Misurina

È ora opportuno mettersi in sicurezza: per raggiungere la cengia, infatti, si arrampica con facili passaggi di I° ma con una certa esposizione sulla conca sottostante (fig. 14).

fig. 14 L’itinerario scelto per appropinquarsi alla cengia Raule.

In pochi minuti, giungiamo in cengia, ai piedi della parete. Il versante orientale della cengia Raule non è proprio quanto di più comodo si possa immaginare. La cengia è stretta, in leggera discesa; la parete che si erge sopra di noi ci spinge in fuori e l’esposizione sulla conca sottostante gioca il suo fattore psicologico (fig. 15). Progrediamo, legati in conserva corta, transitando in un paio d’occasioni carponi per mantenerci il più possibile aderenti alla parete (fig. 16 e 17), fino a raggiungere lo sperone settentrionale della cengia, che finalmente si apre in un comodo balcone di ghiaia (fig. 18). Funge da ometto un pesante fondello di proiettile della prima guerra (fig. 19).

fig. 15 Il versante orientale della cengia Raule
fig. 16 Finalmente una foto tutti e tre insieme sulla cengia Raule 😉
fig. 17 Spesso ci troviamo costretti ad incunearci sotto la volta della parete per riuscire a progredire
fig. 18 Lo sperone settentrionale della cengia Raule
fig. 19 Il fondello di una granata della prima guerra mondiale.

Una volta aggirato lo sperone settentrionale della cengia Raule, affacciandosi sulla val Cristallino, la cengia prosegue, ampia ed in leggera salita, lungo la parete occidentale del Cristallino, in direzione dell’omonima forcella bipartita (fig. 20).

fig. 20 La cengia Raule sul versante occidentale, affacciata sulla val Cristallino

La progressione non presenta difficoltà alcuna, fino ad un repentino restringimento della cengia, con successiva interruzione della medesima nel vuoto. A distanza di poco meno di un metro, la cengia ricomincia, franosa. Sappiamo che sull’altra sponda dovrebbe trovarsi un vecchio chiodo… si tratta però di arrivarci sull’altra sponda! Ed ecco qui il deus ex machina, Edoardo! Con ferma precisione e sangue freddo, traversa in spaccata il baratro ed arrampica agevolmente sulla sponda franata della cengia. In pochi secondi individua il chiodo ed assicura noi tutti (fig. 21)! Sotto un profilo tecnico, il passaggio non risulta difficile: si tratta di effettuare una spaccata con piede su comodo appoggio per poi scendere di poco meno di un metro su più ampi appoggi per i piedi e di lì rimontare la cengia.

fig. 21 Edoardo rimonta sul lato opposto della cengia Raule

Una volta assicurati, Paolo approccia il salto (fig. 22) ed infine è il turno del sottoscritto che chiude la cordata (fig. 23).

fig. 23 Paolo affronta gli ultimi passi lungo la cengia prima del salto.
fig. 23 Io che attraverso il salto

Il passaggio chiave indicato è collocato circa a metà della cengia Raule. Superatolo, la cengia torna ad essere agevolmente percorribile, spesso ampia (fig. 24), talvolta richiedendo il superamento di brevi ripidi tratti dal fondo friabile (fig. 25) ovvero piccoli nevai (fig. 26 e 27).

fig. 24 La cengia Raule torna ad essere ampia ed agevolmente percorribile
fig. 25 Nella parte finale, la cengia Raule presenta qualche breve tratto dal fondo friabile ove risulta opportuno procedere con cautela
fig. 26 Paolo ed Edoardo percorrono gli ultimi tratti della cengia Raule
fig. 27 Vari nevai coprono il tracciato della cengia

La cengia Raule volge ormai al termine, conducendo nella parte apicale del canalone orientale che sovrasta la val Cristallino. Si supera un breve ripido tratto (fig. 28) che conduce sulle nevi del canalone e qui comincia una divertente discesa sulla morbida neve, che quasi inviterebbe alla corsa 😉 (fig. 29).

fig. 28 il ripido e franoso passaggio che conduce nel cuore del canalone bipartito orientale della val Cristallino
fig. 29 e giù per il canalone innevato!!!

La discesa lungo la val Cristallino quasi ci permette di sciare, per brevi momenti, sul mobile fondo del ghiaione. La val Cristallino è una miniera di reperti bellici. Resti di granate e residuati sono disseminati in ogni dove tra le ghiaie, confermando ancora una volta quanto avevamo riscontrato nell’avventura del 30 ottobre 2021: la val Cristallino è una valle inaccessibile e completamente deserta, non frequentata da anima viva. Le distanze sembravano più corte… ci impieghiamo un’eternità a percorrere tutta la lunghezza della valle (fig. 30) fino ad immetterci nel greto del rio che raccoglie le acque di fusione dell’intera valle. Scendiamo lungo il solco dissestato del rio, che presto diventa asciutto, fino a raggiungere un grande masso con dei sassi posti sopra a mo’ di ometto (fig. 31): tale segnale preannuncia un sentiero che, pochi metri a valle, si dirama sulla destra per inoltrarsi tra i baranci (fig. 32), conducendo in breve all’ampia traccia percorsa all’andata in direzione della val Popena Alta. Appena montati su tale traccia, sarà opportuno deviare a sinistra giungendo in breve alla lapide commemorativa e, quindi, al ponte de la Marogna.

fig. 30 La val Cristallino nella sua immensa estensione
fig. 31 I sassi posti sopra la roccia indicano la necessità di inoltrarsi tra i baranci ove presto si intravede il sentiero che conduce a valle
fig. 32 Il sentiero permette di tagliare facilmente tutto il pendio coperto di baranci

Anello del Cristallino di Misurina, traversando la Val Cristallino e la Val de Le Bance (con apertura della nuova via “Cristallino Ovest”!)

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EEA+. Da Forcella Cristallino alla spalla meridionale del Cristallino di Misurina: AD-

Traversata alpinistica lunga e fisicamente molto impegnativa. Da forcella Cristallino alla spalla meridionale del Cristallino di Misurina, necessità di alternare progressione in conserva con soste da allestire con chiodi, affrontando passaggi fino a III+ (non v’è presenza di spit).


DISTANZA: ca 20 Km – DURATA: 11 h – DSL: 1434 m D+

DATA: 30 ottobre 2021

PREMESSE

Chiudiamo la stagione “estiva” con l’itinerario più esplorativo e, sicuramente, più difficile dell’anno: la traversata della Val Cristallino, fino a forcella Cristallino, per poi raggiungere la spalla meridionale del Cristallino di Misurina aprendo una nuova via che, per temporanea assenza di estro poetico chiamiamo “Cristallino Ovest”. Dalla cima del Cristallino di Misurina, discesa per la via normale, aperta da Paul Grohmann e l’albergatore di Carbonín Georg Ploner il 16 agosto 1864, fino alla Forcella de Le Bance. Dalla forcella, traversata in discesa della Val de Le Bance e chiusura dell’anello. Un’avventura fisicamente molto impegnativa, anche perché per il 95% del giro si cammina sempre fuori sentiero, su fondo impervio, con pendenze spesso sostenute, specie nella discesa verso S da Forcella Cristallino. Un itinerario che richiede necessariamente l’uso della corda e di quanto necessario per approntare le opportune soste (chiodi da fessura e blocchi da incastro). Giunti in Forcella Cristallino, qualora non si gradisse affrontare la via “Cristallino Ovest”, è possibile scendere fino alla confluenza con il canalone che scende da Forcella Michele; se da un lato si evita l’arrampicata in salita, dall’altro non ci si può però esimere dalla disarrampicata in discesa della seconda metà inferiore del ripido e dirupato canale che scende da Forcella Cristallino. La salita del canalone che scende da Forcella Michele è invece più agevole, nonostante sia necessario affrontare un salto di roccia alto circa quattro metri, in corrispondenza della strettoia tra la parete S del Cristallino di Misurina e la parete N della dorsale di Popena (per maggiori dettagli, si veda la relazione sulla discesa del canalone di Forcella Michele, svolta a luglio 2021). Compagno d’avventura è oggi Edoardo, delle Guide Alpine di Cortina, con cui abbiamo avuto il piacere di condividere l’ascensione della Furcia dai Fers da Tamersc appena quindici giorni fa e che si è nuovamente reso disponibile ad affrontare un itinerario esplorativo che, fin da subito, si è rivelato particolarmente avventuroso.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto presso il ponte de la Marogna, 1472 m, si traversa il greto asciutto della Val Fonda e ci si addentra subito nel bosco, sul versante orografico destro. Dopo poche decine di metri, il bosco si dirada e si cammina ora su una frana, risalendola ancora per poche decine di metri, sino a che si individua una traccia che si immette nuovamente nel bosco. La traccia è piuttosto evidente ed in breve conduce alla c.d. “lapide della Valfonda”, riscoperta e restaurata nel 1982. La lapide, datata 31 agosto 1916, reca incisi 269 nomi, tutti i componenti della 6a Compagnia, facente parte della Brigata Umbria, del 53° Reggimento di Fanteria Vercelli (fig. 1).

fig. 1. La lapide commemorativa del 1916.

Si continua a seguire la traccia, ora leggermente in salita, tenendo sulla destra il rio che funge da spartiacque della Val Cristallino. Intorno a quota 1600 m, si abbandona la traccia e si cerca di deviare verso S (destra), aprendosi un varco tra i baranci. (ndr: a posteriori, la corretta via consiste nel procedere dentro il bosco lungo la traccia, senza abbandonarla. Poi, quando la traccia inizia a procedere su falsopiano, si innesta a monte nella traccia principale un sentierino: questo sentierino consente di raggiungere in breve il greto del torrente). La soluzione migliore è scendere quanto prima sul greto del rio. Noi abbiamo invece temporeggiato, fino quasi a raggiungere le pendici rocciose settentrionali della Croda de Le Bance, con grande fatica facendoci strada tra i mughi. Ritrovato finalmente il greto, lo si risale senza possibilità di errore. Ci meravigliamo, quando troviamo infisso perpendicolare nel greto del rio un binario di rotaia, probabilmente della prima guerra mondiale (che ci fa una rotaia qua???) (fig. 2).

fig. 2. La rotaia infissa perpendicolare nel greto del torrente.

Si continua la risalita del greto, sino a che si apre finalmente di fronte a noi la visione della Val Cristallino, in tutta la sua interezza (fig. 3). La salita avviene sempre in ombra ma senza trovare traccia di ghiaccio sul fondo; sebbene al ponte de la Marogna il termometro segnasse -4°C, il clima è particolarmente secco, da giorni, e non v’è umidità che ghiaccia la superficie delle pietre che calpestiamo. La Val Cristallino è davvero una valle deserta, esplorata a fine dell’800 dai primi scalatori che affrontavano la salita del Cristallino di Misurina. Questi, tuttavia, non percorrevano interamente la valle, fino alla Forcella Cristallino, ma la abbandonavano verso metà, per salire, verso E, alla sella che separa le pendici N del Cristallino di Misurina dalla Croda de Le Bance. Da questa sella, salivano poi al Cristallino di Misurina attraverso la parte sommitale della Val de Le Bance. Scriveva W. Eckerth nel 1876: “Chi vuol salire in vetta al Cristallino ha a disposizione due vie che dapprima portano insieme, su per la Val Cristallino, ad una sella profondamente incassata nella dorsale principale del Cristallino, fra il “Kofl” (nda: Cima Le Bance) che costituisce l’ultimo rilievo a nord di questa dorsale e la cima del Cristallino. All’inizio estate, di solito, si scavalca questa sella e si preferisce continuare per la Val Banche che in questa stagione, per lo più, è ancora piena di neve; a metà estate e in autunno, invece, quando la Val Banche è ormai senza neve fino in alto e perciò difficile da percorrere, si sale in cima direttamente dalla sella per il ripido versante nord delle rocce terminali“. Aggiungeva Eckerth una breve descrizione della Val Cristallino, pronunciandosi come segue: “Dalla forcella, che appare bipartita da un roccione centrale, ripidi canaloni nevosi scendono su un circo di ghiaie e sfasciumi. Questo circo, a sua volta, ha varie diramazioni ed è in parte coperto di neve e ghiaccio”.

fig. 3. La Val Cristallino.

Noi scegliamo di non seguire le istruzioni di W. Eckerth ma di percorrere invece interamente la Val Cristallino, fino all’omonima forcella. Giunti là dove la valle si restringe improvvisamente, la pendenza inizia ad incrementare drasticamente e l’incedere sul ghiaione, il cui fondo è compatto e scivoloso, risulta sempre meno agevole. Procediamo, quindi, dapprima tenendoci all’estrema destra del ghiaione, sfruttando i generosi appigli che offre la parete rocciosa, per poi sfruttare una comoda fessura che ci permette di montare sopra il costone roccioso che costeggia il ghiaione (fig. 4, 5, 6 e 7). In verità, pochi metri dopo la fessura su cui saliamo, si trova un accesso molto più semplice, che non richiede di arrampicare, e permette di salire sul costone roccioso ancora più facilmente. Su questo terreno la progressione risulta sicuramente più comoda!

fig. 4 La traiettoria scelta per affrontare la salita del ghiaione nei pressi della strettoia.
fig. 5. Edoardo che risale il ghiaione sul lato destro.
fig. 6. Le due possibili soluzioni per montare sul gradone roccioso ed evitare di procedere sul ripido ghiaione.
fig. 7. Finalmente, procediamo comodi su un fondo solido e stabile!

Ancora una volta, realizziamo quanto la valle che stiamo traversando sia remota e selvaggia; ad ogni passo, troviamo reperti bellici di ogni sorta, che lasciamo in loco a memoria degli aspri combattimenti che tormentarono questa valle, contesa tra italiani e austriaci, nel corso della prima guerra mondiale. Giungiamo ora ad un bivio o, meglio, alla confluenza di due canali. Il canale più a sinistra (E), appare stretto e coperto nella parte sommitale di neve. Il canale di destra, invece, sembra meno ripido e già intravediamo Forcella Cristallino baciata dal sole. Edoardo traversa la confluenza per verificare la percorribilità del canale a E (fig. 8) ma, dopo una breve perlustrazione, conveniamo di salire il più ampio canale di destra.

fig. 8. Edoardo verifica la percorribilità del canale di sinistra, più a E.

Iniziamo ora una salita che si rivela da subito tutt’altro che semplice. Il terreno è instabile e ad ogni passo muoviamo scariche di pietre. Scegliamo quindi di salire su due linee diverse: Edoardo, alla base della parete di sinistra (fig. 9 e 10), mentre io mi porto alla base della parete di destra, iniziando una dura salita che, tecnicamente, sembra più essere un lungo traverso in diagonale delle pendici rocciose (fig. 11).

fig. 9. Edoardo inizia a salire alla base delle pendici del Cristallino.
fig. 10. Edoardo, sempre tenendosi alla base della parete, per sfruttare un terreno più solido.
fig. 11. Quasi in forcella Cristallino 🙂

Finalmente, giungiamo in Forcella Cristallino. Una luce violenta, accompagnata da un teso vento che si incanala in forcella, mi riempi gli occhi che, da ore, erano ormai abituati all’ombra. Tempo di abituare gli occhi alla nuova luce e metto a fuoco il luogo in cui siamo giunti. Forcella Cristallino è una minuscola sella che, sul versante S, degrada drasticamente in un ripido e stretto canale, marcio e dirupato. Il versante S scende così ripidamente che potremmo sederci a cavallo della sella (fig. 12). W. Eckerth lo descriva a fine ottocento come “un canalone roccioso che scende verso il bordo settentrionale del ghiacciaio di Popena” (si pensi a quanto è arretrata oggigiorno la fronte del ghiacciaio!!!). Visto dal basso, nei pressi della confluenza con forcella Michele, veniva descritto come “un canalone che sale ripido ad una forcella divisa in due da un roccione centrale. Sul ramo sinistro della forcella si eleva la cima più alta dello sperone occidentale del Cristallino, mentre sul ramo destro sorgono le rocce della cima principale”. Entrambi siamo sorpresi; non ci aspettavamo un terreno così poco praticabile. Alla base del canale, nell’ombra, intravediamo la confluenza con l’angusto canale che scende da Forcella Michele, già percorso a luglio in discesa per esplorare il circo glaciale del ghiacciaio di Popena. Non ci perdiamo d’animo (almeno ora staremo un po’ al sole!) e ci imbraghiamo per calarci nel canale (fig. 13).

fig. 12. Il canale S di Forcella Cristallino.
fig. 13. In sella a Forcella Cristallino.

Edoardo appronta un ancoraggio intorno a un solido masso ed io inizio la disarrampicata. I primi metri del canale sono terrosi ed il piede solca piacevolmente il fondo. Dopo pochi metri, tuttavia, il terreno diventa roccioso. Ogni appiglio che prendo sulla parete mi si sgretola in mano e, complice il vento che si incanala nella gola, mi ritrovo presto occhi e bocca pieni di polvere. Tutto quello che tocco è marcio e, prima di poter fare affidamento su un appiglio, devo letteralmente smontare la parete per trovare qualcosa di solido! Procediamo con singoli tiri di una ventina di metri: appena riesco a trovare un anfratto riparato nella roccia, mi ci inserisco, così che Edoardo possa scendere a sua volta, senza che le scariche di pietre provocate dal suo passaggio mi investano. Con questa tecnica, facciamo tre calate. La prima e la seconda calata risultano abbastanza semplici da affrontare in disarrampicata (fig. 14, 15 e 16). La terza, invece, più ripida, prevede il superamento di un salto di roccia di circa un paio di metri d’altezza, ben levigato dalle acque piovane e privo di appigli (fig. 17 e 18).

fig. 14. Edoardo durante la prima calata.
fig. 15. Il sottoscritto affronta la seconda calata.
fig. 16. La seconda calata attraversa la sezione del canale più semplice da affrontare in discesa.
fig. 17. Al termine della seconda calata, circa a metà del canale che scende da Forcella Cristallino, pronto per affrontare la terza calata, che prevede il superamento di un salto di roccia di circa un paio di metri di altezza.
fig. 18. Il sottoscritto, pronto per affrontare la terza calata!

Tutto ciò avviene al cospetto della magnifica cima del Popena, 3152 m, dell’Ago Loschner, 2939 m, di Punta Michele, 2898 m, e… del magico Ghiacciaio di Popena, la cui fronte abbiamo esplorato a luglio di quest’anno (leggi la relazione dell’itinerario) e che in questo periodo appare, naturalmente, meno innevato (fig. 19).

fig. 19. Il Piz Popena ed il ghiacciaio di Popena.

Conclusa la terza calata, ci troviamo a dover scegliere tra due itinerari alternativi. Il più “sicuro” e scontato prevederebbe la discesa fino alla confluenza con il canale che scende da Forcella Michele. Conosco quel canale, per averlo percorso in discesa tre mesi e mezzo fa: è ripido, ma non troppo, ed il fondo, per lo meno fino alla strettoia di metà canale, è ghiaioso. Chiaramente, tale soluzione implicherebbe un’ulteriore perdita di quota, per poi dover riguadagnarla superando una nuova forcella (Forcella Michele) con dura salita. Alternativa più intelligente ma di per certo più audace è traversare il costone della montagna, in direzione O, trovando una via che ci permetta di arrivare alla spalla meridionale del Cristallino di Misurina (dove, per intenderci, conduce il sentiero che sale dalla Val Popena, attraverso una nuova e comoda ferrata). L’idea è allettante ma non sappiamo quali incognite potremmo trovare. Alla fine, poiché la fortuna aiuta gli audaci – per lo meno sulla carta 🙂 – optiamo per la seconda strategia. Procediamo quindi di conserva, traversando un costone roccioso con saliscendi su agevole cengia (fig. 20), per poi salire di pochi metri, individuando un’ulteriore cengia (fig. 21).

fig. 20. Edoardo apre la via, cercando il percorso più agevole e diretto.
fig. 21. Edoardo risale la parete individuando la migliore cengia dove traversare.

Arriviamo quindi ad una parete che forma una sorta di diedro. Da qui, Edoardo sale per circa una decina di metri e predispone una prima sosta (fig. 22 e 23).

fig. 22. Alla base dell’ampio diedro.
fig. 23. Il primo tiro di arrampicata.

La fatica inizia a farsi sentire… sarà che non arrampicavo da dieci anni :-), ma sento i muscoli che rispondono pigramente per l’ipossia (e siamo solo a 2500 metri circa!). Inoltre, sono completamente sudato – la parete è in pieno sole – e disidratato. Mi sento un po’ mentalmente fiaccato ma realizzare che stiamo aprendo una nuova via mi rinfranca l’animo ed arrampico cercando di controllare bene la respirazione e muovermi il più fluidamente possibile. Superato il primo tiro, giungiamo in una ampia e comoda cengia, dove posso tirare un po’ il fiato. Ora siamo di fronte ad una parete verticale di almeno un’altra decina di metri. Edoardo la scala con la stessa facilità con cui si potrebbe portare a spasso un cagnolino con una mano mentre con l’altra mano si chatta (fig. 24). Sono impressionato dalla forza e dalla tecnica del mio odierno compagno d’avventura. Non mi resta che contemplare, ammirato, ed imparare (fig. 25).

fig. 24. Edoardo supera il secondo tiro di arrampicata.
fig. 25. In attesa di scalare il secondo tiro.

Giunto in cima alla parete verticale, sento Edoardo approntare una seconda sosta. Questa volta, piantando i chiodi da roccia che, saggiamente, ha portato con sé. Inizio quindi a scalare ma, per la solita legge sull’entropia, accade l’inghippo: la corda si incastra in una fessura rocciosa mentre sto svolgendo un traverso diagonale in salita, creando un angolo che, in caso di caduta, mi farebbe violentemente “sbandierare”, prima di andare in tiro. Tenendomi saldamente all’appiglio con una mano, cerco di liberare con l’altra la corda, dandole delle poderose frustate che, tuttavia, non la svincolano dall’incastro. Mi tocca disarrampicare un paio di metri e riprovare a sbloccare la corda che non ne vuole sapere di liberarsi. Ritorno quindi alla base della parete e, solo nel momento in cui riporto la corda in linea verticale, riesco a tirarla fuori dall’abbraccio dello spigolo malandrino. Questa operazione deve essere durata almeno cinque minuti, che mi hanno ulteriormente prosciugato di energie. Ciononostante, l’arrampicata di questo tratto verticale, che Edoardo valuta essere un III+, mi offre grandissima soddisfazione. Dalla sommità del salto verticale, si procede agevolmente in leggera salita su una stretta cengia, in conserva, fino a raggiungere la cresta della la spalla meridionale del Cristallino di Misurina. Qui, finalmente, mi reidrato e mangio un po’ di frutta secca. Mi sembra di rinascere. Siamo entrambi profondamente soddisfatti di aver aperto una nuova via sulla parete ovest del Cristallino di Misurina (la nuova via, in verità, l’ha aperta Edoardo. Io mi sono limitato a seguirlo. Nonostante ciò, il nobile Edoardo lascia a me l’onore di battezzarla!). Sarà trascorsa almeno un’ora e mezza da Forcella Cristallino ed il sole di fine ottobre inizia a velarsi, sopra le maestose vette del Cristallo e del Piz Popena (fig. 26). Nel 1864, Grohmann descriveva così il panorama che ora ammiriamo: “la vista giù, verso Carbonin e Landro, è bella, quella sul Piz Popena e sul Cristallo è grandiosa e selvaggia“.

fig. 26. Il Piz Popena e, dietro, il Cristallo.

Ora si sale lungo la spalla meridionale, su traccia obbligata e ben indicata, superando sulla sinistra alcune gallerie di guerra, fino a giungere in breve ed agevolmente alla vetta del Cristallino di Misurina, 2775 m (fig. 27 e 28)!

fig. 27. Edoardo raggiunge la vetta del Cristallino di Misurina.
fig. 28. In vetta al Cristallino di Misurina, 2775 m!

Dalla vetta, scendiamo ora in direzione E, verso Forcella de Le Bance, per la stessa via di salita scelta da Grohmann e Ploner nel 1864, data della prima ascensione ufficiale. La discesa è abbastanza agevole; un alternarsi di strette e brevi cenge con facili roccette da disarrampicare. È sufficiente prestare un po’ di cautela a non scivolare sulla ghiaia del pendio. Giunti in prossimità di Forcella de Le Bance, la parete diventa più ripida (fig. 29) e le strette cenge più esposte. Preferisco chiedere a Edoardo di procedere in conserva e, così, superiamo facilmente anche gli ultimi metri.

fig. 29. Lungo la via Grohmann-Ploner del 1864, in vista di Forcella de Le Bance.

Forcella de Le Bance, al contrario di Forcella Cristallino, è una comoda ed ampia sella che mette in comunicazione la Val de Le Bance con la Val de Le Barache, già visitata a luglio di quest’anno (maggiori dettagli sull’itinerario). La Val de Le Bance appare però parzialmente coperta da neve polverosa ed il terreno è molto più duro e compatto di quello trovato nella parallela Val Cristallino. Quanto aveva ragione W. Eckerth quando, nel 1879, descriveva la Val de Le Bance come una “valle esposta a nord e resta in ombra quasi tutto il giorno. Chiusa ai lati dalle ripide pareti delle dorsali del Cristallino, essa si restringe in forma di gola nella parte superiore restando illuminata dal sole per breve tempo soltanto intorno al mezzogiorno”. Ciò si traduce, per me, in una discesa particolarmente faticosa… sarà che le gambe iniziano a sentire la fatica… ma non riesco a sentirmi sicuro ad ogni passo su questo terreno (fig. 30).

fig. 30. La parte sommitale della Val de Le Bance.

La discesa continua, estenuante, fino alla sella che mette in comunicazione la dorsale del Cristallino di Misurina con la Croda de Le Bance. Da questa altezza, non troviamo più neve ma il fondo resta particolarmente insidioso, durissimo, e lo scarpone continua a non riuscire a scavare il minimo gradino in discesa (fig. 31 e 32).

fig. 31. Il restringimento della Val de Le Bance.
fig. 32. Il restringimento della Val de Le Bance e la Croda de Le Bance, sulla sinistra.

A questo punto, il pendio diventa sempre più moderato e, con esso, diminuiscono le mie difficoltà di progressione. Ci troviamo però di fronte ad un salto di roccia, alto circa un paio di metri. Non possiamo aggirarlo e siamo costretti a preparare un ancoraggio intorno ad un pesante masso, per effettuare una veloce calata.

fig. 33. Giunti sul margine di un salto di roccia.
fig. 34. Edoardo prepara l’ancoraggio per la calata.
fig. 35. Ed ecco Edoardo che supera agilmente il salto di roccia.

Ormai inizia ad imbrunire e siamo effettivamente piuttosto stanchi. Ci troviamo circa a metà della Val de Le Bance. Accendo quindi la lampada frontale ed iniziamo un cammino infinito sulle ghiaie nella parte finale della valle, fino ad addentrarci nei tanto amati baranci, dove perdiamo la traccia e procediamo per un tempo che mi sembra interminabile verso valle, correggendo di tanto in tanto la traiettoria e seguendo come linea ideale lo spartiacque della Val de Le Bance (fig. 36).

fig. 36. Tra baranci e ghiaie, uscendo dalla Val de Le Bance.

Dopo un’infinita lotta dentro i mughi, intercettiamo, finalmente, la traccia che, nel bosco, mette in comunicazione Malga Mosca con il ponte de La Marogna, dove abbiamo l’auto. La traccia ci sembra un’autostrada, dopo undici ore di cammino fuori sentiero. Percorrendola in direzione NO, giungiamo finalmente alla meta, alle ore 20.20, stravolti ma soddisfatti!

Ascensione della Furcia dai Fers de Fora da Tamersc

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE (una corda da 30m può essere utile per assicurarsi in alcuni passaggi più impegnativi. Trattasi peraltro di passaggi non obbligatori, che possono essere aggirati con itinerario meno diretto ma forse più comodo).
DURATA: 8 h – DISTANZA: 11.10 km – DSL: 1125 m D+

DATA: 17 ottobre 2021

PREMESSE

Un altro itinerario che custodivo nel cassetto da due anni! Ci troviamo al margine settentrionale delle Dolomiti di Fanes. Anche questa volta, le informazioni a disposizione sono scarse se non addirittura completamente assenti. Sappiamo sicuramente che sulla Furcia dai Fers si è svolta l’epica battaglia finale narrata nella saga del Regno dei Fanes, con sconfitta definitiva di quest’ultimi. Sappiamo, inoltre, che l’ascensione della Furcia dai Fers de Fora viene usualmente praticata dal lago Piciodel, salendo il faticoso ghiaione e poi rimontando la spalla S. Eppure sul versante opposto, nei pressi di Tamersc, la cartografia indica una traccia che, traversando la valle incuneata tra la Furcia dai Fers e la Montesela/Muntejela di Fanes (Monte Sella di Fanes), nota anche come Piz de Sant’Antone, conduce alla medesima spalla S. Ed è proprio questo l’itinerario prescelto, nonostante non si rinvengano descrizioni di sorta a riguardo. Come di consueto, compagno dell’avventura è il valoroso amico Paolo. Per l’occasione, inoltre, sarà dei nostri anche Edoardo, guida alpina di Cortina, che ha accettato con entusiasmo l’originale proposta di itinerario!

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto nei pressi di un ponte poco dopo località Tamersc, ci inoltriamo nel bosco sulla sinistra orografica della valle, trovando e percorrendo per pochi metri una mulattiera erbosa le cui tracce presto svaniscono nel bosco. Iniziamo quindi la salita a naso, individuando una tenue traccia che corrisponderebbe, effettivamente, con la traccia GPS della carta Tabacco. Il bosco diventa tuttavia troppo fitto ed intricato per permettere un agevole incedere, sicché ci troviamo a preferire una salita in verticale sul margine di un largo impluvio detritico (fig. 1 e 2).

fig. 1. Usciamo dal bosco e risaliamo il margine sinistro di un largo impluvio detritico.
fig. 2. La salita, non proprio agevole, del vasto colatoio.

Giunti pressoché all’apice del colatoio, scegliamo di rimontare il margine per riguadagnare il bosco. Ed ecco la prima difficoltà: la parete dell’impluvio è particolarmente compatta e dura; probabilmente il ghiaccio interstiziale della notte comincia ad amalgamare bene questi pendii esposti a nord. Fatichiamo quindi a scavarci il minimo solco che ci regga con sicurezza nella salita. Provvidenziale è l’intervento di Edoardo, che supera agilmente il ripido pendio ed improvvisa un ancoraggio su tronco di mugo. Saliamo quindi assicurati, non senza qualche difficoltà (fig. 3 e 4).

fig. 3. Edoardo affronta senza alcuna difficoltà il ripido traverso.
fig. 4. Paolo affronta assicurato il pendio.

Ci inoltriamo quindi nuovamente nel bosco, identificando una probabile traccia che supera alcuni ripidi tratti di terreno roccioso e sporco. La traccia si perde subito e cerchiamo di guadagnare il più possibile quota superando piccoli smottamenti e balze erbose (fig. 5), fino a giungere ad una comoda cengia ai piedi di un anfratto roccioso (fig. 6). Qui troviamo un bel segno giallo su un albero e qualche sbiadito bollo rosso sulla parete. Rincuorati, procediamo aggirando la paretina rocciosa sulla destra.

fig. 5. Paolo si inerpica nel bosco aggirando il pendio friabile.
fig. 6. Finalmente troviamo un segnale che ci indica d’essere sulla giusta via.

Procediamo ora nel bosco più rado, su terreno comodo, sempre risalendo in direzione S, fino a che individuiamo un ometto che ci indica la via (fig. 7): si tratta, ora, di ripiegare sulla sinistra, fino ad incrociare un vasta frana che incide la vallata e funge da spartiacque (fig. 8).

fig. 7. L’ometto e l’evidente traccia che conduce a breve alla frana.
fig. 8. Entriamo nel greto che funge da spartiacque della valle.

Camminiamo sul greto e puntiamo i biondi larici alla cui base intravediamo una traccia. Secondo la cartografia, il sentiero dovrebbe costeggiare la frana, tra i mughi. Evidentemente, l’erosione ha cancellato negli anni il sentiero. Superato il gruppo di larici, che ci lasciamo sulla destra, saliamo per facili rocce le pareti levigate del greto del torrente giungendo infine al salto di roccia che sbarra l’accesso alla valle superiore (fig. 9). Confluiscono qui tre canaloni. Il primo, a destra, è un impluvio detritico ghiaioso; il secondo, sempre sulla destra, è un susseguirsi di piccoli salti di roccia. Deviando nettamente a sinistra, invece, si apre un profondo canyon che taglia la valle ed ospita un modesto torrente. Scegliamo di imboccare la seconda via, sulla destra.

fig. 9. Il sole fa capolino dalla parete N della Furcia dei Fers.
fig. 10. Lasciamo a destra il primo impluvio e, superato lo sperone roccioso, rimontiamo sulla destra lungo il canalone.

Il fondo del canale che saliamo è spesso ghiacciato e, per superare un piccolo salto di roccia, ci assicuriamo al tronco di un barancio: una caduta sul ghiaccio sarebbe infatti rovinosa (fig. 11 e 12)!

fig. 11. Paolo supera assicurato un salto di roccia ghiacciato.
fig. 12. Edoardo assicura Paolo al solido tronco di un pino mugo.

La salita prosegue su facili roccette friabili (fig. 13) fino a che riteniamo di aver raggiunto una quota sufficiente per riprendere il traverso del costone barancioso in direzione S. Aprendoci il varco tra i mughi, intersechiamo due canali detritici che scendono fino a raggiungere un più vasto canale, apparentemente la parte sommitale del profondo canyon che si diramava sulla sinistra ai piedi del salto di roccia iniziale (fig. 14).

fig. 13. Edoardo sale l’ultima parte del canale detritico.
fig. 14. Paolo attraversa il tratto apicale (e terminale) del profondo canyon.

Da qui, la salita diventa agevole, su fondo erboso, fino a raggiungere un’area che, in carta Tabacco, corrisponde ad un bivio (fig. 15). Il ramo di sinistra del bivio sulla carta si interrompe pressoché immediatamente. Di contro, la Tabacco suggerirebbe di muovere verso destra, fino a salire (a quanto pare) su un costone roccioso alle pendici della Montesela di Fanes. Francamente, non riusciamo a capacitarci del motivo di tale “deviazione”; di fronte a noi, infatti, si apre un’amena vallata erbosa ed assolata, a vista priva di ostacoli di sorta… perché dovremmo andare ad incrodarci su un terreno ripido, apparentemente esposto ed all’ombra? Decidiamo quindi di ignorare totalmente la traccia indicata dalla cartografia e di percorre una spalla erbosa (fig. 17) per poi scendere, sulla sinistra, in un canalone detritico (fig. 18). Da qui in breve ci ritroviamo in una magnifica valle, condivisa solo da un numeroso gregge di camosci che transita sulle ripide cenge della Furcia dai Fers (fig. 19). La cartografia Tabacco non riporta il nome di questo luogo paradisiaco che, in altre mappe, ho trovato denominato come Pizzo Forca di Ferro (Dont de Furcia dai Fers). Non sarebbe peraltro possibile descrivere, a parole, la bellezza dell’ambiente che ci circonda. Sembra che questa valle sia rimasta per anni ed anni inviolata, completamente priva di alcun segno di passaggio umano.

fig. 15. Giunti presso il “bivio” segnato nella carta Tabacco.
fig. 17. La traiettoria che preferiamo tenere, senza seguire le indicazioni della cartografia Tabacco, che ci invitano a rimontare sulle pendici della Montesela di Fanes.
fig. 18. Il canalone detritico che mette sulla sinistra della spalla erbosa.
fig. 19. La magnifica valle incuneata tra la Furcia dai Fers e Montesela di Fanes, meglio nota come Pizzo Forca di Ferro oppure Dont de Furcia dai Fers. Un remoto paradiso di silenzio.

Procediamo quindi all’interno della valle cercando di tenerci il più possibile in quota (fig. 20), in direzione della sella, che al momento non vediamo, tra la Furcia dai Fers de Fora (nostra meta) e la Furcia dai Fers da Ete, 2489 m (fig. 21). Alle nostre spalle, troneggia la Montesela de Fanes, 2655 m. (fig. 22). Tra queste rupi, si è svolta la battaglia finale che vide la sconfitta del popolo di Fanes, così come narrata nell’epica saga del Regno dei Fanes. K.F. Wolff descriveva la scena con le seguenti parole: “Il sole era tramontato dietro l’alta catena rocciosa irta di punte dei monti di Vanna. Ai piedi delle rocce strisciavano le ombre della sera che si allungavano via via su tutto il paese. La maggior parte dei caduti giaceva intorno alla vetta chiamata “Furtja dai Fers” (Forca dei Ferri), perché in quel punto si era combattuto più a lungo e con maggiore accanimento. Un grosso corvo si era posato sull’elmo di un guerriero morto e gli beccava il viso. Un avvoltoio lo guardava pigramente“.

fig. 20. Tenendoci il più possibile in quota, in direzione della sella.
fig. 21. La Furcia dai Fers da Ete, 2489 m, sulla sinistra. La sella sulla destra, parzialmente celata, è la Forcia dai Fers, 2320 m.
fig. 23. Alle nostre spalle, la Muntejela de Fanes o Piz de Sant’Antone, 2655 m.

Guadagnata finalmente la cresta che sale alla Furcia dai Fers, si apre una visione mozzafiato sulle vette circostanti. Verso S, da sinistra, il Bechei di sopra, 2794 m, dietro sormontato dalla Tofana di mezzo, 3244 m, dalla caratteristica piramide della Tofana di rozes, 3225 m, parzialmente coperta dal Piz di Forcia rossa IV, 2806 m. Procedendo verso destra, Cima Campestrin sud, 2910 m, Punta Fanis di mezzo, 2989 m, ed il Lagazuoi piccolo, 2778 m (fig. 24). Volgendo lo sguardo a E, da destra a sinistra, si distinguono nettamente forcella Camin, salita all’incirca un paio di mesi prima (leggi la relazione dell’itinerario), il monte Ciamin, 2600 m, subito sotto forcella Gran Valun (pure guadagnata nell’itinerario precedentemente citato) e il Banch dal Se, 2400 m. In fondo, sulla sinistra, il gruppo della Croda Rossa: si distingue chiaramente forcella Colfiedo, traversata l’anno scorso (leggi la relazione dell’itinerario) (fig. 25).

fig. 24. Le vette ampezzane svettano dietro le pareti del Col Bechei di sopra.
fig. 25. Le vette sul versante E della Furcia dai Fers.

Risaliamo ora la cresta, lungo un’evidente traccia che aggira uno sperone roccioso sulla sinistra (fig. 26) e… siamo finalmente in cima, a 2534 m, (fig. 27, 28 e 29So).

fig. 26. Aggirando lo sperone prima della cima.
fig. 27. In cima alla Furcia dai Fers de Fora, 2534 m.
fig. 28. Godendomi il panorama dalla vetta della Furcia dai Fers de Fora.
fig. 29. In cima!

Sono quasi le 16.00 ed è ora di iniziare la discesa, che avviene, fino alla sella tra la Furcia dai Fers de Fora e da Ete, sulla stessa linea di cresta dell’andata (fig. 30).

fig. 30. La discesa verso la sella tra le due Furcia dai Fers.

Giunti in sella, si inizia la discesa verso E, tenendo in fronte il Banch dal Se, dapprima su terreno prativo (fig. 31) e poi su più ripido ghiaione, con divertente corsetta (fig. 32).

fig. 31. La prima parte della discesa attraversa le pendici prative della Furcia dai Fers de Ete.
fig. 32. La discesa lungo il ghiaione.

Là dove il ghiaione termina tra i baranci, teniamo la sinistra, costeggiando idealmente la parete della Furcia dai Fers, tenendo una direzione NE, fino a trovare una tenue traccia che, a fatica, attraversa i fitti mughi. Giungiamo quindi ai ruderi di una casa di legno collocata in una radura (fig. 33).

fig. 33. Giunti alla casa di legno abbandonata.

L’obiettivo sarebbe ora procedere lungo la traccia nera tratteggiata in carta Tabacco che, costeggiando le pendici dalle Furcia dai Fers, dovrebbe condurci nei pressi di Tamersc, lungo una via evidentemente più breve rispetto a quella del sentiero n. 7 che passa per il rifugio Pederù. Ci proviamo ma fin da subito l’impresa sembra piuttosto ardua. Dalla casetta, infatti, non troviamo tracce evidenti che seguano la traiettoria indicata dalla cartografia. Camminiamo tra i baranci, non troppo fitti, incrociando delle possibili tracce che, tuttavia, sembrano morire di volta in volta. Traversiamo ora un ripido ghiaione (fig. 34) ma ci troviamo di fronte a pareti che sembrano inviolabili.

fig. 34. Traversando l’ultimo ripido ghiaione prima di abbandonare.

Nonostante la traccia della Tabacco indichi di proseguire esattamente sulla via dove ci troviamo, rimontando per ripidi salti di roccia, preferiamo desistere e scendere lungo il ghiaione, fino ad incrociare il sentiero n. 7. Probabilmente, questo antico sentiero che non troviamo consiste in un viaz che taglia le pareti lungo esposte cenge ormai invase dai mughi. Noi, per oggi, siamo soddisfatti dell’avventura già compiuta; inizia ad imbrunire e scegliamo di scendere al rifugio Pederù, per poi procedere sulla strada asfaltata in direzione dell’auto (fig. 35).

fig. 35. Il Banch dal Se baciato dagli ultimi raggi prima della sera.

Ecco il video dell’avventura magistralmente montato da Paolo!

La relazione del compagno d’avventura Paolo saprà sicuramente arricchire di particolari ed emozioni quanto sinora descritto!

Traversata dell’inaccessibile Val de Meso e del Gran Valun per Forcella Ciamin e Forcella Gran Valun

Val de Meso

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE+ (il + è per il solo impegno fisico nell’attraversamento del Ruoibes de inze).
DURATA: 11 h – DISTANZA: 21,5 km – DSL: 1348 m D+

DATA: 22 agosto 2021

Premesse

Danilo Pianetti titolava il presente itinerario “L’alta dimora degli dei è silenziosa”, pubblicato su Le Alpi Venete nel 1988. Mai definizione simile fu più azzeccata. Come tutte le spedizioni in stile “Windchili”, anche su questa troviamo scarsissime informazioni. Sappiamo che la salita a Forcella Ciamin è un apprezzato itinerario invernale, purtroppo tristemente noto per la valanga che nel 2007 costò la vita a due sci alpinisti. Sappiamo che, là dove molti itinerari descritti in questo blog sono completamente fuori traccia, il presente è “almeno” segnato sulle mappe, anche sulle più recenti, come sentiero difficile (come si vedrà, la mappatura della traccia ha costituito più un problema che un beneficio). Conosciamo, poi, la versione delle guide alpine di San Vigilio di Marebbe e di Cortina, all’estate del 2020. Entrambe non sono mai state in stagione estiva. In particolare, le guide di San Vigilio di Marebbe mi hanno domandato perché, con tutti i posti belli che ci sono in montagna, volevo proprio complicarmi la vita su quell’itinerario… (il titolo di Danilo Pianetti non è sufficiente 😉 ???). Le guide alpine di Cortina, invece, dopo un breve confronto sulle mie capacità, con apprezzabile obiettività, mi avevano suggerito di salire e, al massimo, ritornare sui miei passi se gli ostacoli fossero divenuti insormontabili. Decisamente più drastico era stato l’approccio dei gestori del Rifugio Fodara Vedla che, interpellati di persona sulla possibilità di traversare Forcella Gran Valun e scendere per l’omonimo vallone, avevano bocciato la mia idea, comunicandomi che nessuno transitava più per quel sentiero in quanto l’intera valle era stata brutalmente erosa dai violenti fenomeni meteorologici delle ultime stagioni. Infine, conosciamo la valutazione fornita da Paolo Beltrame, nella sua guida Croda Rossa – 101% Vera Montagna, datata 2008, che descrive dettagliatamente l’itinerario e lo classifica come “E” (sappiamo però che il Beltrame ha un metro di valutazione che, talvolta, non abbiamo condiviso e ci aspettiamo, quindi, che il suo “E” corrisponda a un “EE”!!!). A posteriori, l’itinerario non presenterebbe nel suo complesso particolari difficoltà tecniche, se non nella salita da forcella Ciamin a forcella Gran Valun per la ripidità del ghiaione. Il vero immane ostacolo di tale escursione è l’accesso alla Val di Meso, traversando l’invalicabile Ruoibes de Inze; rarissime sono le tracce, profondi e ripidi gli impluvi franosi, impenetrabili le pareti di mughi, alte oltre i tre metri. Per traversare gli 8km del Ruoibes de Inze, abbiamo impiegato addirittura quattro ore!!!

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Lasciata l’auto presso il parcheggio in località S. Uberto, scendiamo a valle in pochi minuti, fino a traversare il ponte sull’Aga de Ciampo de Crósc. Subito dopo il ponte, sulla destra, si inserisce il sentiero n. 418 che conduce al Casón de Antruiles (o Antruilles) (fig. 1).

fig. 1. Il Cason de Antruiles.

Lasciando il Cason de Antruiles sulla sinistra, si procede per pochi metri nel bosco, seguendo la mulattiera, fino ad incontrare il torrente che scende dalla Val de Meso. Ci si tiene sulla destra idrografica del torrente, senza quindi attraversare il ponte, e si comincia la salita costeggiando il torrente, su una vecchia ed incerta traccia che entra nel bosco (fig. 2).

fig. 2 La traccia che entra nel bosco.

Dopo pochi minuti nel bosco, troviamo il primo ostacolo che opera indubbiamente una “selezione naturale” dei pochi escursionisti che scelgono di intraprendere questo itinerario. Il costone è interamente franato, per una larghezza di almeno trenta metri, cancellando il sentiero (fig. 3). Saltiamo dentro alla frana e traversiamo rimontando il bosco senza troppe difficoltà (fig. 4).

fig. 3 La prima frana lungo il costone boschivo di Ruoibes de Inze.
fig. 4 Paolo entra nella frana.

Rimontare nel bosco non è stato molto utile poiché ci ritroviamo davanti una nuova frana che ha cancellato il sentiero (fig. 5). Decidiamo, quindi, di entrare nel greto del torrente e risalirlo per qualche decina di metri (fig. 6 e 7), in attesa di ritrovare il costone boschivo intatto.

fig. 5 La frana ha nuovamente cancellato il sentiero.
fig. 6 Il sottoscritto attraversa il torrentello per l’ennesima volta!
fig. 7 Paolo attraversa il torrente.

Guadagnate, non senza fatica, alcune decine di metri zigzagando sul greto del torrente, identifichiamo un punto in cui la risalita pare favorevole (fig. 8 e 9) e ci inerpichiamo nuovamente nel bosco.

fig. 8 Provando a rimontare il costone franato in cerca di un varco…
fig. 9 Paolo risale il costone franato.

Ancora una frana, tuttavia, spazza l’intero costone. Decidiamo di traversarla (fig. 10 e 11) e scendere nuovamente lungo il greto del torrente, che pare ora più ampio e facilmente percorribile (fig. 12).

fig. 10 Ancora una frana che cancella il sentiero!
fig. 10 Paolo scende con cautela verso il greto del torrente.
fig. 11 Il greto del torrente, ora più ampio, ci permette di risalire la valle più agevolmente.

Risaliamo quindi nuovamente il costone del versante idrografico destro del torrente, là dove la traccia indicata in mappa inizia a curvare leggermente verso SO, in direzione delle pendici della Croda de Antruiles, superando alberi schiantati e smottamenti (fig. 12).

fig. 12 Il punto in cui la freccia rossa entra nel bosco corrisponde a dove la traccia, secondo la cartografia Tabacco, dovrebbe transitare. Non troviamo però alcun minimo segno di passaggio, nemmeno remoto, tale da lasciare ipotizzare che una traccia transitasse nei pressi.

Procediamo nel bosco, controllando regolarmente (quasi maniacalmente) la nostra posizione sul GPS, senza peraltro rinvenire alcun indizio che lasci supporre l’esistenza di una traccia. Inizia ora la parte più difficile dell’itinerario. Attenendosi precisamente alla traccia mostrata sulla carta Tabacco, ci si trova in tratti nei quali il passaggio è assolutamente precluso. Ci troviamo a dover superare intricatissimi muri di pini mughi (fig. 13), senza nemmeno riuscire a calpestare il suolo ma arrampicando come scimmie tra gli elastici e dondolanti rami. Si superano di volta in volta impluvi ghiaiosi più o meno profondi, che rimontano poi in altri impenetrabili boschi di mugo. L’incedere è estremamente faticoso e molto lento. L’umidità dentro i mughi è estenuante.

fig. 13 Il percorso secondo la cartografia Tabacco…
fig. 14 Da un raro punto di osservazione più elevato, vediamo solo… pini mughi.

Siamo stremati e decidiamo di abbandonare il percorso indicato dalla Tabacco. Apro una piccola parentesi di riflessione a riguardo: il fatto che l’edizione aggiornata della carta Tabacco indichi una traccia inesistente e completamente errata è increscioso. L’esistenza di un’indicazione fuorviante dettata da un’autorità di riferimento in materia, quale è la cartografia Tabacco, può inoltre risultare particolarmente pericoloso per l’escursionista che, come noi, vi faccia affidamento. Se l’aggiornamento corretto di una traccia non è, per molteplici ragioni, fattibile, la traccia deve essere cancellata dalla mappa, per consentire all’escursionista di scegliere il percorso migliore in totale autonomia. Ed è quello che abbiamo fatto, scegliendo di salire fino alle pendici rocciose della Croda de Antruiles, dove, fortunatamente e finalmente, abbiamo trovato una debole traccia che conduce alle pareti dello sperone più esterno della Croda del Antruiles (fig. 15 e 16).

fig. 15 Alle pendici della Croda de Antruiles, finalmente fuori dai mughi, troviamo una timida traccia.
fig. 16 Il sottoscritto, sguardo alle pareti della Croda de Antruiles, finalmente soddisfatto di aver trovato un terreno praticabile!

La nuova traccia perde leggermente quota e ci conduce fino ad un impluvio che solca le pendici dello sperone più esterno della Croda de Antruiles (fig. 17 e 18). Entriamo dentro l’impluvio e scendiamo fino all’intersezione con un ulteriore e minore impluvio, in corrispondenza dell’estremità dello sperone. Da qui risaliamo sul versante opposto.

fig. 17 Discesa sul fondo dell’impluvio in corrispondenza dello sperone esterno della Croda de Antruiles.
fig. 18 Nell’intersezione dei due impluvi, in corrispondenza dell’estremità dello sperone della Croda de Antruiles.

Rimontato il sentiero eh… miracolo: troviamo il primo ometto (fig. 19)! Non sappiamo, purtroppo, che l’illusione svanirà a minuti; dopo pochi metri, la traccia è visibilmente sbarrata con delle pietre poste di traverso. Provo a proseguire per comprendere l’entità dell’ostacolo e mi trovo di fronte ad un bel salto di oltre una decina di metri. Siamo quindi costretti ad attraversare il più profondo e ripido solco franoso incontrato fino ad oggi.

fig. 19 Il primo ometto della giornata!

L’attraversamento del profondo canale franoso si rivela tutt’altro che semplice. Per accedere alla frana, siamo dapprima costretti a calarci su ripido terreno roccioso, aggrappandoci ai resistenti e flessibili rami dei pini mughi (per una volta, tornano utili!). Giunti sul terreno franoso, sotto un primo strato detritico grossolano e mobile, il fondo si mostra molto più duro e compatto del previsto, al punto che il tallone non riesce a scavare un gradino sufficiente a garantirci una sicura stabilità in discesa. Scendiamo quindi a quattro zampe o, come dicono i poeti, “di culo”. Se la discesa fino alla base del solco franoso ci ha provato fisicamente, la salita per rimontare il versamento opposto si rivela ancora più impegnativa! Improvviso una salita in traiettoria diagonale là dove il pendio mi sembra meno inclinato e scavo con tutta l’energia che ho nelle gambe dei gradini il più profondi possibile. Il terreno è però su questo versante friabile, poco compatto, e lo scarpone non ha presa sicura. Devo conficcare con quanta più forza ho in corpo i bastoncini nel pendio per riuscire a non franare insieme al terreno che mi cede sotto i piedi (fig. 20). La stessa traiettoria risulta meno fortunata per l’amico Paolo, che rimedia una bella grattata sul braccio 🙁 (fig. 21)

fig. 20 La traiettoria tenuta per traversare il profondo impluvio.
fig. 21 Lo scivolone di Paolo, fortunatamente privo di conseguenze.

Superato anche questo ostacolo, ritroviamo una traccia che però si perde dopo pochi passi nei pini mughi. Avanziamo alla cieca, di pino mugo in pino mugo, spremendo ogni singolo muscolo per mantenere l’equilibrio ed aprirci un varco nell’intrico dei rami. Ogni tanto, una piccola radura erbosa ci permette di respirare e controllare il GPS, che ci pone nuovamente in corrispondenza della traccia segnata sulla carta Tabacco. Traccia, tuttavia, che non vediamo minimamente. Che incredibile beffa! Finalmente, riesco a guadagnare una posizione vantaggiosa che mi permette di osservare al di sopra della linea dei pini mughi. Basta un veloce sguardo per capire che ci siamo quasi! Le ghiaie della Croda Ciamìn sono a poco più di una cinquantina di metri davanti a noi. Entusiasti della scoperta, procediamo con ignorante violenza, senza più cercare il varco più agevole. Avanzo tra i mughi aggrappandomi ai rami come fossero liane e mi lascio accompagnare per inerzia fino alla meta. Mai agognai di più uno spazio aperto!!! Giunti alla lingua più esterna della frana che dolcemente scende dalla Val de Meso superiore, ci spogliamo e ripuliamo degli aghi di pino e dei sassolini negli scarponi! La Val di Meso si staglia ora di fronte a noi, silenziosa, immobile, completamente deserta ed assolutamente inviolata (fig. 22). Piccola riflessione: è evidente che questo accesso alla Val de Meso non è consigliabile. È altrettanto chiaro, visto i pochi indizi trovati, che, illo tempore, il sentiero risaliva più o meno dove siamo passati noi ma, sicuramente, non è una via oggi suggeribile. Solo per dovere di completezza, riporto l’itinerario proposto da Ugo di Vallepiana nel 1925, consapevole che quasi sicuramente sarà anch’esso precluso da frane e vegetazione. Dalla Malga d’Antruiles, “non appena valicato il ruscello di Moz, per una mulattiera sulla sua destra, risalire la Val de Mez. Dove la strada sparisce, traversare per pendii e boschi verso destra in direzione della continuazione della strada che termina su un prato dov’è una sorgente. Su per il canale ghiaioso a destra della sorgente fino nelle vicinanze delle rocce dove una traccia di sentiero conduce verso destra per gerbidi e pini nani. Superare numerosi costoncini fino ad un ripido pendio erboso conducente nella valle superiore della Vel di Mez” (Ugo di Vallepiana, Dolomiti di Cortina d’Ampezzo dal Cristallo per le Tofane alla Croda da Lago, 1925, Guide del Club Alpino Italiano, pag. 110). In sostanza, Ugo di Vallepiana risale sempre sulla destra al contrario di noi che ci siamo portati sulla sinistra della valle.

fig. 22 La Val de Meso.

Scegliamo di salire tenendoci sul versante idrografico sinistro dello sperone erboso che spacca a metà la Val de Meso, nonostante la carta Tabacco indichi l’esistenza di una traccia sull’opposto versante. Quest’ultimo versante è però visibilmente solcato da frane e il fondo appare tutt’altro che agevole. Guadagnato il cocuzzolo sul lato prescelto, la salita risulta comoda su fondo erboso (fig. 23). Giungiamo sulla sommità di questa amena “isola” al centro della Val de Meso per poi percorrerla nella sua intera lunghezza (fig. 24) e scendere quindi sul versante idrografico destro della vallata, incontrando le ghiaie della Croda de Antruilles.

fig. 23 Salendo al lato del cocuzzolo erboso.
fig. 24 In cresta al cocuzzolo erboso, per poi traversarlo e discendere sul versante idrografico destro della vallata.

Finalmente, il profilo della Forcella Ciamin si staglia davanti a noi. Abituati a salire ripide forcelle ghiaiose, Forcella Ciamin ci stupisce per la sua dolcezza. È una forcella erbosa, molto ampia, di comodo accesso. Accelero quindi il passo, incuriosito da questa insolita meta e, in breve, raggiungo la forcella posta a 2395m (fig. 25). La prima meta è conquistata! Riprendo fiato ed attendo Paolo che, a breve, mi raggiunge in forcella (fig. 26).

fig. 25 Raggiunta la Forcella Ciamin, 2395m.
fig. 26 Paolo arriva in Forcella Ciamin.

Il panorama che si apre di fronte a noi è maestoso. Il versante O della Forcella Ciamin è ripido e franoso, al contrario del versante appena salito. Le lingue franose si esauriscono a poche decine di metri dal Lago Piciodel. Le ripide pareti della Furcia dai Fers contrastano con i morbidi pascoli dell’Alpe di Fanes e raccolgono in un abbraccio il Piz de Sant’Antone, 2655m, alle cui spalle svetta la più alta cima della zona, il Sasso delle Nove, 2968m (fig. 27). Alle nostre spalle, guardiamo la Val de Meso, superata con grande dispendio di energie. Una valle conchiusa tra la Croda Ciamin, a N, e la Croda de Antruilles, a S, le cui rispettive ghiaie ormai si mescolano sul fondo della Val di Meso, pioggia dopo pioggia (fig. 28). Per tutta la Val de Meso, fatta eccezione per due ometti, non abbiamo rinvenuto alcuna traccia di passaggio umano, sia essa un’impronta ovvero il segno a terra di un sentiero.

fig. 27 Il panorama mozzafiato che si apre ad O da Forcella Ciamin.
fig. 28 La Val de Meso: a sinistra (N) la Croda Ciamin e a destra (S) la Croda de Antruilles.

In forcella tira un certo venticello fresco e decido di muovermi subito perché mi sento raffreddare rapidamente. Ora viene la parte “difficile”. E si vede fin dalla base. La salita a Forcella Gran Valun appare moderatamente ripida. Non trovando una traccia, devo ancora una volta aprire la via a istinto. Inizio a salire mantenendo una traiettoria diagonale che punta ad un varco tra la parete del Monte Ciamin ed un affioramento roccioso all’imbocco del canalone tra il Monte Ciamin stesso e la Croda Ciamin. A metà via, peraltro, mi rendo conto che la pendenza è troppo sostenuta ed il terreno troppo cedevole per mantenere il traverso previsto. Sono quindi costretto e ripiegare fino alla base dello sperone del Monte Ciamin, dove si intravedono delle zolle erbose che dovrebbero garantire un migliore appiglio (fig. 29).

fig. 29 La traiettoria poi tenuta per guadagnare l’imbocco del canalone.

L’inizio del canalone è ancora più ripido e sono costretto a salire il canalone sulla sinistra, a ridosso della parte del Monte Ciamin, aiutandomi con le mani sui generosi appigli coperti di detriti. Nel mentre, Paolo sta attaccando la salita alla base del ghiaione (fig. 30).

fig. 30 Paolo alla base del ghiaione attacca la salita a Forcella Gran Valun.

L’incedere si rivela particolarmente faticoso, almeno fino al raggiungimento di una modesta conca poco prima della forcella, che spezza la pendenza della salita. Da lì, in pochi metri, si giunge in Forcella Gran Valun, 2523m (fig. 31). Nuovamente, nessuna traccia di passaggio umano. A monte della forcella, chissà quanto tempo fa, qualcuno aveva improvvisato una croce con del fil di ferro e dei pezzi di legno. Ora giace mezza smontata a terra. Mentre aspetto Paolo, mi diletto a rimodellare la croce conficcandola entro una piramide di sassi.

fig. 31 Forcella Gran Valun, 2523m. In primo piano, la cima di Monte Ciamin, 2610m. Sullo sfondo, la Croda de Antruilles.

Il panorama è ancora più maestoso di quello goduto da Forcella Ciamin. Il Gran Valun è, effettivamente, grande, immenso, racchiuso a O dal Banch Dal Sé e a E dallo sperone N della Croda Ciamin. Finalmente possiamo goderci la tappa più sudata ed agognata (fig. 32)!

fig. 32 Giunti entrambi in Forcella Gran Valun!

La discesa avviene per via abbastanza evidente, sulla sinistra, tenendo come punto di riferimento la forcella Banch Dal Sé. Anche su questo versante, nessuna traccia di passaggio umano. Riusciamo però a interpretare preventivamente il tipo di fondo grazie alle impronte dei camosci che ci hanno preceduto: dapprima troviamo un fondo divertente, quasi sabbioso, che poi vira presto in un fondo compatto ed infido (fig. 33). Superata una prima parte in moderata pendenza, la discesa diventa via via più agevole (fig. 34 e 35).

fig. 33 Mentre inizio la discesa da Forcella Gran Valun.
fig. 34 Lasciamo alle spalle la parte più insidiosa della discesa.
fig. 35 Ormai il piano ha perso di pendenza e si procede senza problemi.

A questo punto, si costeggia la propaggine rocciosa sulla destra, che ci conduce, su ghiaino sempre più fine e divertente, nel bel mezzo del Gran Valun. Ora la discesa è appagante, l’ambiente maestoso e solitario (fig. 36, 37, 38 e 39).

fig. 36 L’inizio del divertente ghiaione.
fig. 37 Costeggiando gli ultimi metri dello sperone roccioso che si inserisce nel Gran Valun.
fig. 38 La discesa nel ghiaione del Gran Valun
fig. 39 Il Banch Dal Sé

Ormai al centro del Gran Valun, diventiamo puntini nel grandioso anfiteatro che ci circonda (fig. 40). Miriamo alla zolla erbosa alle pendici della valle, dalla quale dovremo tenere la destra per evitare l’imponente salto di roccia che nasconde il vuoto (fig. 41). Qui troviamo, dopo ore ed ore, i primi segni di passaggio umano: ometti, resti arrugginiti di scatolette, un sentiero.

fig. 40 Prossimi al termine del Gran Valun.
fig. 41 Il Gran Valun, dalle sue pendici.

Ci teniamo il più possibile vicino alle pareti dello sperone N della Croda Ciamin e, traversando alcuni impluvi ghiaiosi che hanno cancellato il sentiero, giungiamo ad una radura prativa che ospita due sorgenti (fig. 42). Da questo ameno spazio verde, deviamo verso N, a sinistra, seguendo per qualche decina di metri il corso del ruscello.

fig. 42 Il sentiero che conduce, tra i vari smottamenti, alla radura dove troviamo le sorgenti.

Ormai il rifugio Fodara Vedla è in vista. In una ventina di minuti lo raggiungiamo, talvolta perdendo la traccia, senza peraltro mai trovare difficoltà di sorta. Al rifugio ci rifocilliamo a dovere e siamo pronti per una lunga discesa fino a Malga Ra Stua, su comoda mulattiera, e, successivamente, fino al parcheggio di S. Uberto, lungo l’ormai deserta strada asfaltata (sono le 19.30!!!) (fig. 43 e 44).

fig. 43 Il lago di Rudo, nei pressi del rifugio Fodara Vedla.
fig. 44 La tipica cascata dell’Aga de Ciampo de Crosc.

Un itinerario epico ed emozionante, alla portata dell’escursionista che abbia una certa flessibilità mentale, una buona dose di forza di volontà e dimestichezza con l’improvvisazione. Per ulteriori approfondimenti e punti di vista, vi rimando con piacere alla relazione scritta dall’amico Paolo. A seguire, inoltre, il bellissimo video del giro montato da Paolo, che ringrazio per il gran lavoro svolto!

Anello di Colfiédo e Ra Sares: traversata del Valon di Colfiédo, Valbònes e Valbònes de Inze per forcella Colfiédo e Val de Gòtres

DIFFICOLTÀ COMPLESSIVA: EE
DURATA: 9 h – DISTANZA: 20 km – DSL: 1457m +

DATA: 13 settembre 2020

PREMESSE

L’anello in questione prevede la traversata in salita del Valon de Colfiédo, fino a forcella Colfìédo, 2721m, ed in discesa di Valbònes e Valbònes de Inze. Il Valon de Colfiédo e Valbònes, in particolare, sono due ampi ghiaioni non solcati da alcun sentiero o traccia. Trattasi, quindi, di una traversata alpinistica che, oltre al rilevante impegno fisico richiesto, prevede una salita ed una discesa su ghiaie sempre instabili, con una pendenza leggermente sostenuta negli ultimi 100m prima della forcella. L’ambiente è selvaggio, severo, assolutamente non frequentato. In inverno, i due versanti diventano meta gradita per chi pratica lo sci alpinismo ma, in estate, sono luoghi veramente remoti. L’accesso alle prime ghiaie del Valon de Colfiédo, sul versante settentrionale dell’omonimo monte, non è per nulla scontato, soprattutto a causa dei continui smottamenti che modificano il greto del torrente da cui diparte la traccia (noi abbiamo sbagliato ben tre volte prima di trovare la traccia nel bosco, e ciò ci è costato sforzi inimmaginabili ed un’oretta e mezza di giri a vuoto tra fitti mughi ed improbabili pendii! Alla fine abbiamo trovato una traccia che eravamo ormai alla base del monte Colfiédo!!! D’altro canto, il fascino delle escursioni proposte su WINDCHILI è proprio questo: avventurarsi e “scoprire”. L’impegno fisico richiesto è in ogni caso appagato dalla maestosità di tali luoghi, spettacolari, poco conosciuti e ricercati (la prima traversata in sci risale solo al 1966 e con le ciaspe al maggio del 1972). Una nota fondamentale: l’itinerario a seguire rappresentato non è sicuramente l’itinerario migliore ma solo l’itinerario che io ed il mio compagno di avventure Paolo abbiamo scelto, a istinto, sul momento. Chi volesse applicarsi potrà di per certo individuare una traiettoria più diretta o agevole. Ciò detto, chi gradisse confrontare il seguente itinerario con una voce certamente più autorevole in materia, potrà trovare una dettagliata relazione del medesimo sull’eccellente guida “Dolomiti. Croda Rossa d’Ampezzo. 101% vera montagna”, 2008, di Paolo Beltrame.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

Proveniendo da Cortina, si lascia l’auto, poco prima di Passo Cimabanche, in un piccolo parcheggio sulla sinistra, a 1511m, pochi metri dopo il Lago Negro, sito sull’opposto lato della strada. Si imbocca, quindi, il sentiero n. 8, su ampia mulattiera militare. Dopo il primo curvone, che devia decisamente a SW, si prende una vaga traccia che, subito scomparendo, risale il bosco in direzione NE, verso le pendici del monte Colfiédo. Si traversa il bosco mantenendo sempre la direzione NE, superando diversi alberi schiantati. La traccia si ritrova saltuariamente, specialmente là dove l’erba cede il passo a vecchie frane, dove il minimo segno di un risalente calpestio è rimasto impresso a terra.

fig. 1 Procedendo “a naso” nel bosco di abeti e pini cembri.
fig. 2 Superando i vari tronchi schiantati.
fig. 3 Amanita Muscaria.

Ci si imbatte in diversi bunker militari non segnati sulla carta Tabacco. La traccia da tenere traversa una decina di metri a monte del primo bunker, superando una breve area di antichi tronchi morti di pini cembri (suppongo).

fig. 4
fig. 5

Si giunge pochi metri a monte di una fessurazione in cemento armato che conduce alla bocca di un nuovo bunker. Probabilmente, ospitava un vecchia teleferica per trasportare l’artiglieria pesante da Cimabanche? O forse rappresentava una gola artificiale per sparare proiettili di grosso calibro a breve distanza sul passo? In ogni caso, dovrebbe trattarsi di installazioni militari costruite intorno agli anni ’30, per proteggersi da un eventuale attacco nemico. Da questo punto, è possibile riprendere la traccia e mantenersi nel bosco per ancora poche decine di metri oppure, come noi abbiamo preferito, uscire dal bosco ed immettersi direttamente sul greto del torrente che scende dal Valon de Colfiédo. Si procede, quindi, in direzione del Valon de Colfiédo, guadando agevolmente il torrente di tanto in tanto.

fig. 6 La singolare gola artificiale che termina su una feritoia di un bunker.
fig. 7 Il percorso sul greto del torrente e la traccia alternativa che si immette in esso, proveniente dal bosco, con evidente ometto.
fig. 8 Si inizia ad intravedere la lontana forcella de Colfiédo.

Si procede addentrandosi nella gola. Sporadicamente, si notano degli ometti che ci rincuorano.

fig. 9 Un primo ometto…
fig. 10 Si tiene la sinistra, camminando su comode ghiaie.
fig. 11a … poi sempre meno comode…
fig. 11 All’orizzonte, le Tre Cime di Lavaredo.

Finché si vedono ometti, significa che va tutto bene. Da quando non si vedono più, significa che bisogna porsi qualche domanda… noi ce la siamo posta ma non abbiamo trovato la soluzione corretta, e siamo giunti alla base di un salto roccioso con cascatella, nei cui pressi, dal monte Colfiédo, scende una ruscelletto che si immette nel rio principale. Già a questo punto, abbiamo sbagliato qualcosa. Sulla sinistra (destra orografica del torrente), non abbiamo notato alcuna traccia che risaliva il costone della gola, quasi sempre franato. È in quel tratto, tra l’ultimo ometto visibile ed il salto di roccia dove la gola si restringe, che deve esserci una qualche traccia che sale nel bosco in direzione O. La già citata guida P. Beltrame, 2008, riporta come segue: “intorno alla quota 1745m, la tracce si infilano tra i mughi non intricati e, con incremento di pendenza, continuano allontanandosi di poco dal torrente fino ad incontrare un rigagnolo d’acqua (c. 1780m, presenza di alcuni vecchi tubi per la raccolta d’acqua)“. Non trovando la menzionata traccia, noi abbiamo proceduto a tentativi. Purtroppo, a complicarci la vita, gioca a mio avviso anche un errore cartografico che ci ha tratto in inganno, e che a seguire rappresento dettagliatamente. ATTENZIONE: riporto i tentativi svolti solo affinché qualcuno non ripeta gli errori da noi compiuti. Invito seriamente chi si cimentasse in tale escursione a non ripercorrere i nostri passi ma a trovare la traccia corretta poco più a valle.

fig. 12 In questo tratto deve rinvenirsi, sulla sinistra, la traccia corretta.
fig. 13 Paolo attraversa il ruscelletto che si immette nel rio principale, alla base della piccola cascata con restringimento della gola. Quasi sicuramente, la traccia corretta è ormai già diversi metri a valle di questa confluenza d’acque.
fig. 14 Cartografia Tabacco aggiornata 2020
fig. 15 Immagine satellitare Google Maps aggiornata 2020. Sopra la linea rossa si distingue il corso del ruscello, sormontato dai pini mughi. Nell’area inclusa nell’ovale è invece distinguibile lo smottamento del costone che porta il ruscello a confluire direttamente sul rio principale, coordinate 46.628378, 12.167378.

Ciò detto, il primo tentativo ERRATO mi ha portato a scalare il primo salto di roccia sul restringimento di gola, per verificare l’esistenza a monte di qualche ometto. La prima parete è alta infatti circa tre metri ed è agevolmente superabile sia sul lato orografico destro che sinistro del rio. Peccato che, giunti alla sommità della prima cascata, ci si trovi di fronte ad ulteriori due salti di roccia, di almeno dieci metri l’uno, il cui superamento in sicurezza mi ha lasciato piuttosto perplesso. A confermare l’erroneità della scelta, la totale assenza di ometti. Conclusione: risalendo dentro la ripida gola attraverso la cascata, non si va da nessuna parte!

fig. 16 Il primo salto di roccia, dove si forma la cascatella, la cui scalata si è rivelata totalmente inutile!

Proviamo, quindi, a svolgere un secondo tentativo, ERRATO (e folle): la risalita del ruscello che si immette sulla destra orografica del rio principale. Una vera pazzia che ci prosciuga di ogni energia. Si tratta di strisciare, letteralmente, sotto i robusti rami di mughi alti anche due metri, con immani sforzi per piegare i rami là dove sbarrano completamente l’accesso (ovunque). Sicuramente è più semplice penetrare una giungla tropicale (anche perché lì si usa il machete, mentre qui dobbiamo farci strada a braccia nell’inestricabile bosco pungente, camminando sul greto infido del ruscello). L’idea è di risalire il ruscello fino alla fine per poi deviare a sinistra fino a trovare qualche probabile traccia là dove scendono gli scialpinisti in inverno. Conclusione: non ha senso fare uno sforzo così immane aprendosi un varco tra i fitti mughi dentro il ruscello. Sicuramente, si fa meno fatica risalendo in mezzo al bosco poco più a valle… però sono quelle esperienze che non si dimenticano e colorano la gita d’avventura e spirito WINDCHILI!

fig. 17 Risalendo il ruscello tra la vegetazione impenetrabile.

Infine, dopo sforzi sovrumani, intersechiamo una probabile traccia verso quota 2000m, qualche decina di metri più a monte della sorgente del ruscello (una minuscola radura di muschio e terra impregnata d’acqua). Ci dirigiamo quindi verso sinistra, direzione S, ed intersechiamo delle potenziali tracce, molto vaghe, che risalgono verticalmente il bosco, pur sempre transitando in mezzo a mughi che, però, risultano ora più radi e meno vigorosi!

fig. 18 Finalmente, individuata una debole traccia che risale il bosco.

Si scende ora in una piccola conca prativa per poi risalire leggermente su traccia più nitida che con una curva decisa rimonta il costone boschivo e si dirige verso N-NO, fino ad incontrare nuovamente ometti ed un simpatico nastrino colorato che rincuora dopo tanta fatica.

fig. 19 Discesa nella piccola conca prativa.
fig. 20 Lieti di aver ritrovato la traccia 🙂

La traccia costeggia ora le pendici N del monte Colfiédo, traversando agevolmente brevi lingue franose.

fig. 21 Si procede su agevoli ghiaioni sulle pendici N del monte Colfiédo.
fig. 22

Il panorama inizia a deliziarci con il suo ampio respiro: la Croda Rossa, 3146m, svetta imponente, bilanciata più a E da Punta del Pin, 2682m. La direzione che preferiamo seguire è ora un grande masso sormontato da un audace piccolo cirmolo.

fig. 23 Lo spettacolare profilo della Croda Rossa ed il masso che optiamo di seguire.
fig. 24 Finalmente usciti dal perimetro dei mughi. Alle nostre spalle, le Tre Cime.
fig. 25 Appropinquandosi al masso sormontato dal pino cimbro.

Giunti al masso sormontato dal pino cimbro, ai cui piedi giace una scheggia di granata della prima guerra mondiale, si è ormai prossimi all’entrata nel ghiaione.

fig. 26 La scheggia di granata.
fig. 27 Scheletro di… una volpe?
fig. 28 Il ghiaione da risalire, in tutta la sua lunghezza!

Incomincia ora la parte più faticosa dell’itinerario. Non tanto per il dislivello che bisogna ancora coprire ma per il terreno su cui bisogna affrontarlo. Le ghiaie sono infatti instabili e più si avanza più la pendenza aumenta. Con tutta la delicatezza del caso, ad ogni passo l’appoggio perde comunque stabilità e bisogna lottare con tutte le articolazioni e i muscoli del corpo per incrementare la quota.

fig. 29 Il Valon de Colfiédo
fig. 30 La forcella di Colfiédo si distingue ora chiaramente.
fig. 31 Imboccato il solco alluvionale rossastro nel tratto finale.
fig. 33 Ultimi sforzi.

Arrivati in forcella Colfiédo, 2721m, si apre uno scenario grandioso sul versante O, mozzafiato, che abbraccia Ra Valbònes (tradotto dall’ampezzano: “le valli buone”), sovrastata dalla maestosa Pala de Ra Fedes. Leone Sinigaglia, risalendo il vallone tra il 1893 e il 1895, scriveva: “la parete fa da mirabile sfondo alla valle deserta, con il suo anfiteatro selvaggio, con la sua ripidissima serie di bastioni e l’aguzza punta, coi giganteschi canaloni che la solcano per ogni verso e la sua larga base fasciata da un enorme campo di ghiaioni… di cui pregustiamo fin d’ora la dolcezza” (L. Sinigaglia, Ricordi di arrampicate nelle Dolomiti – 1893-1895, ed. La Cooperativa di Cortina, 2003).

fig. 34 Vabònes e la Pala de Ra Fedes.
fig. 34 In direzione N, la cima della Croda Rossa, 3146m, si tocca con un dito.
fig. 35 Il sole fa capolino dietro la cima di Ra Sares, 2804m, a portata di mano.
fig. 36 Il Valon de Colfiédo, ormai alle spalle.
fig. 37 Foto di rito in forcella con l’amico Paolo.

Ed ora inizia la discesa! Il versante O che scende su Ra Valbònes è, nel tratto apicale, moderatamente più ripido del versante E. Il terreno del ghiaione, chiamato anche Graon de Inpó Castel (tradotto dall’ampezzano: “il ghiaione dietro il castello”), è sufficientemente mobile da abbozzare cautamente una sciata! Il mio consiglio è di scendere in diagonale partendo dalla base della parete di Ra Sares. Si superano così agevolmente i primi ripidi metri e si abbandona il lato più a destra, verso la Croda Rossa, che ha una pendenza molto sostenuta.

fig. 38 Il tratto sommitale del ghiaione di Valbònes, subito sotto la forcella.
fig. 39 Divertente discesa del ghiaione.

Verso N, il panorama spettacolare della Pala de Ra Fedes e della vastità dei suoi ghiaioni.

fig. 40 La Pala de Ra Fedes sovrasta la Valbònes.

Tanto abbiamo impiegato per salire in forcella, quanto bastano pochi minuti di sciata su ghiaione per trovarsi al cospetto del Castel de Ra Valbònes.

fig. 41 Alle spalle, la Valbònes e la forcella Colfiédo.
fig. 42 Il Castel de Ra Valbònes; sul fianco erboso si distingue chiaramente il sentiero da imboccare.
fig. 43 Prossimi al Castel de Ra Valbònes, si aprono ai nostri occhi i famigliari profili del Becco di Mezzodì e del Nuvolau.

Ai piedi del Castel de Ra Valbònes, si imbocca la ben nitida traccia (non segnata sulle carte), con tanto di ometto (da quanto tempo!) e ci si dirige verso S.

fig. 44 La traccia da prendere verso S.

Si aggirano quindi le pendici del Castel de Ra Valbònes, virando verso O, per trovarsi dinnanzi ad un nuovo ghiaione da traversare agevolmente, avendo cura di non perdere quota, per raggiungere la sella prativa che offre accesso alla Valbònes de Inze.

fig. 45 La meta è la sella prativa che permette di accedere alla Valbònes de Inze.
fig. 46 Il ghiaione si supera trasversalmente senza alcuna difficoltà considerata la scarsa pendenza.

Terminato il ghiaione, in breve si raggiunge la sella erbosa, con magnifica vista sull’amena e verde Valbònes de Inze. All’orizzonte, da destra, si distingue il Bechei di Sopra, 2794m; Forcella Ciamin; Cima Dieci, 3026m; Cima Nove, 2968m.

fig. 47 Il panorama sulla Valbònes de Inze.
fig. 48 Il Monte Sorapis incorniciato.

A questo punto, è possibile attraversare interamente la Valbònes de Inze oppure prendere come riferimento un paio di pini cembri che sorgono sul bordo S del catino (si distinguono in fig. 47) e scendere con via più diretta ma sicuramente più ripida tra agevoli salti di roccia ed erba sino al Casón de Leròsa, 2035m

fig. 49 Pini cembri secolari nella tipica zona di gradoni erbosi tra Valbònes de Inze e Leròsa.
fig. 50 Fino ad intravedere il Casón di Leròsa!
fig. 51
fig. 52 Cavalli allo stato brado pascolano sotto la Pala de Ra Fedes.

Rifocillati alla sorgente presso il Casón de Leròsa, si può ora scendere comodamente lungo la mulattiera militare che traversa forcella Leròsa, zona di importanza strategica durante la prima guerra mondiale per la presenza di un importante avamposto militare. Sulla sinistra, si supera ciò che resta del cimitero austriaco che accolse 95 caduti di diverse nazionalità (poi esumati dopo il conflitto e trasferiti presso l’ossario del Passo Pordoi). Si procede quindi la discesa attraversando la Val de Gòtres. Si perde drasticamente quota e, poco sopra i 1600m, si intersecano le tre sorgenti del Rufiédo, di cui la prima impressione per la portata, specie considerando che queste acque provengono dagli alti circhi della Croda Rossa, appena traversati, e confluiscono per via sotterranea, fino a questo luogo. Da lì in breve, si giunge al parcheggio dove si è posteggiata l’auto.

fig. 53 La prima e più impetuosa sorgente del Rufiédo.

Per ulteriori spunti, consiglio la lettura della relazione del mio compagno d’avventura Paolo e la rappresentazione virtuale dell’itinerario su mappa!

Anello Ra Stua – Lerósa – Tremonti – Fósses – Rif. Biella – Ucia de Senes – Rif. Fodara Vedla – Ra Stua… (e le origini della saga del Regno dei Fanes).

DIFFICOLTA’ COMPLESSIVA: E fino alla Crosc del Grisc. T tutto il resto dell’itinerario.
DURATA: 8 h – DISTANZA: 17 km – DSL: 882m +

DATA: 6 settembre 2020

PREMESSE

Con somma gioia, il mio compagno di avventure è oggi mio padre, quasi prossimo ai settant’anni! Ho quindi studiato un itinerario che sia privo di difficoltà tecniche e pericoli oggettivi. Un itinerario che, se non fosse per la lunghezza, potrebbe essere definito turistico (T) ma che definirò per escursionisti (E), anche per la richiesta capacità di orientamento nella prima parte del percorso. Il primo tratto dell’itinerario, infatti, si svolge su un vecchio sentiero, oggi traccia che traversa l’area di Lerósa, Tremonti e Pian de Socrode, con incantevole alternanza di prati e bosco rado, ai piedi della Pala De Ra Fedes, per poi guadagnare quota superando un valico tra Sote Socroda e lo spigolo SO di Ra Geralbes. Superata questa prima parte, la traccia si congiunge poco dopo con la Crosc del Grisc nel sentiero segnato (e ben battuto) n. 26, traversando una delle zone, a mio avviso, più spettacolari e magiche delle Dolomiti. Volendo proprio essere precisi, si potrebbe stabilire che da Casòn de Lerosa alla Crosc del Grisc il percorso è classificabile come E, solo per la necessità di orientarsi (peraltro sempre agevolmente); tutto il resto dell’itinerario è classificabile come T, sempre e comunque tenendo a mente il fattore lunghezza complessiva. Un’ultima nota prima di procedere con la descrizione dell’itinerario: la prima parte del percorso era una volta un sentiero, il sentiero “0”. Questo è stato dismesso negli anni al fine di disincentivare il turismo che, complice la vicinanza di Malga Ra Stua, comprometteva l’integrità di una zona naturale di elevato interesse naturalistico. Sebbene la montagna dovrebbe sempre oggetto di attenzione e cura da parte di chi vi accede, si invita, a maggior ragione affrontando tale itinerario, a mantenere una condotta rispettosa dell’ambiente che circonda. E l’allusione non ha certo ad oggetto il solo divieto assoluto di abbandonare rifiuti ma, anche, il più semplice obbligo di procedere con passo silenzioso ed attento, al fine di non disturbare i pascoli di camosci e cavalli selvaggi che albergano questo paradiso incontaminato.

RELAZIONE DELL’ITINERARIO

La partenza dell’itinerario è il rifugio malga Ra Stua, 1695m. Pochi metri dopo il rifugio, si incontra una vecchia mulattiera militare che si innesta sulla destra. Questa permetteva durante la prima guerra mondiale di raggiungere un importante avamposto militare austriaco nei pressi di forcella Lerósa ; la si imbocca e si inizia la risalta. Ci si inoltra presto in un bosco che, all’occhio attento, si distingue dai soliti boschi dolomitici. Agli abeti si alternano, infatti, larici e pini cembri. Questi ultimi, in particolare, avvicinandosi a Lerósa, diventano sempre più frequenti: vere e proprie opere d’arte secolari, antichi fino a 500 anni. A quota 1900m circa, là dove il bosco diventa più rado e lascia spazio ai pascoli d’alta quota, poco dopo aver attraversato un ruscello, si abbandona la mulattiera e si inizia la salita sul pendio prativo, direzione E – NE, senza alcuna traccia evidente, mantenendosi sulla sinistra orografica del rio.

fig. 1 Si sale a sinistra abbandonando la mulattiera, senza alcuna evidente traccia.

Si esce quindi dal bosco e ci si trova di fronte ai favolosi pascoli di Lerósa, al cospetto del gruppo della Croda Rossa.

fig. 2 Uscendo dal limitare del bosco.
fig. 3 La Croda Rossa.

Alle spalle, la vista è spettacolare. Da sinistra, si susseguono le Tofane, la Croda del Vallon Bianco, la Croda de Antruiles e il Col Bechei de Sora.

fig. 4

Il Casòn de Lerósa è a pochi metri di distanza ma ancora non si vede; ci si tiene, invece, vicini al ruscello, fino ad incrociare un’evidente traccia che consente di guadare agevolmente.

fig. 5 Il ruscello da guadare.

Ora si traversa l’area superiore di Tremonti, in direzione N.  Il termine “Tremonti” indica, appunto, i tre dossi collinari al limite NO del pascolo di Lerósa. Si procede su prati, spesso acquitrinosi, sino a giungere ad una piccola e pianeggiante radura, dove si trovano le sorgenti che alimentano il Ru de ra Cuódes (dall’ampezzano: “rio delle cuódes”, le pietre utilizzate dai contadini per affilare la lama della falce), che a valle si immette nell’Aga de Ciampo de Crosc, poche centinaia di metri sopra Ra Stua.

fig. 6 La radura con alle spalle la Pala de Ra Fedes.

Entrando nella radura, ai piedi della Pala de Ra Fedes (dall’ampezzano: “cima delle pecore”) si continua, in leggera discesa, verso N, entrando nuovamente nel bosco.

fig. 7 La traccia torna ad essere temporaneamente visibile ed entra nel bosco.

Si scende ora con maggiore decisione fino ad intersecare un ulteriore ruscello, che si supera con semplicissimo guado. Si intravede, da qui con chiarezza, la traccia che sale il ripido pendio. Paul Grohmann, camminando per queste tracce nel 1862, scriveva: “subito dopo Lerosa si passa il Ru dei Tre Monti, poi la località Socroda, ed infine la Val Monticello al suo sbocco”.

fig. 8 Si intravede la traccia che risale il costone.

Qui la traccia, che fino ad ora era solo a tratti visibile, inizia ad essere evidente, ed attraversa una fitta area di pini mughi, fino a giungere al limite di una lingua franosa. Una serie di ometti segnala con chiarezza la direzione da seguire per uscire dalla lingua franosa ed immettersi sulla traccia che risale il costone roccioso. Poco prima dell’inizio della salita, si intuiscono sulla traccia due sbarramenti operati con pietroni posti di traverso. Non è chiaro il perché si trovino in quel punto preciso… ad ogni modo, li si ignorano e si prosegue la salita, senza alcuna difficoltà rilevante, su rocce franate comunque sempre stabili, individuando talvolta degli ometti.

fig. 9 La traccia sale su terreno franoso sempre comunque stabile e sicuro.
fig. 10 Ultimo tratto ripido della traccia.

Alle spalle, il panorama è grandioso. Si vedono con chiarezza le radure poco prima attraversate sopra Tremonti. In direzione S, si staglia la Croda de R’Ancona, 2366m, e, in fondo sulla sinistra, il Sorapis.

fig. 11 Il terreno su cui si è svolto finora il tragitto, con la Croda de R’Ancona di sfondo.

La pendenza della traccia diminuisce quindi drasticamente e si giunge in un’amena area prativa alberata, sotto la parete del costone roccioso, da cui si procede intuitivamente verso una sella erbosa, a quota 2100m circa.

fig. 12

Guadagnata la sella erbosa, il panorama muta radicalmente. Si apre di fronte una conca che alterna grandi blocchi di pietra con mughi. Sulla destra, si erge il versante occidentale della Croda Rossa Pizora.

fig. 13 La conca di pietroni e mughi. Il sentiero passa sulla destra del tronco semi-morto di un pino cembro, apparentemente divelto da un fulmine.
fig. 14 La Croda Rossa Pizora.
fig. 15 Un blocco di pietra segnato da tipici solchi carsici.
fig. 16 La conca presenta un continuo saliscendi tra blocchi di pietra e mughi.
fig. 17 Sulla sinistra, a O, si può ammirare in primo piano il profilo di Cima Nove (Sasso delle Nove), 2968m, e, subito dietro a sinistra, Cima Dieci, 3026m.

La traccia punta ad una sella erbosa leggermente più elevata, che permette di uscire dalla conca, a quota 2200m circa.

fig. 18 Leggera salita della sella. E’ evidente la traccia tra i mughi che attraversa la conca.

Superata la sella, si apre un nuovo immenso panorama mozzafiato: al centro, la Croda del Becco, 2810m, verso la cui direzione ci si dovrà dirigere traversando la magnifica Alpe de Foses o Fosses.

fig. 19

Il sentiero costeggia ora lo sperone occidentale della Croda Rossa Pizora, perdendo leggermente quota. Dalla cresta rocciosa, un camoscio ci sorveglia attentamente.

fig. 20 Notare il camoscio sulla cresta, a sinistra.

Traversando un breve tratto di grandi pietre franate, si continua a perdere quota fino a intravedere, a O, la Crosc del Grisc sita sul battuto sentiero n. 26 che, in breve, si finisce per intersecare. Ed ecco la storia della Crosc del Grisc. Una storia di amore e sangue, accaduta nel 1848. Amore tra Simone Alverà di Cortina, chiamato il Griš, probabilmente a causa dei capelli grigi, pastore di pecore sull’alpe di Foses, e Annamaria De Luca. Sposati nel febbraio del 1848, i due iniziano a convivere. Presto, tuttavia, si resero conto che la loro unione era insostenibile. Litigavano costantemente e, a quanto pare, in linea con gli usi dei tempi andati, Simone alzava spesso le mani sulla moglie. Ad agosto dello stesso anno, Simone era ripartito per i pascoli di Foses e la moglie decise di raggiungerlo. Recò con sé uno zaino che, oltre ai viveri, nascondeva un’ascia. Raggiunto il marito, ubriacatolo con una bottiglia di vino o grappa che aveva portato con sé, la moglie estrasse l’ascia e lo colpì. Era il 3 agosto 1848. La moglie sarà poi imprigionata e sconterà la pena dell’ergastolo nella prigione dei Piombi di Venezia.

fig. 21 In lontananza, la Crosc del Grisc.

Il sentiero n. 26 traversa, a O, un’evidente profonda conca carsica che ospita il Lago di Remeda Rossa o Lago de Remeda da Rosses, caratterizzato dal tipico colore delle rocce della Croda Rossa.

fig. 22 Il lago visto nei pressi dell’intersezione con il sentiero n. 26.
fig. 23

Si supera quindi un’ampia sella prativa, parzialmente acquitrinosa, che conduce all’alpe di Fósses, con incantevole veduta del Lago Pizo (o Lago Piccolo, anticamente anche Lago Morto) e del Lago Gran de Fósses (o lago de Fósses). Purtroppo, non posso esimermi dal criticare l’installazione di orribili grate di plastica, presumibilmente poste per favorire il transito degli escursionisti nell’area acquitrinosa. Sarebbe sufficiente, infatti, salire di pochi metri sul dosso prativo circostante per risolvere serenamente il problema, senza alcuna fatica o rischio per l’escursionista. Le medesime orribili installazioni sono presenti in tutta l’alpe di Fosses. Ciò mi lascia gravemente perplesso e mi porta a riflettere sul senso e l’essenza stessa di un’escursione alpina.

fig. 24 Il magico panorama dell’Alpe di Fósses, con il Lago Pizo (piccolo) e, a destra, il Lago de Gran Fosses.
fig. 25 L’abominevole pavimentazione di alcuni tratti del sentiero n. 26, spiega, da sola, perché WINDCHILI preferisce sempre percorrere antiche tracce dimenticate anziché sentieri battuti.

Scesi nell’alpe di Fósses, si supera una piccola baita, sita sulla sponda occidentale del Lago di Gran Fósses.

fig. 26
fig. 27

Il lago di Gran Fósses è un luogo magico: ai piedi della Remeda Rosses, 2605m, è l’unico lago perenne tra i tre laghi di Fósses. Un luogo di solitaria contemplazione, dove il fascino dei paesaggi si combina con la magia della leggenda. Una leggenda, purtroppo, generalmente ignorata dai più che, tuttavia, costituisce la più complessa e antica saga epica italiana. Alludo alla saga del Regno dei Fanes, codificata dall’antropologo Karl Felix Wolff (1879-1966), che per primo ha messo su carta una storia tramandatasi oralmente dalla popolazione ladina per quasi tremila anni. In particolare, gli studiosi ritengono che gli eventi narrati nella saga del Regno dei Fanes possano avere avuto inizio in un periodo compreso tra il 900 e l’800 a.C. Osservando i mutamenti climatici post glaciali, si potrebbe invece ritenere che la saga sia ambientata intorno al 1000 a.C., periodo di lieve rialzo termico. Tali condizioni ambientali favorevoli avrebbero infatti permesso di abitare tutto l’anno i pascoli sopra i 2000 metri. Ciò premesso, per quanto qui interessa, la saga del Regno dei Fanes esordisce verosimilmente proprio nei luoghi attraversati dall’itinerario qui descritto. Segnatamente, si narra che una donna, Molta, in punto di morte, lascia la propria figlia neonata ad una vecchia anguana (una sorta di ninfa alpina) che abita una caverna sulla Croda Rossa. Le marmotte, che osservavano, raccolgono il cadavere di Molta e lo portano via, nascondendolo in un crepaccio. L’anguana si affeziona alla piccola e la adotta, dandole il nome di Moltina. Già questi primi elementi possono farci ipotizzare che la vicenda sia ambientata proprio sull’alpe di Foses. L’anguana è, infatti, una figura mitologica legata all’acqua, e l’alpe di Foses è il luogo circostante la Croda Rossa che abbonda di più acqua, sotto forma di laghi e sorgenti. La leggenda specifica, inoltre, che altre anguane vivevano nei laghetti più a nord e che ogni mattina la vecchia anguana era solita alzarsi al primo albeggiare per ammirare, fuori dalla sua grotta, il sorgere del sole. Ciò farebbe ipotizzare che la caverna leggendaria fosse sita sulla parete S della Rémeda Rosses, a metà via tra il lago de Rémeda Rosses ed i laghi Pizo e Gran de Foses. Da questa angolazione, infatti, è possibile ammirare il sorgere del sole dietro le più alte cime della Croda Rossa Pizora (Croda Rossa piccola). (Una curiosità: esistono attualmente almeno una caverna, una grotta e sette pozzi sulla Rémeda Rossa, tra i 2300 e i 2500m). Ancora, in tutta l’area di Foses sono ad oggi conosciute più di un centinaio di cavità, tra pozzi, inghiottitoi e meandri, alcune di grandi dimensioni e considerevoli sviluppi, che potrebbero coincidere con il crepaccio dove il cadavere di Molta viene nascosto. Ancora, un dato che emerge dalla ricostruzione di Wolff è che la caverna dove viveva la vecchia anguana con Moltina era esposta al vento di ponente; ciò avvalora appunto l’ipotesi che la grotta fosse localizzata sul versante orientale della Croda Rossa, apertamente esposto ai venti di ponente. In ultima, Wolff ci racconta che Moltina “a volte raggiungeva altre Anguane che vivevano presso un lago in un luogo più alto. Questo luogo è un deserto roccioso abitato da molti camosci che si estende dalla Croda Rossa fino al Sas dla Porta (nda: Croda del Beco) ed è formato da una lunga fila di cime frastagliate e in mezzo ad esse bianche pietraie alternate a laghetti e prati fioriti“. Tale area coinciderebbe, anche come descrizione, con le pendici E e O comprese tra forcella Cocodain, la Croda de Foses e Monte Muro, che rappresentano una linea di congiunzione tra la Rémeda Rosses e la Croda del Beco. Oggi il territorio in questione appare brullo, con alternanza d’erba e pietraie, e non vi sono laghetti. Tuttavia, nel 900/1000 a.C., è lecito supporre ve ne fossero in abbondanza, considerata la presenza attualmente documentata di innumerevoli doline, una volta probabilmente colme di acqua. Tutto quanto sopra descritto non ha invero il fine di dimostrare un eventuale fondamento reale dei fatti narrati dalla saga quanto, piuttosto, evidenziare come già tremila anni fa questi luoghi fossero conosciuti e chi li abitava ne fosse affascinato al punto da costruirci attorno una saga epica come quella del Regno dei Fanes.

fig. 28 Lago Gran de Foses e Remeda Rosses.
fig. 29

Riprendiamo ora la descrizione dell’itinerario. Tenendo il lago sulla destra, il sentiero risale una tipica zona di campi carreggiati o campi solcati, prima di deviare con decisione verso NE, in direzione della Croda del Becco.

fig. 30
fig. 31

Il sentiero si inoltra ora in un continuo saliscendi, attraversando un paesaggio brullo e lunare, fino a giungere al rifugio Biella, 2327m.

fig. 32

Dal rif. Biella, si continua su ampia mulattiera, sent. 6, costeggiando il versante S della Croda del Beco, 2810m.

fig. 33 La ripida parete S della Croda del Beco.

Si procede fino ad incontrare un crocevia di sentieri che si innestano sulla mulattiera e si imbocca il sentiero 6a, che, offrendo una magnifica vista del Monte Sella di Sennes, 2787m, conduce brevemente all’Ucia de Senes, 2126m.

fig. 34 Il tragitto svolto dalla Croda del Beco.
fig. 35 Monte Sella di Sennes.

Costeggiando una curiosa pista erbosa d’atterraggio dismessa, costruita nel 1968 dagli alpini della Tridentina in periodo di guerra fredda, si inizia a perdere quota seguendo il sentiero 7, fino a giungere al rifugio Fodara Vedla.

fig. 36 La pista d’atterraggio costruita nel ’68. E’ lunga circa 450 metri e, probabilmente, era già stata sfruttata nella prima guerra mondiale.
fig. 37 La chiesetta costruita dalla famiglia proprietaria del rif. Fodara Vedla.

Si segue ora il sentiero n. 9, antica mulattiera militare utilizzata durante la prima guerra mondiale. Il sentiero traversa le rive del lago de Rudo, a 2000m, per poi scendere con ripide serpentine fino a Cianpo de Crosc, a circa 1700m.

fig. 38 Vacche al pascolo nei prati antistanti il rif. Fodara Vedla.
fig. 39 Lago de Rudo e, dietro, i Lavinores, 2462m.

Si segue, quindi, la mulattiera sentiero n. 6 che conduce a valle e, in breve, al rif. Malga Ra Stua. Una curiosità storica sul nome Ra Stua. “Stuar“, in dialetto veneto, significa chiudere. Ra Stua, letteralmente, significa “la chiusa” ed il nome trae appunto origine da una chiusa costruita nel ‘600 da Giovan Maria de Zanna al fine di agevolare la fluitazione del legname lungo l’alveo dell’Aga de Cianpo de Crosc.